Le guerre e le persecuzioni fasciste a Selvena



La vita dei selvignani fino alla prima metà del secolo fu sconvolta dalla guerra d’Africa e dalle due guerre mondiali. Furono tre eventi che portarono distruzione e miseria e privarono alcune famiglie del supporto di padri, mariti, fratelli e figli. Le notizie che riguardano il nostro paese durante la prima guerra mondiale sono purtroppo scarse, ciò è dovuto alla mancanza di testimonianze dirette. Da un lontano ricordo di Massimina Sargentoni, che raccontava di aver perso un fratello durante questo evento bellico, emerge che per invitare i paesani a difendere la patria, era stato affisso un foglio in piazza Concordia. Molti uomini però, leggendo tale richiamo alle armi, intimoriti da ciò che sarebbe potuto accadere loro, si diedero alla macchia disertando la chiamata. La paura di costoro, si trasformò in tragedia per alcuni selvignani che perirono durante il conflitto. Di un paio di persone siamo in grado di fornire i nominativi e i luoghi dei decessi. Essi erano: Ezio Sargentoni nato il 29 maggio 1894, che fu ferito sul monte Zerbio il 13 luglio 1916 e morì il giorno dopo e Guido Vasconi nato il 7 giugno 1893, che cadde prigioniero e morì a Durubun Worabbern il 17 settembre 1918. Qualche anno dopo la fine della prima guerra mondiale, a Selvena, come del resto in tutta Italia, si dovette subire la dittatura fascista. Il ventennio che ci porta fino all’altra guerra è ricordato dalla stragrande maggioranza dei paesani, come il periodo più triste della nostra comunità.

Molti abitanti di Selvena, infatti, erano sottoposti sistematicamente a violenze fisiche, con botte e purghe e anche ad un’oppressione di tipo psicologico. Il regime, di conseguenza, costringeva le persone a vivere nell’ignoranza, nella paura e nella povertà. Per mantenere vivo questo clima di terrore, ogni mezzo era lecito. Ci viene detto infatti che durante questo periodo alcuni gerarchi del fascio facevano effettuare dei controlli nelle case dei paesani, assicurandosi che il livello della farina e del grano nelle madie o nei cassoni, non superasse la misura stabilita. Per fare tutto ciò si usava uno “spito” graduato che veniva inserito all’interno di questi contenitori fino a toccare con la punta di questo strumento il fondo di essi; la farina o il grano che erano in eccedenza venivano sequestrati, tra le proteste delle famiglie. I selvignani, per non vedersi portare via le altre derrate alimentari, come prosciutto, vino ed olio, usavano questo sistema: nascondevano nei boschi, sotto uno strato di scopi e fogliame, questi alimenti che sarebbero serviti per uso quotidiano. I proprietari stessi, erano costretti a passare giornate intere nella macchia per tenere d’occhio i loro piccoli patrimoni. Un’altra imposizione dettata dal regime era quella di far svolgere un pre-corso ai giovani che venivano chiamati a fare il servizio militare. I giovanotti venivano raggruppati e schierati davanti all’attuale abitazione di Omero Mazzieri, dove si effettuava l’alzabandiera. La persona addetta all’addestramento, poi, chiamava a viva voce ogni componente del gruppo pronunciandone il cognome, al quale bisognava rispondere senza esitazione con un “Presente!”. Una volta, Vasco Rossetti, snervato da questo rito giornaliero, volle fare una furbata sostituendo la parola “Fetente” a “Presente”. Il responsabile, che percepì lo scambio delle parole, imbestialito lo fece richiamare dai superiori che lo minacciarono di spedirlo al confine. Il giovanotto, consapevole del rischio a cui era andato incontro, dovette fare le sue scuse davanti agli altri “ camerati”. Questi ragazzi dovevano marciare per le vie del paese con addosso una divisa costituita da: pantaloncini verdi, camicia e fiocchetto. I futuri soldati dovevano vestire rigorosamente con questo tipo di abbigliamento, altrimenti sarebbero andati incontro a punizioni o a richiami ufficiali, come ci racconta Francesco Sargentoni di quella volta che Guido Vasconi, non avendo messo il suo fiocchetto durante un’esercitazione, fu mandato dai carabinieri che lo redarguirono in modo brutale.

