Il testamento del conte Giacomo




1. Il documento più prezioso della storia di Selvena


Il conte Giacomo, uno dei pochi meritevoli del titolo nella contea di Santa Fiora, fu l’ultimo vero signore di Selvena. Ne aveva fatto la sua dimora abituale, specialmente dopo esserne diventato unico proprietario, il luogo di sosta, di riposo, di ripresa dopo le scorribande, le lunghe scorrerie a piedi e a cavallo per infestar nemici o per star dietro ai privati interessi.

Era un rifugio sicuro per il bestiame predato, un riparo per i fuorusciti, per gli amici, che, in qualche modo, fossero compromessi con la giustizia.

Selvena con il suo distretto, di qua e di là dalla Fiora, era un piccolo stato, una proprietà tutta riunita, senza frazionamenti illogici né privative. Entrate sostenute dai dazi sulle merci in transito, ché di là passava la strada più breve dalla marina alla montagna, dai pedaggi delle bestie statinare, dalle fide sui terreni pascolativi e forse da una certa affezione dei pochi abitanti, che consideravano una fortuna la dipendenza da un solo padrone, a differenza di tanti altri confinanti.

Il testamento, dettato «presso la villa di Ampugnano nel contado senese, nella casa situata sopra il podere di Francesco di Guiduccio Ruffaldi» nel 1343, legato indissolubilmente agli altri due, che proporremo successivamente, è il documento più prezioso nella storia di Selvena.

Vale quindi la pena di tradurlo per intero, non solo perché finora inedito, ma anche perché costituisce l’ultima decisa volontà dì un uomo agitato non tanto dalla speranza del perdono delle malefatte commesse ai danni di Siena, o dalla paura insidiosa della vita futura, quanto dal timore, anzi dalla persuasione che i beni salvati con tanta accortezza ed ampliati con vero accanimento, andassero a finire nelle mani di parenti scioperati, capaci di ridere dell’insperata fortuna, mantenuta ed ammassata con avarizia e spilorceria.

Questi sono i sentimenti più naturali e genuini, che potrebbero agitare un uomo di una certa età, senza una cultura anche elementare, attaccato ancora alla terra ed alla vita, che però vede fuggire giorno per giorno.

«In nome di nostro Signore Gesù Cristo e dell’indivisibile Trinità. Amen.

Anno 1343, indizione XII, 14 di novembre, secondo il computo tradizionale della città di Siena.

Poiché sta scritto che la condizione dell’umana natura è quella di pagare il debito della morte, uguale per tutte le persone, e che uno apparirà tanto più coraggioso quanto più sollecitamente disporrà il pagamento ditale cambiale, l’illustre e magnifico signor Giacomo di Santa Fiora, per grazia di Dio conte palatino, volendo disporre, secondo i dettami della Chiesa, previdentemente per la salvezza della propria anima, e diligentemente ed oculatamente per la sorte della propria casa, sano di mente, dì corpo e di intelletto, ha voluto dettare e far redigere il presente testamento nuncupativo “sine scriptis”. Prima di tutto si professa assertore fedele e geloso della vera fede cattolica, secondo le disposizioni della Santa Romana Chiesa, soprattutto per ciò che riguarda la cura dell’anima, e fin d’ora e nell’ultimo istante della vita, sotto l’egida della vera fede, vuole ripetere devotamente: Signore, nelle tue mani raccomando l’anima mia. Quando sopraggiungerà la morte, in segno di riverenza verso il Creatore, dispone e vuole che il suo cadavere, con le dovute cerimonie religiose, venga trasferito e seppellito nella chiesa di San Nicola di Selvena.

Ordina e impone ai suoi eredi e fidecommissari di restituire e pagare, agli aventi diritto, qualsiasi interesse legittimamente dovuto, sia pure una sola persona, quanto un convento o istituto o corporazione, specialmente se gli fosse pervenuto a qualsiasi titolo per causa illecita od ingiusta. E ben considerando la diuturna fiducia, l’indiscusso rispetto per le leggi e tutte quante le buone garanzie del Comune di Siena, a cui ha sempre aderito almeno mentalmente con la massima sicurezza, e in cui ora ripone la speranza della sua salvezza con l’esecuzione di queste ultime volontà, istituisce suo erede universale in tutti i suoi beni, mobili, immobili, bestiame grosso e minuto, diritti ed azioni, oneri, condizioni e sostituzioni, il medesimo Comune di Siena.

E così, perché siano conosciuti i diritti di sua spettanza sulle terre e sui fortilizi, e perché non si verifichino, contro la volontà dello stesso testatore, soperchierie e soprusi a danno di altri, dichiara essere di sua pertinenza le seguenti terre e fortilizi descritti nelle loro parti. Cioè:

— La terra e rocca di Selvena con tutti i diritti spettanti a metà, in comune, con il conte Pietro suo fratello;

— Il castello e fortezza di Scerpenna con le proprie spettanze a metà, pro indiviso, con il detto conte Pietro suo fratello;

— La quarta parte e mezza di un quarto dell’abitato e della terra di Capalbio con metà del suo distretto, in comune, con il già detto conte Pietro suo fratello;

— La metà dell’abitato e terra di Magliano, come appare divisa con gli altri conti, con la quarta parte del territorio compreso nella giurisdizione già determinata per confine, con tutte le competenze a metà, in comune, con il fratello Pietro;

— La metà, pro indiviso, di tutto l’abitato e il cassero del Giglio con la sua terra attorno, con il fratello Pietro;

