La miniera del Morone di Selvena



Che cosa ha dato la miniera a Selvena? Molte sono le risposte: lavoro,fatica, benessere, preoccupazione per i minatori che si addentravano nelle viscere della terra per scavare il cinabro. Questo minerale, ha contribuito sicuramente ad un miglioramento economico del paese e ha permesso un maggior sviluppo di case, negozi, bar e altre attività. Il cinabro è diventato parte integrante della vita del minatore, che se l'è sentito addosso, dentro i polmoni, fino a trascinare molti di questi operai prematuramente al cimitero. Cerchiamo ora di analizzare i vari periodi di attività della miniera. Il giorno 9 gennaio 1906, la società mineraria Monte Amiata, acquistò dalla società "The Santa Fiora Mercury Limited", la miniera del Morone e iniziò l'attività produttiva. Gli operai all'epoca lavoravano undici ore al giorno, con paghe bassissime, sfruttamento di manodopera giovanile e senza assistenza sanitaria. Per poter risolvere questi problemi, si dovette arrivare alle grandi lotte dell'ottobre 1914 e del giugno 1919, quando i minatori reclamarono commissioni paritetiche per la composizione delle vertenze di lavoro, casse per malattie professionali, farmaci ed infermerie adeguate per la miniera, sette ore di lavoro per gli interni e otto per gli esterni. La società Amiata venne a patti novantacinque giorni dopo. Le rivendicazioni continuarono anche sotto il governo fascista, che con arroganza e prepotenza creava molte difficoltà ai minatori; infatti le discussioni erano all'ordine del giorno. La conseguenza di queste proteste, portò alla perdita del posto di lavoro di buona parte dei quattrocento minatori tra Selvena, Castell'Azzara e Santa Fiora. Un altro grave problema di quegli anni era l'inadeguatezza delle misure di sicurezza, per questo motivo si verificarono diversi incidenti di cui due mortali. La ditta, verso la fine degli anni trenta, per aumentare la produzione di minerale, introdusse un nuovo tipo di lavoro denominato "Bedaux", il famoso "cottimo"; il minatore che riusciva a fare una maggiore produzione riceveva un salario più alto. Tutti si ribellarono a questa imposizione, che vide la sua fine con la chiusura della miniera nei primi anni trenta. Gli operai si trovarono a casa senza uno stipendio per poter aiutare la famiglia e nel paese ricomparve la miseria. La miniera riaprì per un breve periodo verso la fine del trenta, perchè il minerale veniva utilizzato per scopi bellici; dopodichè si andò incontro ad una nuova chiusura che durò fino al dopo guerra. Alla riapertura, gli operai lavoravano saltuariamente e si dovevano recare al lavoro a piedi o con mezzi propri; il lavoro si effettuava con arnesi manuali come la picca, la pala e il martello pneumatico. Venivano utilizzate delle maschere per la protezione dalla polvere, che si depositava nei polmoni dei minatori causando la silicosi. In seguito, per cercare di alleviare questo problema, furono usati degli aspiratori e dei martelli pneumatici ad acqua; per chi lavorava all'avanzamento, questo però non era il solo rischio a cui andava incontro. Spesso si doveva fare i conti con pericolose fughe di gas e di frane, che si verificavano all'interno della galleria; dal momento che si lavorava fino a centoventi metri di profondità, gli aiuti potevano risultare inefficenti.

Negli anni sessanta, per portare i minatori a lavoro, venne istituito un servizio pullman; il primo autista fu Francesco Guerrini che poi fu sostituito da Desiderio Ricciarelli, l'orario di partenza era fissato per le 5,20 al mattino e le 13,20 al pomeriggio, dal momento che gli operai lavoravano in turni di otto ore l'uno per cinque giorni alla settimana.