Come per i ragazzi, anche le ragazze venivano fornite di una divisa ufficiale comprendente camicia, cravatta o fazzoletto al collo, gonna ed un baschetto sulla testa. Così vestite, venivano portate a fare delle passeggiate al Cornacchino con ristoro dalla Venera o a fare delle escursioni nei paesi limitrofi come Acquapendente, Abbadia San Salvatore, Santa Fiora... Nonostante il paese versasse in condizioni economiche critiche, il regime voleva dimostrare alla comunità la sua magnificenza, difatti nel 1929 si celebrò la “Fondazione dei fasci” con festeggiamenti e fuochi pirotecnici, manifestazione voluta dalla suprema gerarchia del partito fascista. Le mire espansionistiche del Duce portarono l'Italia ad un nuovo conflitto e alcuni paesani furono costretti a partire nuovamente stavolta per le terre d’Africa. Costoro lasciarono le famiglie già provate dalle conseguenze della dittatura, in situazioni a dir poco drammatiche; le donne si ritrovarono così da sole ad accudire i propri figli. Trascorsero pochi anni e si arrivò all’altro evento bellico che sconvolse nuovamente la vita degli abitanti del nostro paese. La seconda guerra mondiale viene ricordata dalle persone che l’hanno vissuta, come un avvenimento tra i più sconvolgenti. Alcune donne ci dicono , con un velo di tristezza, di quando furono costrette a donare al Duce gli oggetti di casa come i paioli, i tegami di rame e le loro fedi d'oro, che sarebbero servite per procurare le armi ad uso bellico. Alle massaie, in sostituzione dell’anello nuziale, ne veniva consegnato un altro di ferro. Qualche vecchia implorava di poter tenere la propria fede perchè era l’unico ricordo del suo matrimonio, ma non ci fu niente da fare. A chi si permetteva di insistere venivano sottratti con forza gli oggetti richiesti. Anche agli uomini che si erano rifiutati di servire l’ideale fascista, portavano via le cose a cui tenevano in modo particolare.

Raccontava Elisabetta Sargentoni che il giorno in cui i fascisti vennero a chiedere di offrire alla Patria il suo anello, da casa sua portarono via anche il cappello con le piume da bersagliere del marito Francesco, a cui l’uomo era molto affezionato. La donna descriveva con commozione la rabbia che traspariva sul volto di suo marito, il quale rimase inerte davanti a tanta offesa. Durante il passaggio della guerra a Selvena e nelle vicinanze accaddero alcuni fatti che riportiamo di seguito.

Un giorno Omero Balocchi si recava con il babbo, a cavallo di una somara, alla fiera del tre di Maggio a Santa Fiora. Quando fu vicino alla Selva stava sorvolando la zona un aereo americano; il pilota notò vicino a loro un grosso mucchio di fascine e pensando che sotto di esse si celassero alcuni soldati nemici, cominciò a mitragliare. Omero e il babbo riuscirono a salvarsi gettandosi sotto ad un ponte e altre due persone che si trovavano lì si nascosero dentro ad una capanna diroccata, riuscendo così a salvare la pelle. Un’altra volta, dice sempre Omero, che quando viveva al podere e aveva all’incirca dieci anni, passò di lì una squadra di tedeschi che chiesero da mangiare e da bere; dopo aver desinato si misero a fumare una sigaretta, il ragazzo, furtivamente si avvicinò ad uno di loro e gliene chiese una, il soldato vedendolo così piccolo gli affibbiò due “zampate” nel sedere e lo mandò via. Un ultimo episodio ci racconta di quando questo giovincello andava al Fiora a prendere il pesce con le mani. Mentre si arrabattava ad afferrare il maggior numero di “prede”, alzò gli occhi al cielo e vide sopraggiungere un aereo che puntava dritto verso di lui e che cominciò a sparargli addosso. Omero, svelto come un gatto, si gettò nel fiume e si nascose dietro un enorme sasso. Il pilota dell’aereo, fece due o tre giri di perlustrazione, ma non vedendolo più se ne andò via. Il ragazzo, fradicio come un pulcino, uscì dall’acqua e tirò un sospiro di sollievo, poi con l’incoscienza della sua giovane età riprese a “pescare”.

