La vita a Selvena



In cent’anni di storia la vita delle ‘‘genti” di Selvena cambiata in modo radicale. Grazie alla testimonianza di alcune persone e dividendo il Novecento in due parti, la prima che va dall'inizio fino alla seconda guerra mondiale e 1'altra che arriva fino ai giorni nostri, possiamo analizzare i vari mutamenti che si sono verificati nel paese. Nel primo periodo il modo di vivere delle persone rasentava l'indecenza. La gente viveva in abitazioni che, nella maggior parte dei casi, avevano l‘aspetto di vere e proprie capanne super affollate, prive di servizi igienici. Molto sudice, tant’è che le cimici e i pidocchi proliferavano in massa. Le case delle famiglie più fortunate disponevano di due stanze, cucina e camera, mentre quelle più povere ne avevano soltanto una e dalle descrizioni fatte ben poco era l‘arredamento.

Il camino, che era l’unica fonte di riscaldamento, lo si trovava in tutte le case ed era fornito di alcuni oggetti di uso quotidiano come i “capifochi’”, il paiolo, gli “spiti” e uno “scioffietto” per alimentare il fuoco. Il focolare era l’elemento più importante di queste “catapecchie” e veniva utilizzato tutti i giorni dell ‘anno, infatti d’estate serviva per cucinare. Al centro della cucina era posto un tavolo con poche sedie. Le quali il più delle volte risultavano insufficienti per fare accomodare i numerosi componenti della famiglia. Ai lati della stanza c’erano alcuni mobili: la ‘‘mesa’’, che serviva da contenitore per il grano e la farina, la cassapanca che conteneva quel poco corredo che le donne si erano portate in dote il giorno delle nozze e un “appiccarami” dove venivano sistemate le poche suppellettili. La camera, se a casa disponeva di due stanze, era posta in piano superiore, altrimenti si trovava nell'unico locale, che veniva separato dalla cucina con una tenda, i letti, che erano per lo più di ferro battuto, accoglievano una prole molto numerosa; infatti i genitori erano costretti a far dormire quattro o cinque ragazzi insieme. I materassi, erano riempiti con foglie di granturco ed avevano un’apertura laterale che serviva per aggiustare il contenuto in modo uniforme, ogni mattina dopo essersi alzati. In altri casi, essi erano fatti di lana; sia questi ultimi che quelli realizzati con foglie di granturco, fungevano da ricovero per gli insetti che la notte esploravano ogni centimetro di pelle del dormiente. Nella stanza da letto, in qualche caso, si poteva trovare un armadio dove c’era l’unico abito “buono” a disposizione di ogni componente della famiglia. Per lavarsi l’unico oggetto a disposizione era un lavamano che veniva riempito con l’acqua delle brocche presa alla fonte. I pavimenti erano formati da tavole di legno, dalle quali era difficile togliere la sporcizia che si annidava tra le fessure. D’inverno, nelle case, trovavano rifugio anche gli animali da cortile, vista la mancanza di adeguati ripari. Essi venivano sistemati in un angolo della stanza o sotto alle scale che portavano nella camera da letto, chiusi dentro a delle gabbie. Al mattino i ragazzi di casa, svegliati dal canto del gallo, si recavano subito a controllare se la gallina aveva fatto l’uovo, per poterselo bere. La vita di queste persone era quasi del tutto priva di soddisfazioni, gli uomini e le donne fin dalla giovane età venivano abituati al lavoro dei campi oppure erano costretti a “badare” le pecore o altri animali.

Nel periodo invernale, i giovani pastori, avevano solo una vecchia giubba per proteggersi dal freddo pungente e nelle giornate di pioggia e neve, si dovevano arrangiare per trovare un rifugio naturale per ripararsi dalle intemperie. Il loro pasto consisteva in poco pane con del formaggio o in mancanza di quest'ultimo solo “pane asciutto”. Gli animali dovevano essere custoditi con molta attenzione, infatti c’era il rischio che si “imbrancassero” con quelli di altre famiglie. Se questo succedeva, si andava incontro ad una sonora “bastonatura” da parte dei genitori, non prima di aver recuperato il bestiame mancante. Col susseguirsi degli anni si arriva al periodo in cui la dittatura fascista domina la scena e come del resto in tutta Italia, anche nel nostro paese, le condizioni di vita rimangono misere.

