Carlo Favron, il Federale




Dopo l’8 settembre del 1943 a Selvena, come in altri paesi, si formarono dei gruppi partigiani. Erano giovani uomini, che si davano alla macchia per sfuggire alle ripercussioni dei fascisti e delle truppe tedesche in ritirata, che creavano enormi disagi alla popolazione, con rastrellamenti e angherie varie. I partigiani si nascondevano nei boschi, dentro a dei rifugi costruiti per l’occasione, ben nascosti dalla fitta vegetazione e difficili da scovare. A Selvena in quel periodo, comandava e gestiva la situazione Carlo Favron (Favrò per i selvignani); costui era ministro per conto della società Monte Amiata, sia per la parte mineraria che per quella agricola. Aveva il potere di decidere le sorti delle famiglie del nostro paese. Grazie anche alla carica di segretario del Partito Nazionale Fascista aveva anche un grosso peso politico. Chi stava dalla sua parte riceveva quei benefici, che permettevano di avere una migliore condizione sociale ed economica. Infatti alle persone che lo sostenevano dava lavoro nella miniera del Morone, o nell’azienda agricola di Cortevecchia, ricompensava chi non gli arrecava problemi elargendo le tessere che servivano per il razionamento del cibo e del vestiario. Chi invece si schierava contro, prima o poi doveva fare i conti con il suo potere e la sua autorevolezza. Favron aveva la potenzialità di tenere sotto di sè un paese di duemila persone.

Questo personaggio, viene ricordato come un “omone” di grossa stazza fisica, di bella presenza, che incuteva rispetto; aveva anche una moglie e tre figli.Analizzando la sua personalità si può dire che per alcuni è stato un benefattore e per altri un oppressore. Agli operai dava la giusta paga, mentre ai contadini, ritenendo che si fossero già appropriati di buona parte del raccolto durante la trebbiatura, toglieva loro fino all’ultimo chicco di grano, alimentando così sempre maggiori dissapori che portarono a quella ribellione che decretò la sua fine. Una mattina di febbraio, infatti Favron si sentì bussare alla porta: erano dei giovani partigiani che gli intimarono di seguirli; l’uomo uscì con loro, dopo essersi vestito. Lo fecero camminare a braccia alzate mentre usciva dal paese, arrivarono fino a Montebuono dove sostarono per qualche giorno. Proseguirono per i pianetti di Sovana e poi scesero lungo la Fiora, dove dopo avergli tolto gli stivali lo fecero camminare a piedi scalzi nel fiume per fargli sentire quel dolore che anche loro quotidianamente provavano essendo privi di scarpe. Arrivarono poi nei forteti dei Poggialti, lungo la strada del Ghiaccialone e qui dopo un breve processo gli fecero scavare la fossa. Durante questa odissea si dice che Favron non abbia mai perso quello sguardo fiero e il fare minaccioso, dicendo ogni tanto in tono di sfida, che se lo avessero liberato sarebbe tornato a Selvena e l’avrebbe bruciata tutta. In punto di morte si dice che avesse gridato ancora una volta: “Viva il Duce”.

Dopo la scomparsa dalla scena di Favron, ci fu la vendetta dei suoi familiari e dei fascisti ai danni del paese; il 2 marzo del 1944 un gruppo armato capeggiato dal figlio Sergio, diede fuoco all’osteria del Niccolai dove si riteneva che si ritrovassero i partigiani. Nei giorni a seguire, ci furono tremendi rastrellamenti dentro alcune case per cercare delle persone sospette di aver aiutato i “ribelli” nel rapimento di Favron. Dalle case fu portato via l’olio, il vino, il pane e tutto ciò che serviva al sostentamento delle famiglie. La gente fu terrorizzata dai modi brutali dei fascisti e dei tedeschi. Si racconta, che nella casa del guardiano della miniera Egisto Sacchi che viveva alle “Dainelli” un giorno arrivarono dei soldati che con arroganza chiesero del pane che era stato appena fatto. Un tedesco per mangiare si tolse i guanti e li appoggiò sopra alla madia, il coperchio venne sollevato e questi finirono dietro al mobile; quando il militare andò per riprendere i guanti, non vedendoli più, pensò che gli fossero stati rubati. Imprecando, puntò il fucile al petto dei figli del Sacchi il quale rovistando in terra fortunatamente li ritrovò, salvando la vita della propria famiglia. I ragazzi più piccoli ebbero talmente paura ditale episodio che non dormirono per alcune notti. Sempre in quei giorni uno dei più famosi partigiani della zona un certo “Aldo” di Pitigliano, fu ferito in uno scontro a fuoco e si rifugiò nella nostra parrocchia. Il parroco, don Augusto, dopo avergli prestato le prime cure, lo aiutò a nascondersi dalle grinfie dei tedeschi. Costoro venuti a conoscenza di questo fatto, minacciarono il prete di morte, se non avesse rivelato loro dove si trovava il ribelle. Don Augusto rispose con tutta calma alle interrogazioni che gli venivano fatte dicendo infine: “ Quando un uomo viene a confessarsi io non chiedo di che partito è!”. I soldati infuriati se ne andarono e Aldo riuscì così a salvarsi. Sicuramente per il paese quello fu un periodo di preoccupazione e di terrore, che si attenuò solo dopo il passaggio delle truppe alleate che liberarono le persone da una morsa opprimente.

Fonte: Viaggio nei ricordi del nostro paese, Selvena dal 1900 ad oggi di Stefano Fontani

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