— L’undicesima delle venti parti dell’abitato e del cassero del Collecchio con la regione attorno, e le sue spettanze, indivise, con il conte Stefano e ciò a metà, in comune, con il fratello Pietro;

— La terza parte, come appare già divisa fra i consorti di famiglia, dell’abitato e della fortezza di Scansano, e questa terza parte con le proprie attinenze, in comune, per metà con il conte Pietro suo fratello;

— Così anche la terza parte, pro indiviso, del territorio e del cassero di Samprugnano con tutte le sue pertinenze ed i suoi diritti, da dividersi a metà con il conte Pietro suo fratello;

— La metà di tutto l’abitato e la fortezza di Monte Buono, con i diritti di spettanza da dividersi a metà con il fratello conte Pietro;

— La terza parte del censo e del diritto di censo che gli appartiene e deve riscuotere dal comune di Monticello, di quaranta fiorini di denari in tutto, da dividere a metà con il suddetto conte Pietro suo fratello;

— Inoltre la fedeltà e la baronia della terra di Stribugliano con tutto quanto il territorio, distretto e le servitù feudali dovute da coloro che hanno il possesso della terra, a metà, pro indiviso, con il conte Pietro suo fratello.

Così ordina, impone e raccomanda che il Comune di Siena, suo erede, debba spendere ed erogare, a salvezza della sua anima, la somma di quarantadue mila fiorini d’oro nel modo che segue, cioè: nei dieci anni successivi, dopo la sua morte, vale a dire almeno quattromiladuecento fiorini d’oro ogni anno devono essere spesi nella maniera seguente:

— costruire di sana pianta quattro monasteri, dove possano abitare alla foggia monacale almeno quindici religiose per ciascuno, a preferenza vergini, povere e di buona famiglia.

E nei detti monasteri devono esser celebrati i divini offizi in perpetuo, a salute e rimedio dell’anima del testatore. Ciascuno dei monasteri sia dotato dal suddetto erede (il Comune di Siena) della somma di quattromila fiorini, per la costruzione e per tutte le altre cose idonee al mantenimento, al vitto ed al necessario per le religiose e per i conviventi, nell’acquisto dei beni mobili, utili e profittevoli, secondo le disposizioni degli infrascritti fidecommissari del testatore; e questi beni non possano in alcun modo essere venduti o alienati o impegnati, ma debbono rimanere per sempre, con i loro interessi, in sostentamento delle persone già dette. Il primo di tali monasteri sia messo sotto la protezione ed il titolo della beata Vergine Maria e di Sant’Anna sua madre, con la stessa regola e l’osservanza del convento senese di San Francesco.

Il secondo invece sotto la regola, l’osservanza ed il titolo del convento di S. Francesco di Siena.

Il terzo sotto il titolo e la regola del convento di S. Domenico di Siena.

Il quarto infine sotto l’osservanza ed il titolo del convento di Sant’Agostino di Siena.

Il posto (di erezione) verrà stabilito dal Comune di Siena o da probiviri eletti dal Comune con il consenso e la volontà degli infrascritti fidecommissari.

I monasteri dovranno rimanere per sempre sotto la difesa e sotto la protezione del Comune, ed il Comune venga riconosciuto assolutamente nei detti monasteri ed in ciascuno di essi con il privilegio di giuspatronato.

— Con gli stessi criteri deve essere costruito un ospedale, ossia un ospizio capace di accogliere e confortare i poveri, specialmente pellegrini, per cui deve esser devoluta (la stessa cifra) tra costruzione, mantenimento, attrezzatura (fulcimentis) per almeno trenta letti ben apprestati e sufficientemente provvisti di biancheria. Anche qui devono esser celebrate le funzioni religiose.

Per tutto ciò si devono investire e spendere quattromila fiorini d’oro, secondo le disposizioni dei probiviri eletti dal Comune di Siena, con il consenso dei fidecommissari, nel luogo che sembrerà più opportuno ai ridetti probiviri.

E l’ospizio sia costruito sotto la denominazione di San Giacomo apostolo ed in suo onore. E come spetterà al Comune di Siena l’elezione del governatore e dell’amministratore (dell’ospizio) così dovrà rimanere sotto la sua protezione, anche quando dovrà incaricare uno o più sacerdoti per la celebrazione degli uffici divini a rimedio dell’anima sua.

Il restante della somma dei fiorini, sopra distribuiti, ordina che siano erogati e spesi secondo la maniera particolare e distinta, che gli capiterà di disporre, lasciare ed assegnare, da ora in poi, anche a mezzo di codicilli.

Tutto quanto viene disposto e legato nel presente testamento vuole che sia rispettato ed eseguito, come se fosse minutamente descritto. Tutta la presente istituzione, affidata al Comune di Siena, viene fatta se ed in quanto il Comune di Siena intenderà inderogabilmente accettare entro due mesi dal giorno della notifica e della presa visione del presente testamento, dopo la morte del testatore. E se dovesse darsi il caso di non accettazione, sostituisce ed istituisce, alle stesse condizioni, l’Ospedale di Santa Maria davanti ai gradini della Chiesa maggiore di Siena , e la Casa di Santa Maria della Misericordia dei poveri della città, in parti uguali, a questa condizione: se il Capitolo, l’Assemblea e i Lettori dei luoghi predetti accetteranno volentieri l’eredità del testatore, entro altri due mesi dalla notifica loro fatta e dopo il rifiuto effettuato dal Comune di Siena, e qualora una sola delle due istituzioni desideri accogliere l’eredità rifiutandola l’altra, le rimanga assegnata interamente con gli oneri prescritti. Che se poi, dopo il ripudio effettuato dal Comune, anche una o tutte e due le istituzioni non volessero accettare o mandare ad effetto la presente ultima volontà disposta dal testatore, allora in ambedue i casi, istituisce erede universale la Chiesa Romana con gli impegni già descritti ed altri da indicare dallo stesso testatore, se sarà necessario, impegnando fin da ora la lealtà e la volontà dei romani pontefici e degli amministratori della Chiesa. E se accadesse che nessuno degli eredi indicati accettasse l’eredità, e i suoi beni dovessero pervenire a persone fuori (non indicate) del testamento, vuole che siano sciolti i legati predetti e dispone di essi come se non fossero rilasciati per testamento, al di fuori della costituzione in eredità, in maniera che vengano devoluti agli stessi.