Nel paese, invece, ci furono momenti di terrore quando caddero le bombe alle Case Nuove, a “PRATO AGOSTINELLO” e alle Dainelli. Fu proprio qui, che Angelo Mazzieri disteso su un prato, mentre stava badando le pecore, vide arrivare un aereo che stava sganciando un ordigno. Il giovane si alzò di scatto e correndo a perdifiato raggiunse un grosso albero, dietro al quale si nascose terrorizzato, aspettando lo scoppio della bomba, che però cadde senza esplodere. Un’altra volta il ragazzo venne trovato da un gruppo di fascisti mentre stava accudendo il suo maiale. Gli squadristi, vedendo che Angelo era solo, approfittarono della situazione e con forza si appropriarono dell’animale, per portarselo in paese, pronti ad ucciderlo e mangiarlo a porchetta. Il giovanotto seguiva il plotoncino piangendo e chiedendo che gli fosse restituito il maiale, perchè era il suo e perchè il babbo poi lo avrebbe picchiato se avesse smarrito il suino. Gli uomini continuarono però a ridere e non ascoltarono assolutamente le implorazioni che venivano fatte loro. Il gruppo, all’arrivo al paese, schiamazzava sempre più forte, pregustando già la cena che si sarebbero apprestati a consumare; ma il gran vociare richiamò l’attenzione di un comandante che vedendo il ragazzo che piangeva a dirotto gli chiese che cosa fosse accaduto. Avute le spiegazioni necessarie, intimò ai suoi subalterni di restituire subito il mal tolto al suo legittimo proprietario, redarguendo a brutto muso il gruppo di fascisti. Angelo riuscì così a calmarsi e a salvare l’animale che sarebbe poi servito da cibo per la sua famiglia.

I problemi più grossi a Selvena, si sono comunque vissuti durante il ritiro delle truppe tedesche; in quei giorni l’anarchia regnava sovrana, le razzie erano frequenti e la rabbia e la paura erano stampate sui volti dei selvignani che si trovarono completamente in balia di queste truppe nazifasciste inferocite dalla cocente sconfitta a cui stavano andando incontro. I nostri nonni e genitori finalmente cominciarono a nutrire un filo di speranza dalle notizie che riuscivano a captare ascoltando la radio. Le truppe alleate stavano avanzando energicamente e la speranza si trasformò in realtà quando gli americani entrarono nel nostro paese. Essi, oltre a liberare Selvena dalle angherie dittatoriali, fecero conoscere a tutti le novità già in voga in America. Le donne potevano vedere per la prima volta le calze di nylon, al dottore furono consegnati dei medicinali moderni e più efficaci per la cura di malattie dell’epoca e i ragazzi apprezzarono di buon grado le tavolette di cioccolato americano. Un aspetto negativo dell’arrivo degli alleati fu rappresentato da un contingente di truppe africane che portarono alcuni problemi nel paese e nelle zone circostanti. Questi militari venivano descritti come delle bestie inferocite e facevano veramente paura, tant’è vero che alle donne era stato detto di non avvicinarsi troppo a queste persone per non correre il rischio di essere violentate. La curiosità e l’incoscienza della gioventù portarono però i ragazzi e le ragazze a cercare di scoprire se questi uomini fossero veramente malvagi così come venivano raffigurati.

Raccontava Asiana Tosi che un giorno questi soldati africani, presi dai morsi della fame, avevano rubato alcune pecore e le avevano portate nella piazzetta adiacente alla casa delle Zeffere. Qui avevano acceso un gran fuoco e dopo aver ucciso e infilzato le bestie con un bastone, le avevano cotte senza privarle della lana e delle interiora. Asiana e con lei altre amiche ed amici, sentendo la puzza acre del vello delle pecore bruciato, si avvicinarono per vedere che cosa stava succedendo. Ai loro occhi apparve una scena disgustosa, quei soldati, infatti, con grande voracità si accanivano su quella carne ricoperta di lana. I ragazzi rimasero ad osservarli per qualche istante, dopodichè temendo di essere scoperti, ritornarono alle loro case senza dire niente ai genitori che li avrebbero sicuramente puniti per il pericolo corso.

