La Roccaccia di Selvena. Rapporto preliminare degli scavi e della ricognizione archeologica 1999 (FRANCOVICH R.)

Atti del II convegno nazionale della S.A.M.I., Brescia, 2000, preatti.




FRANCOVICH, R. et alii, La Roccaccia di Selvena. Rapporto preliminare degli scavi e della ricognizione archeologica 1999, in BROGIOLO, G. P. a cura di, Atti del II convegno nazionale della S.A.M.I., Brescia, 2000, preatti.

 

Le prospettive di uno scavo.

Lo scavo del castello di Selvena è nato da due domande storiografiche di grande rilevanza: la genesi dei paesaggi medievali e il rapporto fra signoria territoriale e risorse. Ma già in questa fase preliminare dell’indagine è assai chiaro che la monumentalità e l’estensione del sito rendono necessaria l’adozione di una strategia particolare, che deve necessariamente investire il territorio in cui questo castello è inserito e con il quale ebbe un rapporto stretto, oggi dimenticato.

In questa ottica la redazione di un masterplan per un progetto di parco archeologico che tenti di ricucire la relazione fra l’antico centro del potere signorile con l’abitato attuale che ne ha ereditato il nome e le funzioni, passando per un monumento di archeologia industriale a scala mondiale quale è il complesso estrattivo e produttivo della miniera del Morone (la più ricca di mercurio anche quando fu chiusa pochi decenni fa).

La filosofia del nostro intervento è pertanto quella di dare un ampio respiro ad un progetto di scavo, perché non si esaurisca nello scavo, ma sia l’occasione di uno studio e di una valorizzazione globale di unterritorio.

Ad una scala più ampia questo progetto assume un valore parasigmatico e di stimolo progettuale per riconsiderare tutto il comprensorio amiatino, così fortemente segnato dal lavoro minerario lungo tutto il corso della storia dell’uomo.

 

Riccardo Francovich

 

Per una visione d’insieme: un primo tentativo di periodizzazione dei dati di scavo.

Lo scavo è stato affiancato fin dall’inizio da un’indagine sugli elevati curata da Giovanna Bianchi (si veda la bibliografia in calce al testo) e dalle ricerche d’archivio di Roberto Farinelli che sono state presentate in questo stesso contributo. Nel tentativo di fornire un quadro d’insieme dei dati al momento disponibili, sintetizziamo in questa sede quanto emerso proponendo una periodizzazione che deve essere intesa come assolutamente preliminare e suscettibile di ulteriori approfondimenti e modifiche.

 

PI (XVIII - XX): frequentazioni e crolli finali.

PII (XVI-XVII): butto torre ovest, restauri torre est e ambienti fra questa e il palazzo; divisioni interne al palazzo; ricostruzione o rimpello cisterna presso torre est; ridefinizione assetti area sommitale con piazza e rinforzi del muro di cinta.

PIII (fine XIV - p.m. XV): restauri cinta e palazzo.

PIV (fine XIII - p.m. XIV): costruzione palazzo e piazza antistante, ristrutturazioni ambienti fra palazzo e torre est; ampliamento cinta muraria.

PV (nel corso del XIII): costruzione ambienti fra palazzo e torre est, restauri torre ovest; torre pentagonale.

PVI (metà XII - p.m. XIII): consolidamento dei poteri signorili sul castello che diviene uno dei più rilevanti del comitato aldobrandesco; fronti di cava per i cantieri (?); edificio presso torre ovest e parte della cinta muraria della rocca.

PVII (XI - p.m. XII): prima attestazione documentaria di un castello; primo recinto con 2 torri. Buche di palo?

PVIII IX-X secolo: attestazione documentaria di un nucleo abitato (casale silbina) nell’area dove sorgerà il castello.

 

Periodo I (XVIII - XX).

In questo periodo, che cronologicamente si colloca fra il XVIII e il XX secolo, registriamo i crolli definitivi di parte degli elevati, che non vengono più ricostruiti a seguito dell'abbandono del castello.

Periodo II (XVI-XVII).

In età moderna la torre ovest perse la sua funzione difensiva, infatti venne utilizzata come butto. Nello stesso periodo fu modificata la destinazione d’uso della torre est. Dobbiamo quindi pensare che era in uso il solo piano inferiore e che l'alzato non doveva essere più considerevole come in antico.

