Selvena, ogni mattone di quella rocca racconta una storia

In Maremma, poco dopo Sovana, il fascino di quel che resta di un glorioso castello, che fu visitato anche dall’Ariosto (di Adolfo Lippi)




La si raggiunge per un sentiero sassoso tra papaveri infuocati e cespugli di ginestre. Svetta altra e potente in cima ad una rocca disastrata. È ciò che rimane di un antico glorioso castello, detto di Selvena, provincia di Grosseto, poco dopo Sovana, prima di Santa Fiora che sta sotto all'Amiata.

Una storia pazzesca. La torre è davvero mirabile. La costruiscono centinaia di pietre bugnate dentro e fuori; poche guide la indicano ma ha una storia pazzesca fatta di assedi, prigionie, letteratura. Basti dire che la indicarono sia Matteo Boiardo ne "L'Orlando innamorato" sia l'Ariosto nell' "Orlando furioso". Basti dire che fa l'innamoramento di alcuni storici di oggi, Nicola Mazzieri fra tutti, che fa il rilegatore di libri in Grosseto e collabora col nostro giornale su gli itinerari più nascosti della regione.

Fuori dalle guide. Selvena è poco praticabile. Non è nelle guide pompose che si occupano della Maremma più citata, da Sorano a Pitigliano a Sovana, paesi romantici, con architetture chiese e monumenti citatissimi ed esplorati.

Selvena la devi cercare. Ma ne vale la pena. Ha due colonne portanti: la storia degli Aldobrandeschi e nei loro 365 castelli (potevano alloggiare ogni giorno dell'anno in un luogo diverso della provincia), la storia delle miniere di cinabro e di mercurio che giustificavano, da sole, gli insediamenti e la guardia armata, degli etruschi, dei romani, dei guelfi.

La torre, alla quale si accede dopo un ampio salone che ha, ancora segnato in un parentone, il vecchio camino dove abbrustolivano spiedi di cervi e cinghiali, data di più di cinquecento anni.

La misero su per occhieggiare le circostanti terre dove si passava per Firenze, per Siena, per i territori pontefici a nord del lago di Bolsena.

L’occupazione degli Aldobrandeschi. Andò così. C'era una casata a Lucca, gli Aldobrandeschi, che serviva assai bene il Papa, Nicolo primo. Erano tempi di guerra per le investiture. Da una parte le volevano fare a Roma, dall'altra le volevano fare in Germania perché aveva il Sacro Romano Impero.

Gli Aldobrandeschi, lucchesi, detenevano, con Geremia, il vescovado. E siccome erano fedelissimi ebbero a paga della dedizione al pontefice i corpi delle sante Flora e Lucilla, reliquie preziose e servili. Che vennero ospitate sotto l'Amiata (il paese si chiamò da lì in poi Santa Fiora). E, più cospicuamente, ebbero anche migliaia di ettari in Maremma già appartenenti ai longobardi (signori in Lucca).

Così gli Aldobrandeschi occuparono la regione, divisi in tre rami, quello che regnava a Roselle (Grosseto), quello di Santa Fiora e quello di Sovana. E poiché erano guelfi, cioè amici del Papa, furono subito spina nel fianco ai senesi intrigati verso il mare. Ed i senesi erano ghibellini. Dunque nemici.

La realizzazione della rocca. La costruzione della rocca di Selvena si decide in questo contesto. La possente fortezza doveva servire e servì non solo ad ospitare i castellani Aldobrandeschi; ma anche a difendere il potere guelfo dell'espansionismo senese. Che infatti si manifestò presto (dal 1240) con le armi di Federico II, imperatore tedesco illuminato e coltissimo, che mosse dalla lontana Sicilia (suo regno) per annettersi la Toscana e toglierla ai guelfi, per darla ai ghibellini senesi.

Federico incaricò del lavoro sporco (l'assedio e la distruzione del castello) tale Pandolfo di Fasanella, un capitano di ventura, che mosse migliaia di armati contro Selvena. E cinse d'assedio la rocca mettendo il campo lungo le sponde del Fiora, un fiumiciattolo che discendeva l'Amiata.

Il colpo, tuttavia, non riuscì tanto facile. Dalla torre gli assediati studiavano ogni mossa del nemico. Avevano viveri ed avevano tanti pozzi d'acqua pura.

Così la menarono per le lunghe e nonostante i continui rinforzi senesi Pandolfo non la spuntava. La spuntò solo dopo un paio di anni quando lo stesso Federico II decise di mettere a ferro e fuoco la provincia. Ed allora gli Aldobrandeschi (il conte Guglielmo) si arresero e vennero messi sotto la podestà di Orvieto ghibellina, alleata a Siena.

Visite illustri. Visitare torre e fortezza, ciò che ne resta, fa rammentare i due poemi su Orlando, quello "innamorato" del Boiardo e quello "furioso" dell'Ariosto. Ambedue i poeti barocchi visitarono le segrete di Selvena, prigioni anche ora visitabili. E vi ambientarono le vicende di Brandimarte e Fiordaligi che, schiavi degli Aldobrandeschi, si convertirono al cristianesimo e divennero, amanti, alleati preziosi della casata guelfa.

Perché adesso la fortezza è un rudere? Perché alla fine del 1455 i senesi inviarono infine in spedizione punitiva Jacopo Piccinino, feroce e impietoso. Che distrusse la fortezza, il castello, li bruciò e fece piazza pulita della antica ambiziosa rocca. Ma rimase intatta la torre che ancora resiste e si mostra al cielo.

C’erano le miniere. Tanta resistenza dei signori di Selvena però, la si capisce meglio, anche per la presenza di miniere ricche. L'intero sotto Amiata è un tesoro a cielo aperto e a cielo chiuso. A Selvena gli etruschi avevano scoperto il cinabro e se ne servivano per colorare i tessuti. Seguirono i romani. Col vetriolo si lavoravano le pelli. Venne anche trovato, sotto terra, il mercurio.

E nel Medioevo i callidi alchimisti lo usavano per trasmutare il metallo vile in oro. Nell'Ottocento le miniere furono acquistate dai tedeschi che industrializzarono la produzione. Infine ai tempi nostri la "Monte Amiata" proseguì le ricerche ma il mercurio venne soppiantato da alcune diavolerie chimiche. Nemmeno serviva più ai termometri e le miniere vennero abbandonate. Non senza lotta dura dei minatori che le occuparono, difesi strenuamente dalle popolazioni.

Alla lunga vinse il padronato. Le miniere a Selvena non esistono più. Rimangono foto e libri che scrive Giuseppe Ronchini, per sedici anni elettricista in miniera. E curatore del piccolo museo. A Selvena si fa anche un palio con tre contrade. Lo dirige Franco Predellini. Conduce ottanta figuranti. Corrono in palio i cavalli con fantini locali.

Fonte: Il Tirreno

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