La Rocca Aldobrandesca di Selvena



Al moderno viaggiatore, troppo distratto dalle frenesie della vita quotidiana, che percorrendo la strada provinciale 34, a circa due chilometri dall’abitato di Selvena, s’imbatte nelle vestigia di un”Antica Regina”, vogliamo narrare le gesta di un orgoglioso passato, perso nelle nebbie dei tempo, augurandoci di riuscire nell’umile intento di suscitare un’emozione. La fortezza di Selvena è, tra quelle sorte nei territorio amiatino indubbiamente la più antica e la più suggestiva.

Pergamene di epoca carolingia ritrovate nell’abbazia di San Salvatore e datate 833, 873 e 874, testimoniano già l’esistenza di un vico o casale denominato “Silbina”, probabilmente sorto attorno ad un primitivo insediamento di origine longobarda. Ma la vera nascita del castello è strettamente legata all’ascesa della grande casata degli Aidobrandeschi che occupò i vertici del potere pubblico nella Toscana meridionale a partire dal X secolo. Il più antico documento che menziona il castello di Seivena risale al 1209; si tratta del testamento del conte Palatino Ildebrando VIII, il probabile fautore dei primo significativo ampliamento della struttura del “castrum”, nonchè padre del più noto Guglielmo, il “Gran Tosco” citato da Dante nella sua Commedia. Dimora preferita e ambita dalla famiglia Aldobrandeschi, è proprio durante il governo del conte Guglielmo nella prima metà del XIII secolo, che il castello vive i giorni del suo massimo splendore, divenendo uno dei centri più importanti del patrimonio familiare grazie alla sua posizione strategica e allo sfruttamento delle ricche vene di mercurio racchiuse nel territorio adiacente e conosciute fin dall’epoca etrusca. In questo periodo proprio a conferma dell’accresciuta rilevanza anche politica del luogo, vengono eretti attorno al mastio originale, gli edifici maggiori come il Palazzo signorile, denominato “Salone”, la grande Torre a forma pentagonale, probabilmente opera di maestri stranieri, e la chiesa voluta da Donna Tommasia, moglie di Guglielmo, dedicata a San Nicola da Tolentino. Verso la metà del 1240 l’antagonismo tra le due fazioni, i guelfi e i ghibellini, che si contendevano la supremazia politica in italia, ebbe forti ripercussioni anche sulla sorte della casata aldobrandesca che finì per scindersi in due parti contrapposte: una capeggiata da Guglielmo, conte di Sovaria, e l’altra da Bonifacio, conte di Santa Fiora, rispettivamente zio e nipote. Ma oltre ad essere dilaniata dai dissidi familiari, la contea aldobrandesca rappresentava lo stato cuscinetto, fra il ghibellinismo facente capo all’imperatore Federico II ed il guelfismo sostenuto da Papa Gregorio IX. Lo stato di Guglielmo Aldobrandeschi, considerato ormai” ribelle e traditore dell’impero”, divenne il bersaglio principale delle truppe imperiali guidate dal conte Pandolfo da Fasanella, luogotenente dell’imperatore e suo vicario per la Toscana. L’indornita resistenza opposta dalla rocca di Selvena al potente esercito, indusse il Fasanella a cercare un’altra via per portare avanti l’ambizioso progetto dell’Imperatore. Dopo la morte di Federico II avvenuta nel 1250, la rocca di Selvena tornò ad essere contesa tra i principali soggetti politici del territorio: il Comune di Orvieto attraverso i conti di Sovana ed il Comune di Siena attraverso i conti di Santa Fiora.