I minatori percepivano una paga in base alle giornate effettuate, a cui andava aggiunto il "cottimo", il sottosuolo e altre indennità varie. Per stabilire il pagamento del "cottimo", all'avanzamento, venivano misurati i metri fatti dagli operai, a cui i vari caposervizio incaricati di queste misurazioni, tendevano sempre a toglierne qualcuno, scatenando le ire e le proteste degli operai. All'avanzamento lavoravano due operai, che avevano il compito di liberare la galleria dal materiale franato per il brillamento delle mine del turno precedente; quando la galleria era sgombra dai detriti, veniva armato un nuovo tratto, togliendo la roccia pericolante e preparando nuovi fori per altre esplosioni. Quando il lavoro diventava pesante, il caposervizio affiancava loro un terzo operaio. Il materiale arrivava al Morone, sia dalla miniera del Ribasso che dalle Dainelli, da quest'ultima, su di una teleferica lunga ben novecento metri. Per caricare il cinabro sui vagoni, in un primo momento si usavano le pale, poi un macchinario innovativo per l'epoca; questo minerale veniva portato a cuocere nei forni, che prendevano il nome del loro coinventore, l'ingegnere Spirek, ed erano denominati forni a cupola; essi cuocevano il cinabro a ottocentocinquanta gradi centigradi. Questa temperatura, all'inizio veniva raggiunta bruciando la legna immessa in capienti focolari, in seguito si usarono dei bruciatori a nafta, che sostituivano gli uomini in quel faticosissimo lavoro. In fondo al forno dove il calore era maggiore, il cinabro arrostito, liberava il mercurio allo stato di vapore, che grazie a degli aspiratori, veniva convogliato in canali di condensazione, continuamente refrigerati. Da qui, colava in vasche a chiusura idraulica, nelle quali si depositava misto a tutti i prodotti della combustione. Periodicamente, veniva tolta quella percentuale di metallo puro, che veniva messo dentro a delle bombole del peso di kg. 34,5 l'una.

Nel settanta, la crisi mercurifera colpì le miniere del Monte Amiata, il prezzo della bombola subì una forte flessione e nel settantuno un vero crollo. La Società Monte Amiata, decise lo smaltimento della miniera del Morone; immediata fu la reazione dei minatori che occuparono la miniera, per impedire la chiusura dei forni e nel contempo per respingere i tentativi di smobilitazione della stessa. Tutte le forze politiche del Comune, entrarono con maggior vigore in azione, proponendo incontri chiarificatori con i responsabili della ditta Monte Amiata e con i rappresentanti del governo. Anche la popolazione di Selvena fece sentire la sua voce, le donne intervennero con energia protestando e picchettando il piazzale antistante la miniera. I selvignani si divisero in gruppi, effettuando dei turni di quattro-sei ore, per impedire laccesso dei camion alla miniera e il trasporto del minerale dal Morone ad Abbadia. Per sopperire al freddo pungente del periodo (eravamo a novembre), le donne si preoccuparono di accendere dei falò e nello stesso tempo, pensarono anche alla distribuzione del cibo ai minatori che erano rimasti all'interno della galleria.

