Carlo Favron




Abitava ed aveva gli uffici a Selvena. Era Ministro per conto della Società Mineraria Monte Amiata sia della parte agricola, sia della parte mineraria. Vale a dire gestiva e dipendeva da lui un paese intero - circa duemila abitanti - come Selvena e un buon numero di persone dei paesi confinanti: Castell?Azzara, Sorano e Santa Fiora. A Selvena nessuno era escluso per il fatto che o vi abitava e coltivava terreni liberi, ma soggetti agli usi civici, od era contadino, oppure lavorava in miniera: il padrone era unico. Inoltre era il Federale del partito fascista e sappiamo quale potere comportava tale carica. Insomma Favron teneva nelle sue mani un potere assoluto sulle cose e sulle persone di Selvena. Ma egli usava tale potere in modo paternalistico, diremmo oggi. Conosceva uno per uno i suoi soggetti. Chi non dava problemi a volte era ricompensato. Chi ne dava, prima o poi doveva fare i conti con lui: contraddirlo non era consigliato. Viene descritto alto, robusto, di bella e severa presenza: era un omone - come si diceva -, che incuteva molto rispetto e autorevolezza. Per la carica era sempre attorniato da persone di fiducia. Oggi diremmo guardaspalle, portaborse, tirapiedi, che non lo lasciavano mai solo. D?altra parte egli, per il partito e per la società, non si risparmiava: li impersonava. Si può aggiungere che spesso al partito sacrificava anche il bene della Società Amiata. Aveva parola nella gestione delle tessere per il razionamento del mangiare e del vestire. Per i suoi era un padreterno. La popolazione non impegnata politicamente, oltre che rispettarlo, gli voleva bene. Agli operai faceva avere la paga imposta, ai contadini, ritenendo che avessero già fatto la “cresta”, al momento della trebbiatura, sull?aia, toglieva fino all?ultimo chicco di grano dovuto all?Annona. Proprio da questi, però, ebbe le maggiori noie, forse per averli saputi gestire meno bene, tanto che alla fine per causa loro la situazione gli fuggì di mano. I poderi erano occupati dalle famiglie più numerose e più giovani, che avevano più fame, che lavoravano dalla mattina alla sera in modo duro e non gratificato. In quelle famiglie si guardava al partito socialista e si covava la ribellione o almeno, come è dei giovani, la contraddizione.

Due aneddoti ci fanno capire meglio il personaggio. Una volta Benvenuto si trovò nei suoi uffici in una giornata d?inverno dal freddo pungente. Al momento del commiato Favron disse:
- Benvenuto, con questo freddo sei venuto così, senza cappotto?
- Eh, signor ministro, ce l?avessi, magari anche usato!
- Aspetta... - Favron si allontanò, entrò in una stanza e riapparve con un cappotto nuovo al braccio, di taglia perfetta e una manciata di sigari in mano.
- Tie?, guarda se ti va, e stammi bene!- Benvenuto lo indossò: calzava a pennello. Ringraziò e tornò a casa caldo e contento. Un giorno si presentarono anche i figli di un suo contadino a chiedergli le scarpe: camminavano scalzi o con gli zoccoli di legno. Favron non solo rispose di non averle, ma aggiunse:
- Vai alla macchia, che quelli te le danno!


Eravamo nell?inverno tra il 1943 e il 1944. Nell?Italia centrosettentrionale era stata creata la Repubblica Sociale Italiana con sede a Salò e il partito fascista governava ostentando più sicurezza e arroganza di prima. Di contro parte della gioventù manifestava la sua opposizione politica come poteva, anche con sfrontatezza; soprattutto andando a vivere “alla macchia”, come si diceva. A Selvena un gruppo di questi osava andare a pranzo all?osteria del Niccolai, la quale da lì a poco bruciò con tutta la casa. Ospitava dei sovversivi, si disse. Ma un mattino, che Favron aveva allentato la scorta, un gruppo di quei “ragazzi” della “macchia”, si presentò alla sua porta e bussò con il calcio del fucile.

- Ministro, ora le scarpe ce le abbiamo. Possiamo camminare, però anche tu devi venire con noi! - gli intimarono. Vestito come gli si confaceva, agli ordini dei ribelli armò il cavallo dei finimenti da parata e li seguì. Fuori del paese i “ragazzi” lo fecero scendere da cavallo, gli tolsero i bellissimi stivali da cavaliere e, legato al cavallo, ripetutamente gli fecero attraversare la Fiora a piedi scalzi, invitandolo a calcolare i dolori da loro sopportati tutte le volte che essi l?avevano dovuto fare senza scarpe. Da lì, lungo il fiume, raggiunsero la Maremma. A Manciano, ove la resistenza era più forte ed i ribelli si sentivano più sicuri, Favron fu tenuto nascosto per alcuni giorni, condividendo la vita della macchia.

Celso Dondolini raccontava a Siro che per diversi giorni era stato nascosto nel suo podere, a Montebuono, dove viveva abbastanza tranquillo, mangiando con la sua famiglia. Poi nei forteti dei Poggialti sulla strada per il Ghiaccialone gli fu fatta scavare la fossa e, dopo avergliene fatte verificare le misure, alle ore sedici – precisa Marino Bartali - fu passato per le armi, non senza aver avuto l?assistenza religiosa dovuta e richiesta. A questo scopo i Partigiani, tramite il guardiacaccia della tenuta del Capacci, mandarono a prendere il parroco di Capalbio, don Omero, che assistette.

Ermanno Benocci dice che gli fosse stato fatto un processo, che comandasse il plotone di esecuzione un gruppo di partigiani Russi, sette, scappati dalla collaborazione con i Tedeschi di stanza a Sorano e che il Favron in punto di morte gridasse: “Viva il Duce”.

Il Bartali aggiunge di essere stato presente al momento che lo scavatore dell?acquedotto del Fiora, nel 1954 - 1955, per caso tirò fuori le sue ossa. I lavori si fermarono e dopo un breve consulto stabilirono a chi appartenevano, furono ricomposte e riconsegnate ai parenti. In quel punto l?acquedotto subì una leggera deviazione.

Non sono molte le notizie su Favron, ma non si poteva non parlarne, anche se non era di Selva, perché i fatti che seguono sono legati alla sua persona e al suo potere. Infatti quasi tutti i suoi contadini erano di Selva e forse tutti di ispirazione socialista.

Fonte: La mia gente, Cento anni di storia di un popolo di Lidiano Balocchi

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