E perché la volontà del testatore abbia piena esecuzione in ogni caso, e perché i fidecommissari possano adempiere il loro incarico più facilmente e più speditamente, vuole che il Comune di Siena presti il suo aiuto, interponga il suo patrocinio e la sua opera. A questo proposito dispone, per gratitudine, che venga destinato al Comune di Siena stesso, a titolo di censo e come censo, onore ed omaggio delle sue terre, ogni anno, in perpetuo, un cero di cera tagliato del valore di cento libbre di denari senesi, che dovranno offrire tanto gli eredi stabiliti quanto i sostituiti e gli eredi successivi fuori del testamento. I fidecommissari offrano e facciano offrire il cero con l’insegna ben visibile del testatore, come ricordo del conte Giacomo, e per la salute dell’anima sua, all’opera di S. Maria, il giorno della festa della Madonna (15 agosto), quando viene fatta l’offerta dai Signori Nove.

E dopo tutto, nel caso che l’eredità venga assegnata a persone fuori del testamento, vuole che le spese ed i legati si paghino con le entrate ed i redditi dei suoi beni e delle sue terre, che lascia destinati a tale scopo. Beninteso sempre a condizione che le terre, le fortezze, le giurisdizioni ed i luoghi abitati a lui spettanti non possano essere venduti né alienati né trasferiti ad altre persone, né impegnati sia dagli eredi testamentari sia dagli eventuali fuori testamento, ma costituiscono sempre l’eredità integrale, stabilendo per tutti l’osservanza e l’adempimento, pena la perdita della parte venduta e di tutta l’eredità.

E per condurre e mandare a compimento e a buon fine tutto quanto, nomina suoi fidecommissari esecutori e procuratori testamentari, l’Ufficio dei Signori Nove attuali o quelli che saranno in carica, il rettore dell’Ospedale di Santa Maria (della Scala), il rettore della Casa della Misericordia (dei poveri), il priore del Convento senese di Sant’Agostino, il priore del Convento senese di San Domenico in Camporeggi, il priore dei frati della Certosa, il guardiano del Convento senese di San Francesco come consultore, il signor Niccolò Novello del fu Filippo de Bonsignori di Siena, il signor Francesco del fu Guiduccio Ruffaldi e Guidone del fu Meo cittadini senesi, tutti con uguale autorità. E concede loro la facoltà di eleggere, in sostituzione, altri fidecommissari o procuratori, confermando fin da ora a loro stessi ed ai loro sostituti l’autorità, il permesso e la potestà nell’amministrazione più libera ed ampia. Il loro mandato deve durare un anno e venire rinnovato anno per anno fino a che le disposizioni testamentarie abbiano ottenuto l’effetto prescritto, e possano rinunciare all’incarico tutte le volte che vorranno, e quello che verrà stabilito da due o dalla maggior parte di loro, cioè dalla maggioranza, valga e sia ritenuto valido da tutti. In caso di non accettazione o di assenza, valga la decisione presa dagli altri.

Questa è l’ultima sua volontà e disposizione, che intende far valere e ritenere a piena ragione, per diritto di testamento e di ultima volontà. E se non valesse per diritto di testamento, valga per diritto di codicillo, o per qualsiasi altro diritto come meglio e più efficacemente possa valere, in modo che non si possa più cambiare.

Rendendo vano e privando di qualsiasi effetto qualunque altro testamento o ultima volontà, che avesse fatto in passato fino ad oggi. E se ne venisse fuori qualcuna che fosse anche avvalorata da qualche condizione, vuole che sia ritenuta come non fatta e vana. E perché il testamento presente sia più sicuro e resti immutabile, vuole che qualunque altro scritto o espressione di ultima volontà che apparissero fatti in passato o in avvenire, sia ritenuto invalido ed inutile, e non abbia alcuna autorità se non porterà bene evidenti e chiaramente segnate queste parole: Benum, caides, anavit, avacellus. E se apparisse in avvenire qualsiasi scritto che non recasse ben scritte in evidenza tali parole, afferma fin da ora che sarebbe da ritenersi fittizio e falso. E così anche se succedesse di trovare d’ora in avanti un suo testamento o ultima volontà che non contenesse espresse le stesse parole: Benum, caides, anavit, avacellus, afferma che la detta eredità debba essere ritenuta come donazione irrevocabile fatta tra vivi (cioè non per testamento), dopo la sua morte, al Comune di Siena con i pesi, le condizioni, i patti e le modalità dichiarate sopra. E ciò ha fatto per maggior sicurezza del predetto immutabile testamento e del suo contenuto.