Davanti al palazzo, sul lato sud, venne costruita una pedana di accesso che abbracciava entrambe le porte, quella del palazzo e quella del vano di transito. Ristrutturazioni sono registrabili anche nella presunta piccola chiesa con la realizzazione di una volta in mattoni e un battuto di terra.

Tutta l’area sommitale divenne una grande fortezza militare, perdendo definitivamente i suoi connotati di centro di popolamento.

In un momento successivo, ma sempre inquadrabile in età moderna, possiamo collocare la sistemazione della piazza di fronte al palazzo con un battuto che restaurava i cedimenti dei pavimenti in mattoni e in pietra. Una pedana per carri venne infine addossata alla porta del palazzo, che fu trasformato in dimora rurale una serie di modifiche degli spazi interni.

 

Periodo III (fine XIV - p.m. XV)

Appartengono a questo periodo alcune operazioni di rifacimento e restauro nel palazzo e nel resto delle strutture murarie sommitali.

Nel palazzo il rifacimento del solaio che divideva il piano terreno dal primo livello comportò un leggero innalzamento di quota dello stesso piano pavimentale e l'apertura di una nuova entrata ai piani alti, posta sul lato ovest. Contemporaneamente fu ricostruita la parte sommitale di tutti i muri perimetrali dell'edificio, con probabilità dotati di una nuova copertura, oggi distrutta. I rifacimenti riguardarono anche i tratti superiori dei muri che chiudevano a nord il preesistente cortile adiacente il palazzo, ora non più aperto ma trasformato in uno spazio abitativo chiuso.

 

Periodo IV (fine XIII - p.m. XIV).

In un periodo in cui molti dei castelli toscani entrano in crisi, a Selvena possiamo invece notare uno sforzo imponente di ridefinizione urbanistica e costruzione di nuovi edifici. Il palazzo fu in parte ricostruito e dotato di un secondo piano, assumendo le forme attuali. Questo significò anche la ridefinizione dello spazio aperto antistante, e degli ambienti adiacenti verso est. Intorno alla residenza signorile furono costruiti nuovi edifici in pietra e la cinta, in particolare sul lato sud, subì un grande ampliamento, venendo così a definire il percorso del circuito murario oggi visibile.

Forse questi interventi possono trovare una giustificazione nel passaggio della Rocca nelle mani del conte Giacomo di S.Fiora, che la scelse come residenza principale.

 

Periodo V (nel corso del XIII).

Un periodo a parte è stato creato per la costruzione della grande torre pentagonale, quasi completamente conservata nella sua originaria imponenza. Questo monumento, così diverso nella sua forma e nella tecnica costruttiva d tutti gli altri interventi precedenti e posteriori, la presenza di un bugnato e di un filarotto ancora abbastanza curato, impongono una collocazione cronologica entro la metà del XIII secolo e l’arrivo di maestranze specializzate esterne. Poiché sappiamo che il vicario imperiale di Federico II assediò Selvena nel 1241, possiamo ragionevolmente ipotizzare, anche in virtù di confronti con architetture dell’Italia meridionale, che la torre sia stata realizzata in questo periodo.

 

Periodo VI (metà XII - p.m. XIII).

In questo periodo sulla cui cronologia dobbiamo mantenerci ancora un po' larghi possiamo registrare la costruzione di un ambiente adiacente alla torre est, la realizzazione della cisterna e la ristrutturazione della torre ovest con rialzamenti in bozze più sottili e l'apertura di una porta. Adiacente alla torre ovest fu costruito un edificio, dotato di fondo cieco, delle stesse dimensioni del palazzo

Non abbiamo per il momento dati precisi sulle cinte murarie, ma è certo che una parte dell’area sommitale fosse già protetta da una cortina difensiva di cui rimane un ampio tratto sul lato nord presso la torre pentagonale. Non è detto che già in questo periodo tutta la sommità fosse recintata.

 

Periodo VII (XI – p.m. XII).