Racconta Leda Rossetti che per racimolare qualche soldo, le ragazze andavano a “sfalcettare” alla Penna, sotto le dipendenze della ditta Siele. Qualcuna di loro, mentre camminava per raggiungere il posto di lavoro, con i ferri e la lana che si era portata dietro, finiva le calze che aveva iniziato la sera precedente. Prima di cominciare “l’opra” a queste donne veniva consegnato un fazzoletto da mettere sul capo con sopra raffigurata la testa del duce e la spiga di grano. Queste lavoratrici erano denominate “massaie rurali”. I ragazzi dell’epoca, per guadagnarsi qualche denaro, si misuravano in gare di destrezza e abilità, come ci racconta Adriano Petri. Favron, gerarca fascista di cui parleremo in seguito, per evidenziare le doti di quei giovani, aveva fatto legare una corda sul ramo più alto del tiglio vicino alla Fattoria e chi riusciva ad arrivare fino in cima, guadagnava il premio posto in palio che era di lire 10, pari a due giornate di lavoro. Una volta, Adriano superò questa prova e felice portò a casa la meritata ricompensa per consegnarla al babbo, il quale prima di avere avuto le necessarie spiegazioni da parte del figlio, gli mollò un ceffone sulla testa credendo che il ragazzo avesse rubato quei soldi.

In quegli anni, a Cortevecchia, i responsabili dell’azienda, elargivano un supplemento di paga agli operai (che per disboscare e pulire i campi percepivano dapprima 50 centesimi al metro, poi 40, 30 e infine 20) di lire 5 per le vipere e lire 2,50 per le serpi che riuscivano ad uccidere. Questi soldi venivano offerti perché i rettili si cibavano di stame, polli ed oche che appartenevano alla ditta. A tal proposito, i ragazzetti di Selvena, avevano trovato un espediente utile per raggranellare qualche lira. Durante il giorno si recavano a caccia di questi animali, li uccidevano e stringendo un patto con gli operai di Cortevecchia, chiedevano di dividere equamente la ricompensa consegnando loro le prede. La mattina dopo questi lavoratori portavano le serpi ai loro padroni, fingendo di averle uccise sul posto di lavoro. La sera, al ritorno alle proprie case, dividevano con i giovanotti, che li attendevano con ansia, i soldi ricavati.

Altri ragazzi del paese, per aiutare la famiglia, si recavano con i genitori nei campi a sementare e a mietere; la mattina, di buon’ora, dopo essersi riempiti la pancia con alcune fette di polenta, muniti dell’attrezzatura necessaria, seguivano gli adulti. Per tutti loro non esisteva la domenica e persino il compleanno veniva dimenticato per dedicarsi al lavoro. Con la chiusura delle miniere, agli inizi degli anni trenta, molti uomini si videro costretti, per sbarcare il lunario, ad andare fino in Maremma a mietere il grano Dai ricordi che emergono, si viene a sapere che la “tribbiatura” veniva effettuata con l’ausilio dei cavalli e poi con delle macchine rudimentali. Dopo aver trascorso tutta l’estate nel grossetano, i braccianti se ne ritornavano a casa con un picolo gruzoletto di denaro in tasca. Alcuni selvignani. invece, si recarono a Ribollo, Gavorrano, Pereta e Niccioleta per lavorare nelle miniere di quei paesi. Altri andavano “garzone” presso famiglie benestanti, percependo una paga di lire 30 al mese, e al Cornacchino dalla Venera per lire 50 al mese o a fare le briglie alla Carminata. C’era anche chi cercava di arrotondare il misero stipendio, come Alvaro Carastri che si occupava della manutenzione dell’orologio pubblico per lire 50 annue; questo dopo un pò di tempo fu sostituito nell’incarico da Ettore Sargentoni che riceveva una paga di lire 60 annue. Dopo qualche anno, a Ettore subentrò Rolando Galliani al quale veniva corrisposto uno stipendio di lire 150 annue. Qualche persona fu impiegata saltuariamente dal Comune per la manutenzione delle strade. Da un atto della Giunta Comunale dell’epoca risulta infatti una squadra di operai del paese composta da: Giuseppe Cappelli con opere 29 lire 300, Antonio Bianchi con opere 23 lire 276, Cesare Dani con opere 17 e mezzo lire 224,Edo Tonioni con opere 7 lire 84, Raffaello Cappelli con opere 1 lire 12,80, Salvatore Ciacci con opere 7 con i buoi lire 210, Riccardo Ciacci con opere 1 lire 30, Elia Tonioni con opere 5 lire 190.