Fatto presso la villa di Ampugnano del contado senese, nella casa posta sopra il podere di Francesco di Guiduccio Ruffaldi, nella sala della stessa casa, alla presenza di Guidone giudice del fu Federico da Montalcino cittadino senese, Giacomo del fu Giordano amico del signor conte Giacomo, Domenico del fu Guiduccio Ruffaldi e Guidone del signor Meo cittadino senese, e di me infrascritto notaro, che conosciamo di persona il detto testatore, testimoni invitati e chiamati dallo stesso testatore.

Alla loro presenza il detto testatore ha pregato me notaro Giacomo di ser Gualtiero di Castiglione (di VaI d’Orcia) di redigere il presente pubblico atto, secondo i suggerimenti di persone pratiche e specialmente del signor Guidone da Montalcino. Lo Giacomo figlio di ser Gualtiero notaro di Castiglione di VaI d’Orcia, ed ora per autorizzazione imperiale notaro e giudice ordinario del Comune di Siena, fui presente a tutte e singole le cose anzi dette, e pregato dallo stesso testatore le ho scritte e rese di pubblica ragione» .

Inutile dire che l’atto, concluso lontano dalle zone normalmente praticate dai parenti più prossimi del conte Giacomo, non fu rivelato da alcuno dei presenti: dal notaro, per dovere di ufficio; dai tre o quattro amici, per vincolo d’affetto. Capirono questi, insieme ai giudici convocati per consigli e suggerimenti, il vero senso dell’ultima volontà del conte, di non vedere cioè i beni, ereditati da suo padre, spezzettati, dissipati e ceduti a brano a brano, come carnaccia da cani, al primo offerente. Certo che non furono gli scrupoli o le apprensioni per il maltolto alla repubblica di Siena, che determinarono lo strano comportamento del conte Giacomo, come qualche cronista e storico senese ebbe a scrivere, ma solo il timore di veder disperse le sue sostanze da parte dei parenti, come ormai da tempo andavano scialacquando le proprie.

Del resto basta confrontare le quote parti, che unitamente a quelle del fratello Pietro e a poche altre porzioni polverizzate fra gli altri consorti, costituiscono l’asse patrimoniale del conte, per riconoscere come tutte quante fossero comprese nel territorio della vecchia contea Aldobrandesca, per la maggior parte distese lungo i due displuvi della Fiora, o fra quelle tenute in enfiteusi dal Monastero di Sant’Anastasio alle Acque Salvie di Roma.

Il comune di Siena, oltre che per l’aspirazione atavica di uno sbocco al mare, ora più che mai, per il maggior interesse acquisito dai territori comprati o conquistati a danno dei consorti Aldobrandeschi, avrebbe legato a sé i vasti possedimenti, anche se gli venivano a costar cari con l’impianto e la manutenzione dei quattro monasteri e dell’ospizio in onore di San Giacomo apostolo, pretesi dal testatore.

E certamente arrivò del tutto inattesa la donazione anche nella curia senese, come appare dalla lentezza posta nel disporre dei lasciti, suscitando i desideri e gli addebiti del vescovo di Sovana.


2. Il contratto stipulato tra il conte Pietro e il fratello Giacomo

Ho già accennato come l’anno seguente, 1 344, il conte Pietro, o per necessità familiari, o perché disposto a consentire alle richieste, forse pressanti, vendesse al fratello Giacomo la parte della sua eredità relativa alla metà della rocca di Selvena e del territorio gravitante attorno, con tutti gli annessi e connessi, a cancelli chiusi, si direbbe oggi, per indicare tutto quel che esiste di asportabile all’interno. Il contratto stipulato in tale occasione suscita ancor più interesse del testamento antecedentemente riprodotto, perché, oltre a delimitare con assoluta precisione i confini di tutto il distretto, chiarisce la vita sociale dei pochi abitanti, tutta dedita ai lavori agricoli nelle molteplici forme:

dalla coltura dei campi vera e propria alla custodia del numeroso bestiame grosso e minuto, cavalli, buoi, pecore, capre e porci. Certo che nemmeno il fratello Pietro era a conoscenza del lascito dettato l’anno avanti ad Ampugnano. Comunque l’acquisto successivo della spettanza residua sul castello di Selvena e la sua tenuta, non fu mai considerato o compreso nell’atto di donazione testamentaria, già effetuato in favore del comune di Siena. È quindi troppo rilevante l’importanza che assume l’atto di cessione fra i fratelli, perché non venga conosciuto integralmente.

«Nel nome del Signore. Amen.

Anno del Signore 1344, indizione XIII, 27 di ottobre.

Sia noto e ben chiaro a tutti coloro che leggeranno il presente documento come il magnifico Pietro di Bonifacio de Santa Fiora, per grazia di Dio, conte palatino, di buona memoria, per sua libera e spontanea volontà e non per errore, al prezzo di diecimila fiorini regolarmente pagati, senza speranza di riceverne altri, contento e soddisfatto di quanto ha già avuto e ricevuto, ha venduto, consegnato e trasferito all’illustre signor Giacomo da Santa Fiora, per grazia di Dio, conte palatino, suo fratello e figlio del detto fu conte Bonifacio, compratore qui presente ed accettante per sé, suoi eredi e successori, la metà indivisa della terra, della rocca, e dell’abitato di Selvena con tutta la sua corte e il suo territorio, di sua proprietà per successione legittima, con tutti gli abitanti, le giurisdizioni, con il mero e misto impero (cioè la facoltà di giudicare e punire), con ogni diritto di sudditanza e di omaggio, con le mura, le case, le carbonaie , i fossi, i fortini, le acque, le fontane, i ponti, il mulino, le terre, le vigne, i prati, le pasture, le ghiande, i passaggi, le imposte, le facoltà di comando e tutti gli altri diritti legati alla mezza parte, ad essa spettanti e di competenza del venditore.