A questo periodo possiamo ascrivere le prime attestazioni archeologiche, cioè le due torri quadrangolari e un probabile recinto che le univa di cui non rimane traccia ad eccezione dello spessore consistente dei muri perimetrali del palazzo che si potrebbe spiegare con l'insistere su un precedente circuito murario. La costruzione di questo primo castello evidenzia marcati connotati militari, realizzato come era su uno sperone di roccia all'interno del promontorio. Tutta la zona compresa fra le due torri risulta infatti più rilevata rispetto al pianoro sommitale dove è stata poi realizzata la grande area signorile. La torre est doveva avere un elevato considerevole a giudicare dalle bozze rinvenute nei crolli e quelle riutilizzate nelle fasi costruttive più recenti come il palazzo trecentesco e le diverse pedane.

 

Ricognizione archeologica nel territorio di Selvena.

Rapporto preliminare

Premessa

 

Il problema della visibilità.

Il Comune di Castell’Azzara si presenta, sotto l’aspetto morfologico, come una porzione di territorio incoerente, dal momento che è a cavallo fra due valli, quella del Fiora a ovest e quella del Paglia a est. Pertanto il Monte Civitella, con i suoi 1100 m. slm. costituisce non solo lo spartiacque geografico, ma anche un limite fisico fra due aree: sarà interessante valutare in che misura questo abbia inciso in termini di dinamica dell’insediamento nelle diverse epoche. In base alla carta dell’uso del suolo possiamo notare che oggi lo sfruttamento agricolo-pastorale (principalmente pascoli) ha come quota massima i 600 –700 slm, oltre la quale si estende il bosco. Occorre inoltre notare che, mentre dal versante di Selvena le aree periodicamente sottoposte a un dissodamento, seppure superficiale e per uso pascolo, sono concentrate lungo una fascia nord-sud con al centro l’abitato attuale di Selvena, nel versante del Paglia possiamo piuttosto parlare di un’area estesa fra i 300 e i 700 m. Queste considerazioni consentono di affermare che rispetto alle pianure coltivate della costa l’area in esame presenta notevoli difficoltà al ricognitore.

È stato pertanto necessaria una strategia particolare, pena l’impossibilità stessa di reperire informazioni utili ai fini della ricostruzione storica.

In primo luogo, pur all’interno di aree campionate di tipo tradizionale, sono state effettuate ricognizioni intensive nelle sole aree con visibilità medio-alta, in secondo luogo è stato approntato un progetto di studio della foto aerea a partire dal volo EIRA del 1976, e una prima analisi a tappeto della toponomastica. Basti qui ricordare che i toponimi conservati dalla cartografia non arrivano a 50 mentre la raccolta dei dati da fonte orale supera i 1000.

 

Osservazioni preliminari sui dati delle campagne 1998-99

Riprendiamo e integriamo in questa sede i dati presentati in Francovich et alii 1999.

 

Preistoria e Protostoria

Questo periodo è poco documentato al momento, poiché abbiamo solo 6 segnalazioni, per lo più dall’edito, che riguardano ritrovamenti sporadici di utensili, quali asce e picconi litici rinvenuti nelle vicinanze delle miniere contemporanee e in ripari naturali.

La nostra ricognizione non ha individuato al momento nessun abitato di questo periodo ma solo ritrovamenti sporadici.

Presso il Pod. Banditella, che si trova in prossimità del Fiume Fiora, abbiamo invece un ritrovamento più consistente di schegge di diaspro ritoccate, forse da attribuire alla frequentazione di un terrazzo fluviale.

 

Periodo etrusco

Per il periodo etrusco abbiamo una segnalazione dalla letteratura di un ritrovamento sporadico, una moneta d’oro di Filippo di Macedonia associata a resti di defunti ritrovati in una antica galleria di una miniera di cinabro e probabilmente nelle vicinanze della moderna miniera del Cornacchino. Sulla sommità del Monte Civitella (toponimo ricorrente in Toscana per individuare siti di origine etrusca), nella porzione più elevata, sono i resti di un villaggio fortificato mentre nel pianoro sottostante la presenza di dolia, ceramica comune e da mensa e la totale assenza di strutture murarie fa supporre l’esistenza di un villaggio costituito da capanne (UT 40-32-31).

Un altro sito è stato individuato sulla sommità del Monte Penna (UT 30.2), il quale ha restituito pochi reperti ceramici attribuibili a questa epoca ma interessante è la presenza di un muro che circonda la sommità descrivendo una L; questo muro apparentemente non rientra nelle tipologie tipiche dell’edilizia medievale, ma piuttosto in quelle dei muri di recinzione degli abitati protetti protostorici ed etruschi.