Soltanto dopo quasi un secolo di altalenanti vicende belliche, Siena riuscì iporsi definitivamente sull’avversario e a conferire ai conti di Santa Fiora il dominio incontrastato sulle ricchezze di Selvena. Nel 1339 i conto Jacopo e Pietro Aldobrandeschi asservirono di nuovo Selvena al Comune di Siena, ma ciò non pose fine alle lotte per il possesso del maniero e del borgo; nuovi scontri videro infatti protagonisti assieme ai conti di Santa Fiora ed agli Orsini di Sovana, anche i Baschi di Montemerano acerrimi nemici di quest’ultimi. A partire dal quattrocento, inizia per la rocca di Selvena una lenta, ma inesorabile fase di declino, contro la quale a nulla valse l’apparente rafforzamento politico dato dall’unione per via matrimoniale tra gli Aldobrandeschi e gli Sforza. Alla fine del mese di maggio del 1455 il capitano di ventura Jacopo Piccinino, il “Piccolo Attila”, accolto dappertutto come un flagello, decise di trasferirsi nel territorio di Sorano, con tremila fanti e mille uomini a cavallo alle sue dipendenze. Il Piccinino aveva due strade aperte per la conquista di una terra: quella della contea di Santa Fiora governata dall’umile Guido Sforza, e quella di Pitigliano sotto la guida di Ildebrando Orsini: tentò la prima. La Rocca di Selvena non poteva uscire indenne dalle mani di Jacopo e dei suoi briganti. I più fortunati fecero appena in tempo a fuggire prima che il castello fosse incendiato. Il fuoco lasciò la sua impronta nera ed indelebile, dopo il crollo delle volte e dei soffitti, anche la grande torre del cassero rimase scornata, come un mitico re-guerriero ferito, ma non ancora abbattuto. La Rocca di Selvena dovette quindi essere in parte restaurata aggiungendo al lato nord del fortilizio alcune strutture; sarebbe costato troppo agli Sforza il rifacimento dell’intero maniero, e certamente il materiale per la nuova costruzione provenne dal disfacimento della prima; così molte parti del vecchio edificio furono disfatte per questo scopo. Intanto ha inizio il lento ma progressivo spopolamento del borgo; sorgono le prime abitazioni distaccate dalla rocca ed il maestoso edificio, denominato poi “Palazzo del Duca”, sulla spianata del vecchio molino.

Nel corso del cinquecento la Rocca di Selvena continuando a rivestire un discreto ruolo di caposaldo militare, venne coinvolta nella Guerra di Siena e secondo una fonte cronistica del 1597 Selvena, si presentava come una “rocca fortissima” utilizzata temporaneamente come prigione. Agli inizi del seicento perfino Clemente VIII tramite il suo archiatra Michele Mercati, volle occuparsi delle ricchezze minerarie disseminate attorno a Selvena; il Papa incaricò l’illustre scienziato di portare in Vaticano una dettagliata e minuziosa lista dei minerali rilevati che il Mercati documentò nella sua opera postuma denominata “Metallotheca Vaticana” corredata da una splendida incisione del celebre Lancisi. Ma gli antichi fasti, i giorni di giubilo e di gloria erano ormai lontani per la vecchia Rocca di Selvena e l’ultima volta che, ridotta ormai in pessime condizioni, prestò ancora un servizio agli Sforza, fu nel maggio del 1597, quando venne utilizzata per punire un’insignificante fattarello amoroso. Nel corso del settecento il castello ridotto per volontà del conte Sforza Cesarini alla mera funzione di granaio, venne quasi completamente abbandonato dai suoi abitanti, che preferirono trasferirsi ai piedi del Monte Ripa, dando vita al nucleo originario delle tre Contrade: Borghetto, Belvedere e Molino. Nell’ottocento gli edifici della rocca furono trasformati in case contadine e perfino il grande palazzo signorile venne diviso in tre piccoli ambienti dotati ciascuno di una propria entrata, mentre altre modifiche interessarono anche gli edifici minori.

Oggi, dopo secoli di completo abbandono per l’incuria degli uomini e l’indifferenza delle Istituzioni, un progetto di recupero e di restauro ha interessato l’intera aerea di Rocca Silvana (nomignolo con cui il “Popolo Selvignano” ha chiamato in tempi recenti il suo castello), ma dall’alto del suo occhio spento, cinta nella sua nuova corazza, la maestosa Torre sembra ancora vegliare sui passi incerti di erranti cavalieri di ventura, come sospesa in uno stato di primitiva diffidenza, nutrita in lunghi anni di paziente attesa e di rispettoso silenzio.

Fonte: Viaggio nei ricordi del nostro paese, Selvena dal 1900 ad oggi di Stefano Fontani