Tutt’intorno alla rocca di Selvena, ed al suo borgo, sorgono mura e carbonaie appartenenti al castello e all’abitato. Il territorio e il distretto di questo castello confina con la corte ed il territorio di Santa Fiora, con il territorio e distretto di Caleggiano, con il territorio e distretto di Catabbio, con la corte e il distretto del castello di Monte Buono e con la curia, il territorio ed il distretto di Castell’Azzara».

Tutto vien ceduto in proprietà, in uso, in possesso, con diritto di dominio, di proprietà e di possesso, da ora in avanti per farne quel che piacerà al compratore, ai suoi eredi e successori. Per questo motivo, a tale titolo e con tale proposito, il conte Pietro cede e concede al conte Giacomo, che li riceve, tutti e singoli i diritti, le azioni, reali e personali, utili e dirette, tacite ed espresse, l’esercizio del mero e misto impero, tutti i diritti e le azioni competenti, anche in futuro, entro i confini della parte ceduta, facendone il compratore procuratore e successore di tutte le ragioni connesse. Se poi il prezzo della vendita fosse superiore al corrisposto, vuole che sia abbonato, o defalcato il maggiore importo, a titolo di donazione, in modo da non poter esser mai richiesto.

Promette inoltre che non darà mai dato fastidio né moverà causa all’acquirente o ai suoi eredi per ritornare in possesso della parte venduta, o per qualsiasi altro motivo, anzi ne prenderà sempre le difese, in qualunque occasione e davanti a qualsiasi persona o istituzione o popolazione, anche a proprie spese, impegnandosi a sottostare ad una pena doppia del prezzo pagato, qualora non mantenesse la parola o intentasse una causa in Siena, in Firenze, in Pisa, in Orvieto, in Viterbo o in qualunque altro luogo.

E per maggior garanzia delle promesse fatte, giura sul Vangelo, toccando materialmente le sacre scritture, di osservare e di non trasgredire tutte le obbligazioni accettate, di adempierle anzi singolarmente, senza promuovere alcuna lite, di diritto o di fatto, come presentato da me notaro infrascritto secondo i dettami della città di Siena, perché siano attentamente mantenute nei riguardi del compratore conte Giacomo, che può prendere possesso dell’acquisto, con la procura fatta al comandante della roccaforte di Selvena, che nuovamente dichiara di appartenere al compratore.

«Fatto in Santa Fiora, in casa e nella sala della casa del conte Stefano alla presenza del conte Enrico, dello stesso conte Stefano del fu conte Ildebrandino (Novello) da Santa Flora, del signor Niccolò Novello del fu signor Filippo Bonsignori, di Giovanni Mignanelli, di Nicola del Guercio di Siena, di Cione di Naldo da Civitella, del notaro Giovanni di ser Bertolino da Reggio, di Giacomo di Giordano, di Fazzino di Ser Gheri di Roccastrada e di ser Meo del fu Bertoldo di Selvena, testimoni presenti, chiamati a tale scopo.

E io Giacomo figlio del notaro Gualtiero di Castiglione di Valdorcia del contado di Siena, notaro e giudice ordinario regolarmente autorizzato, ho presenziato a tutte le cose suddette e dietro richiesta ho scritto e pubblicato» .

Definire con precisione il territorio distrettuale di Selvena, a tanta distanza tempo, è cosa ardua, per quanto i confini topografici sembrino abbastanza chiari.

Certamente la giurisdizione fondiaria si estendeva sui due displuvi della Flora, che la divideva quasi a metà.

A nord il territorio di Santa Fiora, probabilmente con una linea, che, staccandosi dalle rupi di Cellena, seguendo qualche fosso e attraversando il primo tratto della Fiora, veniva a cadere sui poggi poco oltre l’attuale abitato di Poggio Montone, verso Fontenassa.

A est doveva correre fungo il crinale che serve da spartiacque destro della Fiora, comprensivo quindi di Cellena e Cortevecchia, a confine con la comunità di Caleggiano (Roccalbegna), che si estendeva e saliva fino alla linea del displuvio sinistro dell’Albegna.

Solo, in piccola parte, a sud-est, toccava il territorio di Catabbio, per prendere ripidamente attraverso qualcuno dei torrentelli numerosi, che sboccano nella Fiora, in direzione di Querciolaia. Quest’ultima località, con le sue macchie ghiandifere, apparteneva sicuramente al distretto di Selvena, e serviva di confine con la comunità di Montebuono.

Da Querciolaia i termini dovevano passare sui poggi lungo la Faggeta di Monte Vitozzo e Poggio Felcioso, per raggiungere, al Fosso del Confino (Cornacchino), la Comunità di Castell’azzara.

Ma non dovevano certamente essere ben determinati i confini in quest’ultimo tratto, perché anche molti anni dopo si presentano come motivo di requenti controversie.

Se ne trova traccia fino ai primi del 1600, in una bellissima relazione firmata da messer Niccolò dell’Antella, uno degli ispettori dei Medici, riguardante la terra di Pitigliano e Sorano, datata 25 giugno 1608 :

«...et havendo fatto diligenza se vi erano altri confini controversi, quelli (i rappresentanti) di Monte Vitozzo si dolgono sia occupato loro una parte di certa Valle del Faggeto, che confina con quelli di Silvina et Castel Lazzara del duca Sforza, et domandano che si vegga di mantenere le loro ragioni».

Anche gli abitanti di Castell’Azzara si trovarono spesso in contrasto con quelli di Selvena a causa delle sconfinazioni di territorio.

Fra le due comunità i limiti, staccandosi dal Fosso del Confino (poco oltre il palazzo attuale del Cornacchino), salivano la cresta di Monte Crogno (cérnio, còrniolo), giungevano l’altezza di Poggio della Vecchia (quota m. 1047) per discendere alla svelta lungo i poggioli e la fiancata a nord-ovest del Monte Penna. Le aderenze fra le due comunità si ritrovano alle prime scaturigini del torrente Siele, poco oltre l’attuale podere delle Paicciole, per risalire con le alture di Fontenassa fino a Poggio Montone.

All’interno del territorio, così sommariamente definito, anche nel 1700 viene ricordata la «bandita del conte Giacomo», che a quanto risulterebbe dal seguente documento non sarebbe stata nel luogo detto oggi «Banditella» (sulla sinistra del fiume), ma doveva estendersi oltre la Fiora, cioè sul versante destro, fin quasi sotto Cellena, che molto probabilmente apparteneva alla giurisdizione di Selvena.

Il documento riflette l’«Affitto della contea di S. Fiora, l’anno del Signore 1720, indiz. XIII, a dì ultimo ottobre...», per cui il duca Gaetano Sforza Cesarini concede in fitto a Giov. Battista Simonelli di Roccalbegna la intera contea, che deteneva come feudo, comprendente «la contea di Santa Fiora, Castell’Azzara, Sforzesca e Silvena per anni tre a principiare li 29 novembre dell’anno venturo 1721.

...

15. Che tutti quelli che vorranno godere del Privilegio della Bandita del conte Giacomo, devino sementare due some nelle terre di Cellena....»

Soprattutto i pascoli erano facilmente contestati, e le bestie sconfinando, creavano dissensi, che prontamente sfociavano in lotte, coinvolgendo a volte, oltre le famiglie pastorali, le intere comunità.

Ma spesso ne erano responsabili anche le persone, portate per natura e per necessità al ladrocinio, specialmente di legna da ardere o di pezzame da lavoro, magari perpetrando i danni nel territorio altrui anche al lume di luna.




3. Il giuramento di fedeltà al conte Giacomo

Poco prima che scadesse un mese dall’acquisto fatto dal conte Giacomo, gli abitanti di Selvena e del contado distrettuale furono chiamati a prestar giuramento di fedeltà al nuovo definitivo padrone.

La cerimonia si svolse davanti alla chiesetta di san Nicola, fuori dalla rocca, sul piccolo pianoro antistante il portone d’ingresso. Solitamente le riunioni di tal genere si tenevano nella chiesa del castello, ma tutte le persone non potevano trovare spazio nella piccola chiesa che misurava appena trentasei metri quadri

Erano convenuti per l’occasione dei testimoni, tutti estranei all’ambito di Selvena: due preti di Arcidosso, altri due uomini senza alcun titolo, qualificati solo con il nome ed il patronimico, Guccio Fucci e Ceccarello Berti, insieme ad altre due persone dell’isola del Giglio, che forse casualmente si trovavano sul luogo, Galgano di Giovanni e Ghino di Nasello, amministratori o guardiani per il conte in quella parte di sua spettanza.

Il numero dei convocati per l’atto di vassallaggio risulta di centotré individui, e verosimilmente abbraccia tutti gli uomini da una certa età in su, in quanto non si può pensare che il numero fosse costituito da soli capi famiglia. Ammettendo in tal caso una media di cinque persone per nucleo, si otterrebbe un totale di circa cinquecento anime, veramente esagerato per un piccolo centro, anche considerando gli individui certamente intervenuti dalla campagna. Tutti uomini, almeno per quanto è dato conoscere dai nomi; due sole donne identificabili con certezza, Gioia Vite e Vana o Vanna Foschi.

Fra i cognomi, o meglio i patronimici, quello di «Vannis» conta otto individui, ma uno di essi «Foscho Vannis» risulta ripetuto, se non si volesse ammettere un caso di omonimia.

Poi seguono i «Guiducci», i «Guidarelli», i «Matheuoli», ciascuno con tre presenze.

Fra i nomi stessi, molti, i più risultano abbreviazioni: Mone per Simone, Meus per Bartholomeus, Menichus per Domenicus, Cintus per Jacintus, Tòfanus per Christofanus. Alcuni indubbiamente soprannomi o nomignoli, secondo la comune usanza, Boccanéra, Boccalèrcia, Caracosa, Bacone.

Qualcuno risulta solo naturalizzato, ed ostenta il paese di origine, nel dichiarare le proprie generalità.

Così, Angelus de Sancto Johanne (probabilmente di San Giovanni delle Contee), Fuccius de Latera, Petriccioius Roselle, e uno che si esibisce con il solo nome della sua terra, Garfagninus, della Garfagnana.

Solamente pochi indicano la professione, quando si distacca completamente da quella ordinaria di gente dedita alla campagna, esercitata dalla quasi totalità.

Due «magistri», che qui va inteso nel senso di «maestri» nell’arte muraria (mastro Cecco di Gioanni e mastro Fiorino di Vinci, probabilmente originario della Vai d’Arno), un prete sicuramente titolare della chiesa di San Nicola, un frate dal nome strano «Corpus Scudellari», forse un questuante, ed infine il vecchio notaro, ser Fazzino di ser Gheri da Roccastrada, per tanti anni al servizio del conte, ed ora invecchiato, inabile a tener dietro al padrone nei lunghi viaggi, aspettava di chiudere gli occhi nella ventosa rocca di Selvena.

Lo troviamo, anche qui accompagnato, come nell’atto di vendita di Selvena, da quel Giacomo di Giordano, che doveva ricoprire la carica di vicario del conte o di comandante della rocca. Risulta infatti presente al testamento dettato in Ampugnano e nell’atto di vendita riportato viene qualificato «amico barone del conte Giacomo».

Grazie alla diligenza del notaro ser Gualtiero da Castiglione di Valdorcia ed alla cura di conservazione degli archivi senesi possiamo oggi leggere il verbale dell’adunanza del 18 novembre del 1344.




«Nel nome del Signore . Così sia.

Anno del Signore 1344, indizione XIII, 18 di novembre.

Sia ben chiaro a tutti come il magnifico uomo Giacomo da Santa Fiora, per grazia di Dio conte palatino, figlio del conte Bonifacio di Santa Fiora, di buona memoria, per la stessa grazia conte palatino, abbia acquistato e ricevuto per un determinato prezzo dal magnifico uomo conte Pietro, suo fratello carnale e figlio del predetto fu conte Bonifacio da Santa Fiora, la metà indivisa del castello e rocca di Selvena, della sua corte e distretto, la sua giurisdizione con gli abitanti, le spettanze e tutti gli altri diritti contenuti nell’atto di vendita stipulato da me notaro Giacomo sottoscritto.

Siccome l’altra metà del predetto castello o rocca con tutti quanti i diritti e le giurisdizioni spettava, come spetta, allo stesso conte Giacomo per suo giuramento, così ora i sottoscritti uomini e persone del castello di Selvena, riconoscendo nel predetto conte il vero Signore di tutto il castello, della corte e distretto, e di tutti gli abitanti in esso, presentatisi a me notaro, come persone pubbliche, giurano sui santi vangeli di Dio, toccando con le mani le sacre scritture, davanti a me notaro che li riceve in nome del conte Giacomo, la loro fedeltà, e che saranno, da qui in avanti fino al supremo anelito, fedeli al loro signore conte Giacomo contro ogni persona, e giurarono pure di non partecipare mai, con coscienza, a consigli, aiuti o fatti per cui il conte Giacomo avesse a perdere la vita, sia pure in guerra, o che dovesse ricevere sulla persona qualsiasi danno, ingiuria o offesa, o che dovesse perdere l’onore presente e futuro. Che se sapessero o venissero a conoscenza che qualcuno tramasse contro lo stesso conte, faranno qualunque sforzo perché il fatto non si verifichi e se non potessero operare in modo che ciò non avvenisse, quanto prima farebbero in modo che egli lo sapesse, secondo le loro possibilità. E giurarono tutto quel che si riferisce ad una vera fedeltà.

Gli uomini e le persone di Selvena che prestarono giuramento, sono riportati qui sotto, cioè:




Fosco di Vanne; Nuccio di Caracosa; Cinto di Mino; Francesco di Vannuccio; Leto dì Lieto; Vannuzzo di Caracosa; Guiduccio del Ciolo; Silvestro di Giuffredo; Pietro di Viola; Meo di
Manente; Pietro di Gallina; Matteo di Guidarello; Ugolino di Lotto; Mone di Giacovello; Meo di Boccanera; Menicuccio di Vanne; Giovanni di Dato; Giacobbe di Leonio; Vannuccio di Giacomuccio; Gioia di Vita; Guasco della Casella; Noccio di Matteolo; Viterbo di Ventura; Menico di Tuccio; Petricciolo di Roselle; Tedesco di Buttafango; Leucio dell’Agriola; Peccia di Francesco; Leucio di Balduccio; Tuccio di Fuccio; Menicuccio di Tondo; Angelo da San Giovanni; Guido di Vanne; Tranquillo di Venuto; Muccio di Caracosa; Sisto di Sisto; Fusco di Paoluccio; Turella di Viterbuccio; Boccanera di Rustichello; Mecuccio di Binduccio; Mancino di Vanne; Fazzino di Ser Gheri; Giacomo di Giordano; Pietro di Gennaro; Luca di Fedino; Capriolo di Lippo; Pietro Nuccio; Pietruccio di Vanne; Vannuccio di Fosco; Goro di Marrachello; Fosco di Vanne; Gheri di Rosa; Vannardo di Guiduccio; Emo di Guiduccio; Franco di Luparello; Bartolomeo della Nonna; Secondino di Vannuccio; Maccione di Naldo; Rosso di Maniccio; Giovanni del Servito; Angeluzzo di Cola; Mastro Cecco di Giovanni; Cecco della Bucciana; Pepo di Pepo; Petricciolo di Paoluccio; Nannuccino di Guccio; Menicuccio di Luccio; Tuccio del Tedesco; Tuccio della Caprella; Ranuccio di Leto; Pietro di Nuccio; Segna di Vitaluccio; Garfagnino; Tuccio di Giacovello; Malandrino di Vanne; Noccio di Matteolo; Tuccio della Necca; Fuccio di Latera; Ligo di Neso; Mastro Fiori no da Vinci; Boccalercia di Albonetto; Pietro di Vanne; Nardone di Rolando; Magagnino di Vanne; Memolo di Neri; Muccio di Naldo; Buffone di Rolando; Santoro prete Connersano; Ventura di Lotto; Vannuccino di Guidarello; Meo della Mina; Modesto di Cecco; Tuccio di Bacone; Jacovuccio di Nuccio; Nanna di Fosco; Tòfano di Guidarello; Frate Corpo di Scudellaro; Paolo di Cecco; Francesco di Giuffredo; Arrighetto di Accettante; Nano di Matteolo; Turello di Viterbuccio.