Questi due siti nel loro complesso consentono di vedere una presenza etrusca stabile in aree e a quote dove è piuttosto difficile supporre una normale pratica dell’agricoltura, mentre più plausibile è un interesse per l’allevamento e lo sfruttamento del bosco. Per entrambi è ipotizzabile un ruolo strategico, data l’ampia visibilità che abbraccia un vasto territorio. Si tratta di suggerimenti che potranno trovare corpo solo con scavi accurati. Di età etrusca è pure il rinvenimento di frammenti fittili, forse una piccola fattoria localizzata in prossimità della Sforzesca (UT 51), probabilmente dedita ad attività agricole, che più facilmente potevano essere svolte in quest’area.

In conclusione la presenza etrusca nel territorio si presta a diverse interpretazioni; una potrebbe vedere nelle strutture fortificate poste sulle sommità dei monti dei siti di controllo dei territori compresi tra Vulci, Roselle e Chiusi. Un ruolo nell’ambito di itinerari di transumanza non va escluso, ma deve trovare conferme più consistenti.

 

Età romana

L’unica segnalazione edita per l’età romana riguarda una tomba di III d.C. localizzata presso Poggio Pinzo. La ricognizione ha comunque evidenziato varie unità topografiche, quasi tutte in località Querciolaia.

Qui segnaliamo una fattoria (UT 20-24) di media grandezza dedita probabilmente ad attività agro-pastorali. Inoltre è stato individuato a brevissima distanza un sito parzialmente distrutto dallo scavo per l'impianto della strada vicinale, che tuttavia ne ha permesso l'individuazione. Sul luogo erano presenti frammenti di laterizio, acroma grezza, sigillata italica e resti di ossa umane a forte concentrazione (ricomposta una olletta ad impasto grezzo e una porzione di una scodella di sigillata italica); molto probabilmente si tratta di una tomba alla cappuccina o a cassettone (UT 21) realizzata con lastre piccole di pietra ed embrici, con corredo semplice riconducibile alla fine della repubblica - primo impero.

La presenza di sigillata italica, vernice nera e frammenti anforacei, evidenzia che il sito era in contatto commerciale con i centri più grandi (al momento senza una analisi dettagliata dei materiali non possiamoessere precisi). Oltre a questi siti più rilevanti ne sono stati individuati altri nelle vicinanze interpretabili, data la loro esigua restituzione materiale, come annessi della fattoria.

Possiamo notare che la ricognizione in Val di Paglia (Comune di Abbadia S. Salvatore) ha restituito ceramiche importate solo nei siti del fondovalle, mentre i dati preliminari da Castell’Azzara sembrano suggerire una diversa direzione: anche le aree collinari più elevate fruiscono di questi prodotti e ciò potrebbe essere messo in relazione ad una diversa dinamica dei processi di romanizzazione fra la valle del Fiora, così vicina a Sovana, e il versante che dà sul Paglia. La ricognizione ’99 ha interessato anche l’area del Paglia presso la villa Sforzesca. In questa zona sono state localizzate due piccole fattorie databili probabilmente alla tarda repubblica - primo impero, che dimostrano una continuità di sfruttamento della risorsa agricola. Mentre per la parte bassa della valle del Paglia forse è possibile ipotizzare uno sfruttamento organizzato della risorsa agricola, orientato verso la viabilità di lunga percorrenza, per l’area del Fiora le dinamiche sembrano diverse e orientate a sfruttare le quote anche meno favorevoli. Tuttavia un’occhiata alla carta di distribuzione dei siti mostra chiaramente che sul versante del Fiora, pur essendo a quote elevate, i siti romani in genere sono collocati molto più in basso di quelli etruschi che invece sembrano prospettare un tipo di paesaggio che ritroveremo nel medioevo.

Non dobbiamo poi dimenticare il ruolo che potrebbero aver giocato la sacralità del monte Amiata, con boschi e sorgenti, punto di confine fra i territori di Vulci, Chiusi, Roselle e Arezzo.

 

Il Medioevo

Dunque, mentre i siti romani per ora noti sono di piccole dimensioni, sparsi nelle aree che meglio si prestavano ad attività miste agro-pastorali, quelli medievali sono di tipo accentrato e ubicati preferibilmente sulle sommità che in parte erano state occupate dai siti etruschi. Questo è forse chiaro per Monte Penna-Poggio della Vecchia, ma non abbiamo ancora indizi se l’area del castello di Selvena sia stata o meno occupata da un sito etrusco in precedenza.