La ditta, vista la resistenza degli operai e della popolazione, decise di far intervenire la polizia; quando questa arrivò sul luogo, si rese conto che la protesta aveva un fine giustificato: la salvaguardia del posto di lavoro. La contestazione rimaneva rigida ma non sfociava in atti di violenza e la sera, le forze dell'ordine decisero di ritornare in caserma, lasciando il disbrigo della questione tra la ditta e gli operai. In quei giorni tra i rappresentanti sindacali e i rappresentanti della società, si imbastirono febbrili contrattazioni; all'inizio non riuscendo a trovare nessun tipo di accordo Uble Fontani e Goffredo Fontani, che difendevano gli interessi dei minatori, uscendo da una riunione esposero agli stessi le difficoltà a cui andavano incontro per risolvere la trattativa in modo favorevole. Per esprimere ancora più marcatamente il proprio desiderio di lotta i minatori mostrarono alla Monte Amiata un cartello su cui era scritto: "Qui si cava e qui si coce". Gli incontri tra le due parti, proseguirono fino a quando la società decise di continuare ad estrarre il minerale, questa fu una piccola vittoria che coinvolse tutta la popolazione di Selvena. La crisi mereurifera, però, appariva inarrestabile e portò ancora ad altri incontri tra le forze politiche, i sindacati e le società che si alternavano nella gestione degli impianti minerari. L'attività produttiva della miniera del Morone, avvicendava dei periodi in cui tutto sembrava risolversi in maniera positiva, ad altri decisamente più critici. Si arrivò così al 1976, anno in cui la ditta, decise di usufruire della cassa integrazione viste le difficoltà di vendita del mercurio. Si effettuava un lavoro di turn-over che impegnava una trentina di operai per volta; il minerale che veniva estratto, era portato ad Abbadia per essere cotto. Si arrivò così agli anni ottanta dove ci fu una piccola ripresa del settore e per circa un anno e mezzo venne aumentata la produzione interna, ma nel 1985 si verificò il crollo irreversibile del mercurio e la miniera del Morone chiuse la sua attività definitivamente. Fino agli anni novanta qualche operaio rimase per controllare i lavori di tamponamento della galleria, dei forni e di smaltimento della miniera. Con la chiusura del Morone, scomparve un pezzo importante della storia e dell'attività lavorativa di Selvena. Oggi, quando si passa davanti all'ex miniera e si guardano i ruderi arrugginiti e quelle case con le porte e le finestre murate, ci ritornano alla mente gli anni in cui quel posto era affollato di operai, stanchi, sporchi, ma orgogliosi di quel duro lavoro e di quella vita da minatore. L'eventualità di creare un museo minerario nel sito del Morone, viene vista dagli abitanti di Selvena, come una rivincita per quegli operai che per tanti anni avevano sputato sudore nella miniera.

Per concludere vogliamo ricordare i nomi di alcuni direttori: negli anni venti-trenta Manfredi, nel dopoguerra il direttore generale con sede ad Abbadia Bonato, i responsabili a Selvena Gaz per la parte interna e Menotti per i forni. Passiamo ora alla descrizione di ciò che si trovava nella miniera:

1) Minerali presenti: Cinabro, Pirite, Realgar, Opimento, Melanterite, Alunite, Kermesite, Dawsonite, Mercurio nativo, Zolfo, Gesso, Anidride. Quarzo, Caleopirite-quarzo;

2) Sostanze estratte: Hg (Mercurio), Sb (Antimonio), S (Zolfo), Cu (Rame).

3) Descrizione naturalistica: Mineralizzazione cinabrifera posta in calcari canidriti retici; calcari nummulitici cocenici e formazioni argillose delle Liquiridi. Il giacimento si è sviluppato con disseminazioni, sostituzioni e patine intorno ai camini riempiti di argilla cinabrifera. La Stibina si ritrova associata a Gesso e Cinabro o in Quarzo. A Borghetto tracce di minerali cupriferi in ganga quarzosa;

4) Descrizione storica: Si tratta del giacimento minerario più noto per essere sfruttato con continuità in epoca preindustriale; vi sono stati rinvenuti arnesi in pietra ed armature ignee; il giacimento inoltre risultò sfruttato fin dove era possibile in antico, cioè fino al livello delle acque. Riaperto da Haupt nel 1873 produsse il primo minerale solo nel 1906. E attestata l'esistenza di una fornace.

5) Interpretazione storica: Oltre alle tracce di lavorazione di epoca preromana, disponiamo per le miniere di Selvena, di documenti medioevali che attestano lo sfruttamento da parte degli Aldobrandeschi, nel XV secolo. Biringuccio parla di una miniera di Antimonio, nei secoli XVI e XVII, è attestata anche l'estrazione del Vetriolo. La miniera di Mercurio, riaperta neI 1873, ha cessato la propria produzione nel 1985.

6) Epoche di sfruttamento: Preromana, Medioevale, Medicea, 1873 - 1882, 1889- 1985.

Fonte: Viaggio nei ricordi del nostro paese, Selvena dal 1900 ad oggi di Stefano Fontani