Sempre il Comune decise che per tutelare al meglio la viabilità delle strade, bisognava assumere un operaio con la mansione di cantoniere, lavoro che i divisero negli anni Ezio Mazzieri e Luigi Cecchi. Nonostante la gente cercasse in tutti modi di migliorare le proprie condizioni di vita, il problema principale era quello di riuscire a sfamarsi. La polenta e le castagne erano cibi di uso quotidiano delle famiglie; questi alimenti erano in grado di calmare i morsi della fame di grandi e piccoli. Le persone, per dare un sapore diverso alle fette di polenta, le “sdrusciavano” sull’aringa che molte volte si trovava attaccata a una delle travi della cucina. Le castagne invece si usavano per fare la polenta dolce, oppure si cuocevano nella cenere del focolare o dentro al paiolo. Durante il periodo del fascio, veniva distribuita alle famiglie più bisognose, una carta annonaria: era una tessera con dei bollini con la quale si poteva ricevere pane, riso, etc. etc. Dal momento che il numero dei componenti delle famiglie era elevato, la quantità di alimenti che venivano elargiti risultava insufficiente al fabbisogno giornaliero, di conseguenza la fame si faceva sentire nelle pance di tutti. Per risolvere tale problema, certe volte si veniva aiutati da amici e parenti che avevano una condizione economica migliore. Racconta Sesta Tosi che spesso si recava a giocare da Adelina Tenci, la quale viveva dalla zia (una donna senza figli) che le garantiva un buon tenore di vita per l’epoca. Quando era ora di fare merenda, la nipote veniva invitata dalla zia a mangiare una fetta di pane con il miele e la marmellata. La ragazza, che era di poco appetito gettava via gran parte di quel ben di Dio, ma una volta Sesta che guardava con gli occhi sbarrati l’amichetta che “speluzzicava” il pane le disse: “Non buttarlo, lo mangio io!” e lo divorò in un attimo. Adelina, che aveva capito il problema che attanagliava Sesta, il giorno dopo, rivolta alla zia chiese ben due fette di pane passandone una alla compagna di gioco, che nascosta dietro ad un cespuglio mangiò tutta la merenda. La zia, entusiasta dell’appetito della nipote, gridava al marito: “... due fette, Adelina se n’è mangiate due fette!...”. Fu così che per un pò di tempo Sesta risolse il problema della fame. Altri ragazzi si accontentavano di mangiare ciò che offriva la natura come mele, pere, fichi e i prodotti dell’orto, il tutto accompagnato col pane. Quest’ultimo era il sostentamento principale per tutti e veniva preparato in casa con farina e lievito, che erano conservati nella “mesa”.
Dopo aver impastato gli ingredienti, si preparavano le pagnotte che venivano disposte nella “panaiola”, coperte con un panno e tenute lì fino a raggiungere la giusta lievitazione, quindi venivano portate a cuocere nei forni. Di questi ogni comunello del paese ne aveva due o tre. Per la cottura ci si doveva prenotare uno o due giorni prima; al mattino presto un componente della famiglia si recava al forno, portando con sè la legna necessaria. Da esso veniva rimossa la cenere dell’infornata precedente e se ne ripuliva con il “mondolo”, che era un bastone alla cui estremità erano avvolti degli stracci, il piano e le pareti. Dopo aver dato fuoco alla legna da ardere, si aspettava che il forno raggiungesse il calore necessario per cuocere il pane, che solitamente era sufficiente alla famiglia per una settimana.

Nel 1920 Selvena contava più di mille abitanti, fece la sua comparsa l’importante mezzo di comunicazione che è il telefono. Questo permetteva di collegarsi con le sedi telefoniche degli altri paesi. I disagi legati alla mancanza di illuminazione pubblica nel paese, furono finalmente superati nel 1927, quando nelle vie di Selvena furono disposte ed attivate 59 lampade di tipo monowatt con una tensione di 150 volt. Per illuminare quelle strade si piantarono dei pali di castagno ai quali venne attaccata un’asta di ferro che terminava con un piatto di smalto, al centro del quale veniva inserita la lampadina. La ditta che gestiva l’impianto era quella del signor Aldo Netti di Orvieto, che ne controllava il funzionamento anche negli anni trenta. Fu un evento molto importante per gli abitanti del paese che erano abituati a vivere con la fioca luce delle candele o di qualche acetilene. Le persone cominciavano così ad apprezzare i primi rudimenti del nuovo progresso. Verso la fine degli anni trenta, ci fu un cambio di gestione riguardo l’energia elettrica, la cui manutenzione venne affidata alla Società Volsinea che intervenne anche nel borgo di Querciolaia, con l’attivazione di tre lampade.