Il sito di monte Penna (UT 30.1) è di particolare interesse perché la raccolta dei materiali di superficie indica che l’insediamento è stato abbandonato nei primi decenni del XIII secolo (totale assenza di maiolica arcaica) inoltre sulla sommità dell’area circoscritta dal muro “etrusco” si intravedono le tracce di una struttura in muratura, forse una torre o un piccolo cassero. Tra la “torre” e il muro a L non sono visibili strutture di rilevante consistenza, ma solo alcuni allineamenti di pietre non legate da malta, che potrebbero indicare un abitato costituito da capanne con struttura mista pietra/legno. L’ipotesi più plausibile in attesa di scavi è che nel medioevo la scelta del luogo dove porre l’insediamento sia stata stimolata dalla presenza di strutture già esistenti.

Alla confluenza tra il fosso Roghiccioni e il fiume Fiora è il sito di Castelmaggi (UT 8-9). Sulla collina situata a sud ovest del poggio omonimo si intuisce la presenza di una struttura muraria dalla quantità di bozze apparentemente squadrate e dal loro allineamento che non sembra essere frutto di una condizione naturale. Questo sito è posto su una altura dalla quale è possibile vedere bene la valle del fiume Fiora, e quindi non va esclusa una funzione di controllo di una antica viabilità o di una direttrice di transumanza.

In un quadro di sfruttamento di affioramenti superficiali anche di modesta entità questi due castelli, insieme a Selvena, sono ubicati in aree adiacenti o comunque molto vicine ad affioramenti di cinabro; molto stretta potrebbe anche essere la relazione tra la Miniera del Cornacchino e i siti etruschi di Monte Penna (UT 30.1) e di Monte Civitella (UT 40-32-31).

Un altro aspetto che stimola la riflessione, pur in un quadro di dati preliminari, è il rapporto fra il castello di Selvena, di certo il più rilevante centro di popolamento fra XIII e XIV secolo di una vasta area circostante, e altri castelli come il vicino Penna, che sappiamo abbandonato nel corso del XIII secolo. In quest’area probabilmente l’investimento aldobrandesco fu concentrato su Selvena per farne un grosso abitato, (quello che nella letteratura viene ora definito secondo incastellamento) determinò l’assorbimento di siti minori, anch’essi accentrati, che si erano formati durante la prima fase dell’incastellamento.

 

Età moderna

Le testimonianze archeologiche per l’età moderna confermano che non vi fu un abbandono della zona di Selvena, ma che al contrario il popolamento sparso tornò ad occupare aree a quote anche molto diverse. Questo dato è piuttosto rilevante, perché mostra un interesse rinnovato e più capillarmente diffuso per lo sfruttamento agro-pastorale del territorio. Del resto la trasformazione del castello da centro di popolamento in fortezza militare deve aver aperto la strada ad una dispersione della popolazione che solo in parte potrebbe essere stata raccolta dal nuovo centro di Selvena.

 

 

Le attività minerarie a Selvena

Il castello di Selvena è situato in posizione dominante rispetto ad un'area mineraria che consentiva una agevole ed abbondante estrazione di minerali utili alla produzione di mercurio, antimonio e vetriolo. La possibilità di sfruttare queste risorse minerarie costituì il motivo principale dell'importanza assunta dal castello per gli Aldobrandeschi, casata comitale che risulta controllare l’insediamento fortificato a partire dal secolo XI; tra le coltivazioni minerarie assunsero un eccezionale rilievo quelle relative alle risorse mercurifere, dal momento che le argenti fodine di Selvena, contese nel secondo Duecento tra i due rami della famiglia, erano con ogni probabilità costituite da escavazioni di "argento vivo", vale a dire di mercurio.

 

1. L'antimonio ed il vetriolo

Il trattatista senese Vannoccio Biringucci nella sua opera De la Pirotechnia, edita a Venezia nel 1540, menziona alcune miniere d'antimonio situate "nel contado di Santa Fiora, presso a una terra chiamata Selvena" e probabilmente allude al medesimo comprensorio quando riferisce della produzione di vetriolo "nel contado di Santa Fiora".

Un inventario redatto nel 1502, per conto del conte Guido Sforza, in occasione dell'affitto delle rendite della contea a favore di una società di cui faceva parte Giovan Battista Giordani menziona "una bilancia con la sua padella nuova di ferro" ed "un ramaiolo di ferro da antimonio", probabilmente utilizzato per fondere il metallo in caso di rinvenimento (L'inventario - nuovamente pubblicato senza sostanziali variazioni in Benocci 1999 - è edito in BENOCCI 1996, pp. 39-42 e viene descritto in BENOCCI 1996, p. 35). Relativamente alla produzione di vetriolo in Selvena disponiamo di una più dettagliata descrizione effettuata attorno al 1590 dal naturalista Michele Mercati, che la inserì nella sua Metallotheca Vaticana, edita postuma tra il 1717 ed il 1719, allegando anche una raffigurazione degli impianti. Secondo il Mercati, l'estrazione avveniva sia a cielo aperto, sia in gallerie o in pozzi, ma, in questo caso, era ostacolata dal rinvenimento di "putizze", vale a dire di esalazioni termali che rendevano difficoltoso il proseguimento degli scavi. Il minerale estratto veniva ammucchiato e lasciato ad asciugare per essere sgretolato; successivamente la polvere così ottenuta veniva disciolta in grandi vasche riempite d'acqua e lasciata decantare, sino a che la soluzione, immessa in grandi caldaie di piombo, era portata più volte ad ebollizione con fuoco di legna; infine la soluzione veniva versata in casseforme di legno di castagno nelle quali avveniva il "congelamento" del vetriolo, che ne veniva estratto sotto forma di pani.

La produzione di vetriolo è ampiamente documentata nel corso del secolo XVII, ma entrò in crisi nel primo Settecento; successivamente, dopo un periodo di stasi (VICARELLI 1991, p. 75), questa attività riprese temporaneamente vigore per iniziativa dei duchi Sforza Cesarini attorno al 1760 (MAMBRINI, MERLI 1999, pp. 26, 34).

 

2. Il mercurio

 

Per quanto concerne la produzione di mercurio riveste notevole interesse il ricordato inventario del 1502, ove sono descritti, tra l'altro, i "ferramenti attenenti alle cave del mercurio": si trattava prevalentemente di attrezzi da scavo (un palo, due mazze, quattro zappe, sei zappastri, otto picconi, una pala, tutti realizzati in ferro) e di arnesi da carpenteria (uno scarpello, un'accetta da falegname e una sega da falegname), ma erano presenti anche alcuni strumenti utili al trattamento metallurgico, quali "due raspini di ferro per le fornaci, una paletta di ferro da stuzzicare il fuoco alle fornaci".