Un’altra storia che riguarda queste truppe di colore si svolse in località Ghiande e ne fu protagonista Anita Guerrini. La donna, clic all’epoca aveva dieci anni, viveva in un casolare di proprietà della ditta Siele con i genitori Ernesto e Bixia e la nonna Gaetana; accanto alla loro abitazione gli americani avevano installato un piccolo comando. Una sera, che la guarnigione era rimasta priva di soldati, passarono di lì due militari africani ubriachi e vedendo quella ragazzina se ne invaghirono e offrirono al babbo una ricompensa in denaro di mille lire per averla a loro disposizione. Al rifiuto del genitore, uno di questi, cominciò a sparare all’impazzata terrorizzando tutta la famiglia. Anita fu fatta nascondere sotto il letto della sua camera e sua nonna, con una “ronca” in mano, rimase di sentinella sulla porta intenzionata a tagliare la testa del primo dei soldati che avesse varcato la soglia della stanza. Fortunatamente, in quel frangente, passava di lì Gino Seggiani, che vista la situazione critica, corse ad avvertire gli americani che si trovavano nei dintorni. Questi arrivarono immediatamente sul posto, accerchiando i due uomini e togliendo loro le armi, poi chiesero ad Ernesto come si erano svolti i fatti, per poter infliggere loro la giusta punizione. Oltre a queste vicende appena narrate, Daria Dani ci ricorda che in quei giorni si vedevano passare anche molti feriti trasportati sulle barelle e mentre alcuni gridavano dal dolore, altri rassegnati al loro destino se ne stavano zitti. La gente guardava quei poveri giovani e impietosita dai lamenti, sperava e pregava che per loro tutto finisse nel migliore dei modi. Con il passaggio del fronte il paese cominciò a sentirsi quasi libero dalla morsa dell’oppressione; si aspettava però la resa definitiva di Mussolini, che avvenne il 25 aprile del 1945. Cadeva così un dittatore, un despota e come racconta Leda Rossetti: “...dalle finestre delle case di Selvena si vedevano volare i quadri con la faccia del Duce, si bruciava tutto ciò che era fascista, era un modo per riacquistare la libertà perduta degli anni passati”.

La gente si riversò nelle strade per festeggiare la fine di un incubo; bisognava però fare i conti delle perdite umane subite. Leda ci ricorda che purtroppo non tutti i paesani fecero ritorno a casa; si parla infatti di quattro persone disperse tra cui Giuseppe Ferrazza poco più che ventenne e di un morto, tale Raffaele Cappelli che era nato il 13dicembre 1910 e che cadde in guerra il 6 luglio 1944. Altri selvignani riuscirono fortunatamente a rientrare dai campi di concentramento in Germania, dove erano stati deportati e raccontarono i drammi visti e vissuti. Dice Siro Biserni: “Io, personalmente, sono stato abbastanza fortunato, perchè nel campo di concentramento dove mi trovavo, il trattamento non era dei più spietati. Il giorno, lo trascorrevamo a lavorare nei boschi controllati a vista dalle sentinelle armate. Un fugace pranzo spezzava il ritmo lavorativo e la sera si rientrava nei baracconi, stanchi e col pensiero fisso di poter ritornare ognuno alle proprie case. Nella mente mi è rimasta impressa la zona del campo dove erano gli ebrei. Una cosa straziante, persone che sembravano scheletri con solo un pò di pelle attaccata alle ossa, gente che impazziva e che tentava di scavalcare la rete elettrica di recinzione, rimanendovi attaccata come insetti, bambini e donne costretti a lavorare ininterrottamente senza un attimo di tregua e picchiati selvaggiamente se venivano sorpresi a riposarsi. Queste sono immagini che riaffiorano nella mia memoria ogni qualvolta ne parlo”.

Un altro ricordo era quello di Pellegrino Cappelli, che spesso raccontava delle atrocità della guerra e del periodo della sua vita in cui venne portato in un lager nel quale rimase per qualche tempo. Parlando della fame, che costantemente lo attanagliava, era solito descrivere un fatto che lo vide protagonista. “...mentre ci portavano al campo di prigionia, passammo vicino ad un orto dove erano cresciute delle piante di cavolo: io, rischiando la pelle, mi staccai dalla fila e ne presi un paio, che nascosi sotto la giacca militare. La sera nelle baracche divisi il “magro bottino” con gli altri compagni di sventura; pur di mettere sotto i denti qualcosa, non badammo al fatto che i cavoli fossero crudi e sporchi”. In questo capitolo si è voluto sintetizzare ciò che hanno rappresentato le guerre e la dittatura fascista per la nostra comunità, accennando ad alcuni fatti accaduti e ricordando quali erano le condizioni di vita in quegli anni difficili.

Fonte: Viaggio nei ricordi del nostro paese, Selvena dal 1900 ad oggi di Stefano Fontani

TAGS: