Lo scrigno della terra



L’aspetto esterno non farebbe mai supporre l’enorme ricchezza, che la nostra terra cela: ricchezza, che non solo i moderni, ma anche gli antichi, conobbero e attinsero a piene mani con i mezzi a loro disposizione. Il ritrovamento di arnesi antichissimi avvenuto nelle diverse zone del nostro territorio, ci dice chiaramente come, fin dalle epoche più remote, almeno le miniere di cinabro fossero conosciute e scandagliate, non solo in superficie, ma anche in profondità . Fissare una data, sia pure approssimativa, dell’origine delle nostre miniere, della ricerca del cinabro, penso sia cosa impossibile. Certo è che gli etruschi prima, i romani poi, senza scendere all’età di mezzo, vi lavorarono sicuramente. Voglio anzi riferire un fatto accaduto nel 1878, che proverà, meglio di qualsiasi discorso, l’antichità della ricerca nelle nostre miniere. In quell’anno dunque, mentre la Società Mineraria Parigina della Senna faceva scavare gallerie di saggio nella località di Poggio Felcioso, circa quattro chilometri a sud dell’abitato di Castell’Azzara, i lavoratori trovarono una piccola moneta d’oro, e alcuni scheletri umani. « Avvisato di questa scoperta l'ingegnere direttore dei lavori, Sig. Enrico Fasinski, questi poté leggere nella moneta ritrovata questa greca iscrizione: Filippo Macedone. Di tali monete ne esiste soltanto un’altra uguale nel museo britannico di Londra e gli intendenti di numismatica affermano che queste monete venissero fuse dopo la battaglia di Cheronea (anno 338 a. C.) nella quale i greci perdettero la propria indipendenza. « La moneta trovata nelle escavazioni di Poggio Felcioso trovasi attualmente in possesso del sig. ing. prof. Fuchs di Parigi. Parla di questo fatto anche l’ing. Primat, in un suo bel volume intitolato: Note sur les gites de mercure du monte Amiata... torno XIV degli Annales des Mines 8 serie, fase. IV, Paris, 1888 » . La scoperta fa indubbiamente credere che le miniere esistessero già 300 anni prima della nascita di Cristo, e si può pensare che la moneta sia stata perduta da mercanti greci, o da venditori, che l’avessero ricevuta in pagamento del mercurio o del cinabro. Ciò, se non vogliamo tener conto degli attrezzi preistorici elencati in margine.

Che il cinabro fosse conosciuto dagli etruschi e dai romani, magari sotto vari nomi, non si può assolutamente mettere in dubbio; sappiamo anzi che non solo sapevano apprezzare il suo bel colore rosso per la pittura (le pareti degli ipogei affrescati a colori vivacissimi ne fanno tuttora lede), ma ne estraevano l’argento vivo con il fuoco, ed operavano pure la conversione del mercurio in vermiglione (ant. minio) amalgamandolo con lo zolfo. E con il minio « dipingevano in rosso le lettere maiuscole dei libri, per ornamento ». Del resto anche Ovidio, nella sua opera « Cose tristi » ci dice che « il suo libro non avrà mai un bel titolo rosso di minio e le sue pagine non saranno unte con il cedro ». Per mille altri usi adoperavano gli antichi il cinabro; per dar colore alle statue degli dèi e si dice che anche « le mani dei trionfatori, che recavano le insegne di Giove, dovevano essere tinte di rosso » Il minio servia pure per la confezione di speciali biacche cosmetiche ad uso delle donne, con risultati qualche volta disastrosi per la pelle e per la salute stessa, in quanto, oltre alle sostanze tossiche, che venivano messe in circolo attraverso i pori dell’epidermide, questi ne restavano occlusi, impedendo cosi la normale traspirazione.

Nel primo medio evo invece fu piuttosto trascurata la ricerca del cinabro, soprattutto per i flagelli, le guerre e le invasioni, che si abbatterono sull'Italia in generale e sulla Maremma in particolare. Tuttavia vediamo tanto nel primo (1216) quanto nel secondo e definitivo arto di divisione della Contea Aldobrandesca (1274), come le miniere d’argento (mercurio) di Selvena rimanessero indivise nonostante che, per territorio, spettassero al conte Aldobrandino di Bonifazio.