Uno dei più grandi problemi per gli abitanti di Selvena, nei primi decenni del secolo era rappresentato dalle malattie che si spandevano a macchia d’olio, alimentate anche dallo stato di scarsissima igiene che c’era. Furono la malaria, che vide il suo sviluppo in Maremma, e il tifo che raggiunse il suo picco di mortalità nel 1941 a fare il maggior numero di vittime. Anche la “spagnola” fece molti morti, questa malattia si manifestava con febbre altissima e con un’infezione virale che si trasmetteva alle persone attraverso il contatto fisico. Nel giro di pochi giorni si entrava in coma e si moriva. Le cure purtroppo erano scarse e l’unica medicina a disposizione era il chinino che non riusciva però a debellare questi morbi. Le persone più deboli non riuscivano a salvarsi, mentre chi aveva un fisico più robusto, anche se tra mille tribolazioni, se la cavava. Per altri tipi di malanni come la bronchite, la pleurite, la polmonite e la tubercolosi si ricorreva ai medicinali naturali, conosciuti dalle persone anziane, le quali si improvvisavano veri e propri dottori. Ogni persona era a conoscenza di un rimedio diverso; da alcune testimonianze rilasciateci, vediamo quali erano le cure. Per la bronchite ci è stato descritto questo rimedio: si versava dell’olio caldo su delle pezze di lana che venivano appoggiate sul petto e tenute per tutta la notte. Questo procedimento si ripeteva per alcuni giorni. Per la pleurite c’era un sistema a dir poco curioso, infatti ci si curava così: in un cucchiaio si scioglieva un pezzetto di lievito al quale andava aggiunto un po di aceto, a questo impasto si univano degli insetti seccati e tritati finemente (le “cantarelle”), il tutto si versava sopra ad una pezza di stoffa e si appoggiava sul punto dolente. Dopo qualche giorno, all’esterno, si formava una bolla piena di liquido; a questo punto si prendeva una foglia di cavolo ben schiacciata e dello strutto, lavato sette volte per farlo diventare bianchissimo. Quest’ultimo si spalmava sulla foglia ed il medicamento così ottenuto veniva applicato sulla bolla per una settimana. Se durante questo periodo l’impasto si seccava, il procedimento andava ripetuto. Alla fine della cura, l’acqua era stata assorbita dalla medicazione fatta e la persona risultava guarita. L’alternativa allo strutto era l’olio d’oliva con aggiunta di acqua, il tutto sbattuto in un tegame. Se a qualche persona veniva detto che aveva il “sangue malato” o gli si riscontrava la polmonite, l’unico rimedio era quello di usare delle “mignatte”. Questi animali, che venivano acquistati da un “girone”, erano mantenuti in vita all’interno di bottiglie di vetro piene d’acqua tappate con un pezzo di stoffa. Al momento dell’uso le “mignatte” venivano prese e poste sulla zona dolorante, si attaccavano alla pelle e succhiavano il sangue gonfiandosi a dismisura. Dopo un pò esse venivano tolte dall’epidermide e dalle loro bocche usciva un fiotto di sangue nero. Alcune non sopravvivevano e dopo qualche spasmo morivano, le altre venivano riposte nella bottiglia, pronte per un nuovo uso. Per tamponare le lesioni che si formavano nella pelle del malato, si applicava la metà di un grosso fagiolo che aderiva alla pelle fungendo da emostatico. La cura per i dolori reumatici si effettuava così: si prendevano dei mattoni che venivano posti sul bracere, quando erano diventati caldi si fasciavano con delle pezze e venivano appoggiati sul punto dolorante. Non sempre però questo sistema portava alla soluzione del problema. La sciatica veniva curata immergendo il piede del paziente fino alla caviglia nell’acqua calda. Col calore le vene si gonfiavano e con un temperino veniva fatta un’incisione su una di esse, dalla quale usciva un flusso di sangue scuro. Quando si riteneva che il sangue fosse defluito in modo sufficiente, si fasciava il taglio, si faceva rimettere la calza e il malato provava a camminare. Solitamente questo tipo di cura risultava efficace. Per placare il mal di denti, i nonni ci dicono che si preparava un intruglio con il lievito di pane, pepe ed aceto che veniva applicato sulla guancia della persona sofferente. Il rimedio per l’itterizia era veramente bizzarro; allo sfortunato venivano fatti ingerire dci pidocchi vivi avvolti con la mollica di pane. Questi animaletti si potevano reperire molto facilmente, difatti bastava pettinare a fondo un componente della famiglia per averne a volontà. Per l’eliminazione dei gas dallo stomaco e dall’intestino, si usavano i semi di finocchio, infatti anche un vecchio proverbio diceva: “Del finocchio mangia il seme, che poi il vento al culo preme”.