Le notazioni più interessanti che si ricavano dall’inventario riguardano proprio gli impianti metallurgici utilizzati per la produzione di mercurio, dal momento che attestano l'adozione di una tecnica metallurgica piuttosto avanzata. Infatti, all’interno di un edificio denominato "casotto del mercurio", forse ubicato presso la rocca di Selvena, erano collocate "due fornaci da mercurio, guaste da rassettarsi" - di cui si conservavano anche "due coperchi di ferro usati per serrare la bocca delle fornaci" - e un'altra fornace ormai in disuso (BENOCCI 1996, p. 39); in altri locali ubicati nell'area sommitale di Rocca Silvana erano conservati "un tavolino vecchio usato da fornace", "una forma tonda da fare le canne per le fornaci, tutta rotta" ed alcuni "pezzi di forme da far la cuppola alle fornaci, parimente rotte". Queste indicazioni ci consentono di definire, seppure in via approssimativa, la tipologia delle fornaci da mercurio utilizzate a Selvena: in primo luogo le indicazioni contenute nel documento riguardano forni di ridotte dimensioni, tali da consentire la presenza di tre impianti all’interno di un unico ambiente di modesta estensione (come è lecito supporre per l'uso del termine “casotto”); in secondo luogo i riferimenti agli stampi (forme) per realizzare in terracotta alcuni componenti delle fornaci, quali la cuppola e le canne a sezione cilindrica, permettono di descrivere la parte sommitale delle stesse nei termini di una calotta laterizia dalla quale si dipartiva un condotto nel quale il mercurio gassoso avrebbe dovuto condensarsi per confluire negli appositi contenitori. Sulla base di queste indicazioni, perciò, è possibile affermare che la struttura degli impianti di Selvena, in disuso all'inizio del XVI secolo, era simile a quella più chiaramente descritta nel già menzionato trattato sulla tecnica metallurgica de la Pirotechnia del senese Vannoccio Biringucci (1480-1537), sostanzialmente coevo all'inventario in esame. Si tratta, in particolare, del tipo di fornace più raffinato e costoso tra gli impianti utilizzati per la produzione di mercurio, che il trattatista senese affermava di non aver visto di persona - forse a causa della sua limitata diffusione nell'Italia centrale - ma che descrisse sulla base di testimonianze dirette (Cfr. Biringuccio 1540, cc. 22v-25v e, in particolare, c. 25 r-v. Descrizioni analoghe, in parte riprese dal trattato del Biringuccio, si ritrovano anche nel De re metallica di Giorgio Agricola AGRICOLA 1556, pp. 346-349). Il tratto caratterizzante dell’impianto produttivo era costituito dalla presenza di un coperchio in terracotta dotato di un lungo cannello che veniva posto sopra il recipiente nel quale il cinabro veniva riscaldato sino alla temperatura di evaporazione del mercurio; questa canna consentiva da un lato di conseguire un più rapido raffreddamento, necessario per la condensazione del metallo, e dall'altro permetteva di dirigerne il flusso sino al recipiente di raccolta. Alcune dettagliate descrizioni degli impianti metallurgici in uso a Selvena nella prima metà del secolo XVIII, come quelle proposte dal tecnico minerario Giovanni Arduino e dal naturalista Giorgio Santi, consentono di affermare che le strutture utilizzate successivamente non differivano nella sostanza dai forni quattrocenteschi e che, pertanto, quello che nel secolo XV si presentava come un settore produttivo tecnologicamente avanzato non conobbe in seguito innovazioni tali da introdurre sostanziali adeguamenti tecnici.

 

 

NOTA

Sullo sfruttamento delle mineralizzazioni di antimonio, allume e vetriolo a Selvena cfr. Biringuccio 1540; Mercati 1717-1719, pp. 61-63; Targioni Tozzetti 1777, pp. 61-63; Santi 1795, p. 188; VICARELLI 1991, pp. 70-71; Biondi 1990; MAMBRINI, MERLI 1999; FARINELLI, Francovich 1999; FARINELLI 1999 ed i documenti editi in Benocci 1999, n. 7, pp. 62-63 ed in BIONDI 1990, p. 20

Non mancano elementi di ambiguità nell'attribuire le menzioni del "Palazzo di Selvena" riscontrate tra XVI e XVIII secolo, alle strutture del castello oppure ad un edifificio distinto, posto nell'attuale abitato di Selvena (come emergerebbe soprattutto dalla descrizione proposta SANTI pp. 183 ss. su tale problematica cfr. comunque MAMBRINI, MERLI 1999) A nostro giudizio, alcuni elementi - quali ad esempio la presenza di granai, che nel 1501 sono detti ubicati presso la Rocca e nel 1770-1780 sono detti annessi al palazzo feudale (cfr. i documenti editi in BENOCCI 1996, p. 40 e MAMBRINI, MERLI 1999, p. 34)-, consentono di affermare che sino ai primi decenni del XIX secolo con l'espressione palazzo di Selvena si intendeva designare anche il complesso architettonico posto nell'area sommitale della rocca.

 

 

BIBLIOGRAFIA

Francovich R,. et alii 1997a, Archeologia e storia a Rocca Silvana, “Amiata. Storia e territorio”, 26, pp. 14-21.

Francovich R,. et alii 1997b, Progetto Selvena. Dati di scavo, analisi degli elevati e fonti scritte: prime acquisizioni, in Francovich R., Valenti M., a cura di, La nascita dei castelli nell'Italia medievale. Il caso di Poggibonsi e le altre esperienze dell'Italia Centrosettentrionale, Relazioni preliminari del convegno, Poggibonsi, 1997, pp.151-170.

Francovich R., et alii 1999, La Roccaccia di Selvena (Castell’Azzara – GR). Relazione preliminare delle indagini 1997-1998, “Archeologia Medievale”, XXVI, pp. 139-150.

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