I fidanzamenti e i matrimoni a Selvena



Agli inizi del secolo, prima di convolare a nozze, c’era da affrontare un lungo fidanzamento, dapprima in modo non ufficiale poi, quando la coppia riteneva chr fosse giunto il momento opportuno, l’uomo si recava dal futuro suocero e chiedeva l’autorizzazione per poter stare con la figlia. Avuto il consenso, si poteva così uscire la domenica a braccetto con la fidanzata e si stabilivano i giorni della settimana in cui ci si poteva recare a casa di lei per starsene assieme. Durante la fase del corteggiamento, doveva passare del tempo prima di arrivare a “fare l’amore”, che poi non era altro che lo scambio di qualche bacio. La pratica vera e propria avveniva dopo un lungo periodo in cui i due stavano assieme, o spesso dopo essersi sposati. Il rito del matrimonio, che è la consacrazione dell’amore tra due persone, nell’arco del secolo ha subito diversi cambiamenti. Nei primi del ‘900 la condizione di povertà del paese, non permetteva i lussi e gli sfarzi di oggi e ci si accontentava di quello che si poteva avere.

Lo sposo, si faceva cucire un abito nuovo, meglio se di lana, da riutilizzare nella celebrazione di qualche festa religiosa paesana. L’abbigliamento si completava con una camicia e un panciotto; ai piedi il primo paio di scarpe fine. La sposa, che non possedeva l’abito bianco, salvo che in rarissime eccezioni, per ovvi problemi economici, affrontava il giorno del fatidico sì con un abito dai colori sobri, non vistosi, che poi avrebbe indossato in altre occasioni. In quei periodi, non era consuetudine portare le partecipazioni per mancanza economica e di tipografie; le bomboniere non usavano, solo in qualche raro caso la sposa preparava dei centrini all’uncinetto, che contenevano i confetti da dare agli invitati, I regali, nella maggior parte dei casi, erano oggetti di prima necessità.

Gli sposi, non possedevano niente, ricevevano in dono: un tavolo, delle sedie, dei piatti, dei bicchieri, tutte cose che perniettevano loro di mettere su casa. Ci si poteva sposare in chiesa o in coniune, chi decideva di mettere in atto quest’ultinia soluzione, era ritenuto pubblico peccatore dalle autorità ecclesiastiche e veniva espulso dalla comunità religiosa.

Chi si voleva sposare in chiesa, vi si recava a piedi; lo sposo passava con il suo corteo di invitati davanti alla casa della sposa e assieme continuavano il tragitto. Un problema rilevante, era lo scambio degli anelli; l’oro, che costava molto, non rientrava nelle possibilità dei futuri sposi, le fedi quindi, venivano prestate da parenti e amici che ne erano in possesso e venivano restituite finita la cerimonia. Dopo, quando si usciva dalla chiesa, non si usava tirare il riso perchè questo costava troppo, ci si arrangiava con i confetti, che potevano arrecare dei seri danni alle persone che venivano colpite in faccia o sulla testa. Il banchetto nuziale, veniva organizzato in casa dei genitori; alcuni infatti non avevano i soldi per permettersi gli invitati e pranzavano in famiglia. Gli altri (i più benestanti), chiamavano a festeggiare con loro, parenti, amici e anche il prete. Generalmente il pranzo di nozze aveva questo menù: maccheroni insugati con i dentri di pollo, taghiatini in brodo, pollo e castrato arrosto, cavolo, patate e qualche misero dolcetto; non esistevano antipasti e torte nuziali. Il vino che era infiascato precedentemente,veniva versato nei bicchieri che gli invitati si portavano da casa assienie alle forchette e ai coltelli.

Finito il pranzo, ognuno ritornava alle proprie case e gli sposi aspettavano con ansia il venir della sera per rifugiarsi nel letto. Solitamente per chi non aveva una casa propria (ed erano moltissimi), si andava ad abitare dai genitori dello sposo, oppure, se «era la possibilità, si affittava una casa, che poi non era altro che una misera stanza chiamata “la stanza degli sposi”, dove ci si recava solo per dormire. Generalmente, le famiglie dei suoceri erano molte numerose e non avevano stanze a sufficienza per poter lasciare un pò di libertà alle giovani coppie e quindi si era costretti a dover passare la notte in compagnia dei familiari in una camera divisa solo da alcune tende. Chi invece occupava la stanza degli sposi, si ritrovava nella maggior parte dei casi a trascorrere la notte con altre coppie che erano nella loro stessa condizione. In quei posti veniva così a mancare l’intimità necessaria, poi la vergogna passava e la voglia di prendersi in giro tra quei giovani la faceva da padrone. Dai racconti di alcuni anziani, si dice che in una stanza abitata da tre coppie di sposi, un marito, il più focoso, dopo aver guardato in faccia gli altri disse: “Che famo ragà? Sonamo?, la risposta fu “Va bè, sonamo!!”.

Negli anni successivi venne fuori l’usanza di offrire il rinfresco a chi non aveva partecipato al matrimonio.Venivano invitati i parenti più lontani e le persone del vicinato alle quali si offriva del caffè, del vino, alcuni dolci e del pane con il cacio e il prosciutto. Dopo aver mangiato e curiosato un pò i regali che erano stati portati, gli ospiti se ne ritornavano alle proprie case criticando o elogiando a seconda di come erano stati trattati. I dolci venivano cotti nei forni, ed erano tipici delle nostre zone come i genovesi, la parigina, il ciambellone, la crostata, i topi etc... Volevamo ricordare, grazie a delle testimonianze, anche il materiale che era stato dato in dotazione alle spose di alcune famiglie benestanti: coperte bianche e di colore, lenzuola, canovacci, salviette, federe, calze, sottane, qualche vestito, uno scialle, fazzoletti di lana per la testa, fazzoletti da naso, tovaglie con tovaglioli, un coltrone di lana, un materasso di foglie di granturco, un paio di guanciali, un ferro da stiro a carbone, un baule e una madia.

Dai racconti degli anziani ci viene ricordato di un’usanza particolare che riguardava i matrimoni in seconde nozze delle vedove o dei vedovi. Costoro, risposandosi con persone nubili, erano soggetti ad andare incontro ad una tradizione paesana, la scampanata sotto casa. Un gruppo di giovani, si recava la prima notte di nozze, sotto alla finestra degli sposi intavolando un concerto musicale con strumenti rimediati all’ultimo momento. Questo, era un avviso alla popolazione che la coppia stava facendo “all’amore”. Una signora, che rientrava in questa categoria di persone, al suono delle prime note musicali, si affacciò alla finestra e disse ai “musicanti”: “Voi sonate fori, che io sono di dentro!”. Questo generalmente era lo svolgimento dei matrimoni fino agli inizi degli anni quaranta. Da allora le usanze sono cambiate; le donne iniziarono ad usare l’abito bianco e i pranzi divennero più fastosi. Le coppie andavano ad abitare per conto loro in case proprie o in affitto, si cominciarono a fare i primi viaggi di nozze, dapprima in posti vicini e poi in luoghi sempre più distanti fino ad arrivare ai giorni nostri con una nuova evoluzione del rito, secondo il quale si va alla ricerca dell’impossibile.

Fonte: La mia gente, Cento anni di storia di un popolo di Lidiano Balocchi