Dopo la fine della seconda guerra mondiale, i problemi sanitari non mancavano, bisognava tenere sotto controllo le malattie che infestavano il nostro paese. A tal proposito, nel 1947 il dottor Giannelli scrive una relazione in cui dice: “Si dovrebbe trovare una soluzione per eliminare il problema della polvere sollevata dal passaggio dei veicoli nel paese, avere cura di non lavare i panni di persone con malattie infettive ai lavatoi pubblici, si dovrebbe trovare un rimedio per il deposito dei materiali sporchi negli abitati ed evitare il gettito dei rifiuti anche organici per le strade”. In riferimento a ciò Alvaro Galilani racconta che c’era l’abitudine di fare la pipì nel pitale e gettarla fuori dalla porta. Una volta mentre lui compiva questo atto, prese in piena faccia una persona che passava di lì, che disgustata lo mandò più volte a quel paese senza accettare le scuse dell’uomo. Anche se la gente cercava di applicare le norme consigliate dal dottor Giannelli, negli anni ‘50 si verificarono alcune epidemie di intercolite e di tifo . La prima causò la morte di diversi bambini, mentre la seconda pur mietendo alcune vittime, fu curata con discreto successo presso l’ospedale di Scansano dove affluirono diversi paesani. Da questo periodo in poi, il tipo di malattie infettive che abbiamo descritto non è più stato causa di mortalità nel paese grazie al progresso della medicina che ha proposto delle cure innovative.

In quegli anni (1950) Selvena contava 1299 abitanti e cercava quello sviluppo che solo il lavoro poteva garantire alla sua comunità. Con la ripresa dell'attività mineraria il paese cominciava a prendere l’aspetto che poi manterrà fino ad oggi. L’evoluzione del nostro piccolo centro fu molto rapida si costruivano case una dietro l’altra e le borgate, che prima erano divise dalla vegetazione, cominciavano a diventare un vero e proprio agglomerato. Nacquero anche i primi cantieri “Fanfani” che dettero lavoro ad alcuni paesani. Altre persone vennero impiegate al servizio dell’Amministrazione Comunale come Rinaldo Sargentoni che divenne custode dell’orologio, Ezio Mazzieri che continuava a svolgere la mansione di cantoniere stradale, Densa Rossetti, Sabatina Diamanti, Edda Sargentoni e Marisa Cerretti che sì susseguirono come inservienti all’ambulatorio, Dante Casali, invalido di guerra prese il posto di Ezio Mazzieri che ricoprì la carica di guardia comunale. Quest’ultimo, nel 1951 affittò una stanza ammobiliata ad uso dei carabinieri che erano stati mandati a Selvena per svolgere il servizio di pubblica sicurezza, vista la riapertura delle miniere.

Due anni dopo, l’illuminazione del paese venne ampliata con l’aggiunta di altre lampade nelle vie che ne erano prive; si arrivò quindi ad un totale di 64 punti luce. In seguito queste lampade furono sostituite con dei neon che erano collegati alle antenne con un cavo d’acciaio. La ditta erogatrice era la Società Romana di Elettricità. Sempre nel 1953 venne effettuato il collegamento telefonico Terni-Querciolaia e venne attivata l’autolinea per Grosseto con percorso Selvena-Castell’Azzara-Sorano-Grosseto. Dopo un anno fu instaurato un ufficio frazionale di collocamento posto in via del Cornacchino, usufruendo di un locale di Renato Sargentoni. Finalmente si arrivò a risolvere anche il problema delle strade, infatti nel 1956 furono asfaltate le vie del paese; i progetti dei lavori furono affidati all’ingegnere Mario Torlai e poi all’ingegnere Edoardo Focacci. In quell’anno viene ricordata la grande ondata di gelo e neve che colpì anche Selvena. La provincia intervenne dando un contributo economico per i danni arrecati dal maltempo alle famiglie più povere.