Riporto anzi la parte dell’atto stipulato in tale circostanza nel castello di Montecasoli, alla presenza di molti notabili di Siena e di Orvieto, e presente pure il Vescovo di Sovana, David Dandino, il giorno 11 dicembre 1274. « Il castello di Santa Fiora, Roccastrada, Castiglione di Val d’Orcia, Arcidosso, San Prugnano e Selvena con le loro corti, uomini, vassalli e giurisdizioni; la qual parte, per comune volontà, fu assegnata al conte di Santa Fiora, ed egli conte, come sue, prescelse le sopradette terre, salvo che per quanto riguarda la miniera d’argento di Selvena, si deva procedere alla divisione per metà o al cambio, secondo l’arbitrio e la volontà dei signori Bonifazio Cacciaconti, Enrico Accarigi di Siena, Albizi ugualmente di Siena e Ranieri di Ugolino, i quali sul detto cambio o divisione devono pronunciarsi e decidere come arbitri entro tre mesi; e se entro tale tempo non fosse pronunciata la sentenza arbitramentale, il detto conte abbia la metà della nominata miniera d’argento ».

Le miniere di Selvena, che poi furono interamente dei conti di Santa Fiora passarono dagli Aldobrandeschi agli Sforza Attendolo per il matrimonio di Cecilia (una delle tre figlie del conte Guido Aldobrandeschi, morto senza maschi) con Bosio Sforza e, successivamente, per il matrimonio del conte Federico con Donna Livia Cesarini, nel 1486, alla casata Sforza-Cesarini di Roma.

Questa riprese lo sfruttamento delle miniere e fece edificare, nelle vicinanze di Selvena, magazzini e officine, anche per la confezione del vetriolo verde (solfato di ferro); officine ed attrezzature che furono descritte dettagliatamente, come dirò più sotto, da Michele Mercati.

Già ai primi del 1600 in una relazione sulla contea di Santa Fiora si legge: « Si ritrova anco nel detto stato e nel territorio, come si è detto, di Selvena, l’edifizio o cava del vetriolo, negozio di molta considerazione e frutto, per essere tal vetriolo di qualità buonissima, et il meglio che si trova; è necessario allo stato ecclesiastico per essere mancanti gli altri edifici, particolarmente quello di Monte Cavallo per mancanza di legna... »

Ma la più bella illustrazione delle cave del vetriolo in Selvena e quella che ci ha lasciato Michele Mercati, nella sua opera postuma del 1717, « Metallotheca vaticana». Egli non si limita alla descrizione sommaria dei minerali rinvenuti nella zona, ma riproduce in una nitidissima incisione le varie fasi della lavorazione del vetriolo, le fabbriche, le fusioni. Da tale incisione si può dedurre che tutta la lavorazione doveva essere fatta sulla sponda destra del fosso Canala e vicino alla rocca Belvedere, che da quanto appare, non era allora nelle condizioni disastrose in cui si trova oggi. Cosi si esprime il Mercati: « Quello che noi chiamiamo vetriolo romano, l’abbiamo veduto produrre in tale maniera, tanto a Bagnoregio, quanto nella contea di Santa Fiora, vicino alla rocca di Selvena, dove ogni giorno se ne fa in grande quantità: infatti da qualsiasi parte si scavi la terra, si trova una vena cuprica; per cui apposta fu chiamata Selvena, come cioè una selva di vene, in cui si trovano vene non solo di rame, di zolfo, di pirite, di antimonio, ma anche di molti altri metalli, di cui neppure la minima parte abbiamo trovato in altri luoghi d’Italia e non abbiamo mai saputo che altre persone ne abbiano rinvenuto » . La nuova lavorazione dei vetriolo, più facile e più redditizia, dette l’ultimo colpo alla produzione del mercurio, più costosa, e meno ricercato. Solo verso la metà del secolo XVIII fu ripresa la ricerca.

Il padre Paolo Agostino Battisti nel suo manoscritto (1750 circa) ci riferisce: « In questo luogo (Selvena) vi è il suo mulino, ed alcune stanze, fatte non sono molt’anni, per purificarvi il mercurio, le cui vene furono trovate nell’anno 1783, da un certo Sig. Stefano Mattioli da Camerino, che tenne in affitto alcuni anni e pagava alla casa Ducale scudi 400 all’anno. La dolorosa scena che accadde per queste cave l’anno 1743 quando le teneva in affitto un certo conte Masetti, assieme col nominato Mattioli, si dirà a suo tempo e luogo. Ora le nominate cave del mercurio sono state abbandonate, ed invece di quelle han ritrovato quelle del vetriolo, e vi si pose mano l’anno 17.., coll’assistenza del sig. Mario Orlandi di Città della Pieve, che vi è restato ministro. Fino ad ora pero non vi è licenza della Reggenza di Firenze di poterlo vendere fuori di contea. Si spera di avrla, ma in caso contrario, bisognerà dismettere anche questa».

Più dettagliatamente il prof. Giorgio Santi ci parla dei minerali rinvenuti nel suo primo viaggio per la Toscana. « Selvena si può chiamare da questa parte l’ingresso della maremma Senese. Noi ci misemo subito a girare nei contorni. Appunto di sopra al Palazzo (del Conte), se pure si merita questo nome, in un campo chiamato Poggio Paulorio, trovammo in copia piccoli e limpidissimi cristalli di rocca prismatici essaedri terminati dalle due piramidi, ed erano cosi a fior di terra.» « Di sotto al palazzo visitammo, lungo il fosso, un luogo chiamato le Zolfiere, ove sono varie sorgenti di acqua ferruginoso-solforosa, la quale deposita solfo e vitriolo verde, o solfato di ferro. In queste vicinanze compariscono anche a fior di terra le piriti marziali, o solfuri di ferro, dei quali si vede chiaramente doverne qui esistere gran copia nelle viscere della terra. Queste poi decomponendosi danno origine al gas idrogeno solforoso, al solfo, ed al solfato di ferro di cui sono impregnate quelle sorgenti. Qui vicino trovammo delle pietre gessose con dei cristalli di selenite, o solfato di calce.» «Poco più giù è la fabbrica del vitriolo verde con ampli e ben costruiti magazzini, nei quali viddemo una buona quantità di vitriolo caduto per lo più in effiorescenza, e che si andava decomponendo, e perdendo. La fabbrica stessa già famosa nei due passati secoli, benché modernamente ricostruita cori tutti i commodi, e senza risparmio di spesa, è adesso inattiva, trasandata, ed abbandonata. Causa di ciò è il ravvilimento di questa merce, ma più ancora la mancanza di spaccio in questo luogo fuor di mano, e di difficile accesso, onde il prezzo, che si ritrarrebbe dal vitriolo in concorrenza di altre simili fabbriche, non cuoprirebbe forse le spese. Non lontano di quà, presso il torrente chiamato La Canala trovansi pezzi isolati di antimonio, spesso cristallizzato a grossi prismi aggruppati insieme, ed io due superbi gruppi ne conservo nella mia collezione.» « Risalendo su verso le cave dcl cinabro, visitammo quelle di una terra granulosa, chiamata qui col nome di Marmorino o bianco o giallo.

Il giallo è composto, secondo un saggio da me fattone, di ferro, di calce, di argilla e silice. Se ne fa uso nel paese per sdirugginire, e forbir metalli e specialmente gli utensili d’ottone.» « Passammo quindi alle cave del cinabro, ossia del mercurio. Sono esse su per il poggio, scavate poco meno che a fior di terra, senza pozzi, senza gallerie, e con si poche braccia, che il lavoro era veramente piccolissimo. Soli tre uomini e questi non ancor sempre, i lavoravano, piuttosto grattando, che scavando la miniera, quando vi fummo noi.»

« Il cinabro si trova affogato nell’argilla, ed i pezzi, ch’io ne viddi già scavati, erano poveri, e scarsi di mercurio, e formavano tante glebe di marna argillacea. Queste glebe or son colorate da venature, e fioriture di cinabro nativo, ed hannosi per lo più ricche; or sono semplicemente turchinastre o bigioscure, che i minierai riguardano, come le più povere. Si presenta questa miniera di cinabro in vene, o filoni di glebe argillacee situati in una specie di terra gialla granulosa, ossia di marmorino giallo, e spesso con strati di pietra calcaria frammischiati ».

Per inciso faccio notare come sia il vetriolo che il mercurio venissero trasportati in fiaschi di vetro, a dorso di mulo, fino al porto di Talamone e da qui esportato. Ci avviciniamo ora all’epoca, in cui la produzione del mercurio superò di molto quella del vetriolo.

Un fatto di poca importanza, in apparenza, ma che credo determinativo, dette l’abbrivo alla riattivazione, su larga scala e con mezzi più idonei, dell’industria estrattiva.
Un certo Domenico Conti, detto Mecone, da Castell’Azzara, nel 1841, mentre guardava il suo bestiame nei possessi del Diaccialetto e nei campi del Fosso Rigo, raccolse a terra dei grossi pezzi di cinabro puro, messi allo scoperto dalle forti pioggie dell’autunno. Portati a casa e messi sulla stadera, pesarono più di quaranta libbre (circa Kg. 15).
Pensò allora di venderli, e andato a Pitigliano, dove era un fiorente commercio per opera di ricchi ebrei tra i quali i Bemporad e i Sadun (uno di questi ultimi, cognato dei fratelli Modigliani, industriali avviatissimi in Livorno) cedette per pochi soldi i suoi sassi rossi al farmacista e di li a poco caddero nelle mani degli israeliti.
I sassi allora viaggiarono per Livorno, e nel 1846, con atto del 10 ott. rogato Francardi, Mons. Domenico Menichetti, suo fratello Luigi e Pio Ricci, genero di quest’ultimo, che avevano acquistato molti terreni della vecchia contea Sforza-Cesarini, concedevano ad Azzaria Vita Leucci il diritto libero, esclusivo, perpetuo e liberamente cedibile di escavare e far proprie tutte e singole le sostanze metalliche e minerali di ogni specie che allora e in avvenire in qualsiasi tempo potessero rinvenirsi nelle viscere a qualsiasi profondità dei terreni di loro proprietà posti nel territorio di Castell’Azzara ».

Come corrispettivo della cessione, l’acquirente doveva pagare ai concedenti la somma di lire 4.000 toscane a fondo perduto e corrispondere loro la partecipazione del 6° del prodotto netto delle escavazioni, da estendersi al 7,50%, quando la lavorazione fosse protratta al di là di trenta anni. Per le miniere di Selvena dovevano ancora trascorrere quasi cento anni, perché fossero intensivamente sfruttate.
Con atto del sette aprile 1873, don Bosio Sforza, Conte di S. Fiora, cede per 99 anni, e cosi a tutto il 7 aprile del 1972 al signor Filippo Schwanzerberg, « il diritto esclusivo trasmissibile ed alienabile di scavare e far suoi il mercurio ed i minerali di mercurio, come il cinabro, e i minerali di antimonio e di zolfo e d’ogni altra materia metallica, salina e fossile di qualunque specie che potessero ritrovarsi nella tenuta o contea di S. Fiora », abbracciando la detta concessione le località conosciute sotto la denominazione di tenuta di Cellena, Selvena, Cortevecchia e Banditella.

Venuto a morte il 26 giugno 1885 il dott. Filippo Schwanzerberg, i diritti di escavazione passarono alle figlie Maria, Teresa, Beatrice ed Augusta. Morta pure, il 1° maggio 1898, la figlia Maria, la sua porzione fu devoluta alla sorella Beatrice, con la rinunzia in favore di lei fatta dalle altre sorelle. Nel frattempo moriva pure il cedente don Bosio Sforza ed i suoi eredi, con atto del 12 dicembre 1895, senza pregiudizio dei diritti di escavazione già accordati dal loro genitore alla famiglia Schwanzerberg, cederono, ai marchesi Carlo Ginori-Lisci e Giorgio Fossi di Firenze, il diritto di sottosuolo in tutti i beni, che gli eredi Sforza possedevano in comune, e che formavano la cosi detta contea di S. Fiora.
Fra gli altri patti veniva stabilito che la cessione dei diritti di sottosuolo ai signori Ginori e Fossi « veniva alligata alla condizione risolutiva che entro un biennio dal 12 dicembre 1895 essi avessero trovato un compratore del suolo e soprassuolo dei beni tutti compresi nella concessione per il prezzo e alle condizioni di che in detto contratto rogato Toti, 12 dicembre 1895 ».

Allo scadere del biennio, i marchesi Ginori e Fossi trovarono, nella Società per Azioni «The Santafiora Mercury Limited », il compratore che dovevano procurare per porsi in regola con il contratto ricordato, Cosi con atto dell’1l dicembre 1898, rogato Romei, la detta società acquistò dagli Sforza per il prezzo combinato di lire 875.000 le concessioni già dette. Da notare come la Società « The Santafìora Mcrcury Limited» fosse la nuova denominazione assunta dai signori Ginori, Fossi, Pelatan ed altri. Da questa tutti i beni costituenti la ex contea di Santafiora, con atto del 9 gennaio 1906 passarono alla società anonima delle miniere di mercurio del M. Amiata (oggi Società Mineraria M. Amiata) con sede in Abbadia S. Salvatore (Siena). Riassunti cosi brevemente i diversi passaggi delle miniere, prima di procedere ad una succinta nota chimica e mineralogica sul mercurio e suoi giacimenti cinabriferi del nostro sottosuolo, non voglio trascurare di far conoscere come in Castell’Azzara, da tempo antichissimo fino al 1900 ed oltre, veniva adoperato il cinabro, messo allo scoperto dalle alluvioni, ridotto in polvere e misto ad olio, per marcare il bestiame specialmente ovino e poterlo cosi distinguere, quando veniva collettivamente immesso al pascolo in montagna. La tinta che se ne otteneva, di un bel colore rosso vivo, era chiamata sinopia. Cosi pure era usato per contrassegnare la biancheria, e soprattutto in un’arte prettamente castell’azzarese, quella della incisione a punta di coltello e susseguente pittura. Tale arte era specialmente praticata dai pastori, che nelle lunghe giornate oziose dell’estate, quando le bestie menavano, incidevano con gli arnesi a portata di mano, manici e teste di ròcche, servitori, bastoni per appoggiarsi, tutta una infinità di ninnoli che facevano poi bella mostra in mano di giovani e di vecchi.

Emerse in questo genere di lavori Raffaello Guidotti (1825-1897) di cui possiamo ancora ammirare una bella cornice intarsiata, con scene di vita, ad un quadro di S. Giuseppe, che si conserva nella Chiesa parrocchiale. Ma è tempo ormai che ci occupiamo più da vicino del minerale piti importante della zona, il mercurio.

E’ l’unico metallo liquido a temperatura ordinaria: ma in natura difficilmente si trova in tale stato: solo in circostanze speciali, con temperature fuori del normale, può verificarsi il fenomeno. Si incontra invece, quasi sempre in forma di cinabro (solfuro di mercurio, HgS).

Il metallo è mobilissimo, scorrevolissimo, di color argenteo splendente, per cui gli antichi lo chiamarono argento vivo. Il trattamento del minerale cinabroso per l’estrazione del mercurio avviene con il surriscaldamento del cinabro stesso, in presenza di abbondante aria. La proprietà principale del metallo è quella di sciogliere quasi tutti gli altri metalli, meno il ferro, formando delle amalgame, da cui poi facilmente si separa per sublimazione. Svariate sono le applicazioni industriali, in cui trova posto il mercurio, o da solo, o unitamente ad altre sostanze. Viene messo in commercio in bottiglie di ferro (bombole), che hanno un determinato peso, Kg. 34,5.

Le miniere del Siele a Castell’Azzara e a Piancastagnaio (Siena), quelle di Selvena e di Abbadia San Salvatore (Siena) sono aperte su un giacimento che può essere considerato tutto continuo, benché si presenti sotto vari aspetti, più ricco o più povero, esteso per molti chilometri nella direzione N-S, come un ammasso di vene e di filoni, più o meno potenti, più o meno regolari, che si intersecano in vari sensi ed attraversano gli schisti inferiori del macigno, i calcari nummolitici, le ftaniti, gli schisti subordinati ed un calcare inferiore più antico . Varie sono le ipotesi sulla genesi del cinabro.

La più accreditata rimane quella di Fr. Posépny, che spiega, nella sua opera « Ueher die Genesis der Erzlagerstàtten », la formazione dei giacimenti per mezzo di soluzioni metallifere che producono vacui di corrosione e di dissoluzione. « Per spiegare il processo chimico della Formazione cinabrifera del Monte Amiata conviene prendere in considerazione la soluzione acida solforica, la quale giungendo dal basso nel calcare si apre la via attraverso gli strati calcarei o presso il contatto col galestro, formando cosi i vuoti per la deposizione dei prodotti di decomposizione e di scoscendimento ». Condizione quindi necessaria ed indispensabile per i depositi di cinabro è una roccia, che presenti interstizi capillari, tale da divenire porosa per l’azione di acidi. Del resto nella zona amiatina, il cinabro si trova disseminato nei più svariati terreni, sia per natura che per età, dai calcari del lias (miniera del Cornacchino), alle arenarie eoceniche(miniera del Siele), nel retico, nel nunimolitico e nel calcare eocenico superiore (miniera del Morone).

Fonte: Castell'Azzara e il suo territorio – Memorie storiche Vol.1 di Giovanni Battista Vicarelli