Verso la fine degli anni ‘50, visto che era stato costruito l’acquedotto, l’Amministrazione Comunale assunse una persona che ne controllasse l’efficienza, per tale incarico fu individuato Ivo Relitti.

Arriviamo così ai favolosi anni ‘60. quelli del ‘boom economico”. Grazie allo sviluppo delle miniere, agli aumenti salariali degli operai e a qualche lavoretto saltuario che le donne svolgevano per lo più in casa, il periodo buio delle famiglie di Selvena sembrava definitivamente superato. In questo contesto sorsero nuove opportunità di lavoro, anche da parte delle Amministrazioni Pubbliche. Per la manutenzione stradale nel paese nel 1962 Martino Amaddii venne assunto come cantoniere dal Comune, poi con il passare degli anni verrà affiancato da Aldo Sargentoni e Carlo Sargentoni. Nel 1967 a Martino fu affidato anche il compito di guardia Comunale per la frazione di Selvena, lavoro che svolse per breve tempo. Nel 1963 Paolo Mazzieri affittò al Comune due locali di sua proprietà in via Aldobrandeschi da adibire ad ambulatorio, dove tutt’oggi il dottore presta il suo servizio. Qualche tempo dopo Filomena Ruggi venne assunta come inserviente presso tale ambulatorio, incarico che nel 1974 lasciò nelle mani di Gianfranca Angelucci.

Nel 1970 il Comune prese in affitto un locale appartenente a Silvano Bechini in via Damiano Chiesa ad uso di mattatoio. I ragazzi del posto spesso si recavano a vedere quando venivano uccisi gli animali. Una volta, venne portato al mattatoio un bovino di grosse dimensioni per essere macellato. La persona che era addetta ad ucciderlo, lo colpì in un punto non vitale perchè al momento dello sparo, l’animale fece un movimento brusco con la testa. Il forte dolore, pero, lo fece accasciare a terra tramortito dando l’impressione di essere morto. Gli operai, che intanto, stavano affilando i coltelli pronti per la macellazione, rimasero di stucco, quando videro la bestia rialzarsi e uscire dal mattatoio correndo all’impazzata. Fatte alcune decine di metri, ricadde nuovamente al suolo dove morì, sotto gli occhi sgomenti dei giovani che avevano assistito alla scena.

Gli anni settanta vengono ricordati soprattutto per la crisi irreversibile a cui andò incontro la miniera del Morone, che causò una forte emigrazione di paesani in varie città come Grosseto, Roma, Firenze, Torino, Milano... Per cercare di arginare questo “esodo’ alcuni giovani selvignani si associarono in una cooperativa agricola denominata C.A.F., che vedeva la sua nascita proprio in quel periodo. Tale iniziativa riuscì a tamponare in modo sufficiente questo deflusso di gente.

Negli anni ‘80 questo tipo di attività cooperativistica dovette affrontare una serie di problematiche che pian piano segnarono la sua fine. Nel frattempo, sempre nell’arco degli anni settanta, altri paesani trovarono lavoro presso l’Amministrazione Comunale, come Alessandro Ciaffarafà impiegato all’anagrafe e Moreno Diamanti che ricoprì l’incarico di guardia comunale avvicendato poi da Manrico Tonioni. Liliano Balocchi, invece, fu assunto come autista dello scuolabus, trasportando gli scolari di Selvena a Castell’Azzara. Angelico Sargentoni e Lelio Fontani ricevettero l’incarico di istruttore e vice istruttore per i cantieri di lavoro nel paese.

Nel 1982 la tranquilla vita del paese venne sconvolta dall’incidente mortale che colpì Giorgio Loli, il quale morì annegato nel fiume Fiora, trasportatovi dalle acque impetuose della Carminata. Gli ultimi anni del secolo hanno visto Selvena subire una grave crisi demografica che ha ridotto la popolazione alle circa seicento persone attuali per la maggior parte anziane. Le attività imprenditoriali non si sono sviluppate e ad oggi stiamo ancora aspettando quell’input che risollevi il paese dal torpore in cui è caduto una ventina di anni fa.

Fonte: Viaggio nei ricordi del nostro paese, Selvena dal 1900 ad oggi di Stefano Fontani

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