Fatto in Selvena davanti alla chiesa di San Nicola di Selvena, alla presenza di prete Spina di Giacomo, prete Antonio di Arcidosso, Guccio di Fuccio, Ceccarello di Berto, Galgano di Giovanni e Ghino di Nasello del Giglio, testimoni incaricati e richiesti per assistere a queste cose.

Io Giacomo figlio di Ser Gualtiero notaro di Castiglione di Vai d’Orcia del contado senese, per disposizione imperiale notaro e giudice ordinario, sono stato presente a tutto, e a richiesta ho scritto e pubblicato»

È necessario spendere qualche parola sulla organizzazione, sull’ordinamento del castello, e sui rapporti intercorrenti fra il signore del luogo e gli abitanti del distretto.

I termini, che spesso ricorrono nei documenti, «castello e rocca, corte e distretto», se non equivalenti, denotano il più delle volte località collegate l’una all’altra: un castello o una rocca come residenza signorile, attorniata da un territorio (curia o distretto), di più o meno vasta estensione, abitata qua e là da famiglie, che sottostanno alla giurisdizione padronale, giudiziariamente ed amministrativamente, come si compendia nella frase «con il mero e misto imperio».

Il castello è il centro propulsore del distretto, comprensivo non solo della fortificazione vera e propria e dell’alto cassero, ma anche del nucleo di abitazioni che gli si stringono attorno. A Selvena tutto l’abitato si condensa in poche casupole ai piedi della rocca, verso sud.

Lo attestano i cumuli di macerie, i rottami, i frantumi che si possono osservare anche oggi coperti dai rovi e dalle vitalbe, sebbene assai ridotti per via delle costruzioni rurali nate alla lunga nei dintorni. Molto pietrame poi, sia proveniente dalle mura crollate della rocca, sia asportato dalle abitazioni dirute, fu ricuperato e rifuso nelle muraglie del vicino cantiere minerario, verso la fine del secolo scorso e l’inizio del presente.

La rocca non si presentava come luogo di libero accesso o di sosta per tutti era riservata esclusivamente al Signore, al suo vicario o rappresentante, ai familiari addetti alle varie botteghe di fabbreria, carpenteria, calzoleria.

I coloni, i dipendenti solo in caso di seria minaccia o di assalto, potevano trovar riparo entro la struttura muraria difensiva.

Anche la chiesa, in Selvena, è esclusa dal riparo fortificato. L’ubicazione esterna, non rara del resto, denota la sua tarda erezione rispetto al castello, e la funzione strettamente pievanale, cioè di chiesa al servizio di tutti gli abitanti del distretto. E certamente gravava su di essa il diritto di patronato laico da parte del conte, come testimonia la pesante tassa decimale negli anni 1276-1277, inferiore solo a quella canonica di Sovana. Se ne può arguire una dotazione ed un reddito non indifferente.

Gli uomini, in quanto abitanti attorno al castello e per l’eventuale rifugio che, all’occorrenza, potevano trovare in esso, erano tenuti a risarcire i danni alle mura, a costruirne eventualmente di nuove, a tener puliti i fossi di circonvallazione, che nel caso nostro esistevano solo, e per breve tratto, sul lato di levante e di traversone, a controllare le acque, specialmente le fontane, a riguardare i ponti, ad assicurare il funzionamento del mulino, a tutti insomma quei servizi e prestazioni di utilità pubblica, che esigevano la manutenzione per l’efficienza del castello e delle sue dipendenze.

Le prestazioni di opera fanno parte del dovere riconosciuto dagli abitanti e del diritto spettante al padrone. La necessità che il castello fosse provvisto di tutto si riconosceva nei frequenti assedi cui andava soggetto. Il forno con le sue riserve di farina e di grano, le capienti cisterne di acqua, le ceste di fave e di ceci secchi, le sacca di sale, i mulinetti a mano, costituivano le riserve o gli arnesi, che ogni tanto andavano rinnovati o riveduti negli ampi stanzoni del castello, nei sotterranei semibui o nei complicati labirinti interni.

La resistenza spesso dipendeva dall’autosufficienza, e l’autosufficienza si preparava con il concorso di tutte le persone valide. Esistevano insomma, fra vassalli e padroni, rapporti di dipendenza, che convalidavano altri aspetti feudali, di origine antichissima, scaturiti certamente dall’uso, dall’abuso e dal sopruso, quelli cioè della schiavitù accettata e della padronanza assoluta. Le prestazioni rurali rappresentavano solo una faccia della dipendenza, ché dalla terra doveva uscire la vita per tutti, per la famiglia del sottoposto e per la compagine che agiva attorno al padrone.

Gli oneri erano costituiti dai corrispettivi per gli affitti, per i capitoli in gestione, rappresentati dal bestiame, dai prati, dai pascoli, dalle bandite o chiuse, recinti naturali o artificiali per il bestiame grosso, dai querceti per l’aggina dei porci.

E per ogni cosa occorreva mano d’opera, sostenuta anche dai ragazzi appena giunti all’uso di ragione e, per determinati lavori, anche dalle donne, che non avevano mai pace. Della miniera di mercurio o argentiera di Selvena, non viene fatta parola in nessuno dei tre documenti riportati. Segno evidente che, dopo l’importanza di qualche secolo prima, ora si era spento quasi del tutto l’interesse lucrativo, o quanto meno ridotto notevolmente. Né d’altra parte destava le ambizioni o la cupidigia della repubblica senese, perché nella relazione sulle condizioni dello stato presentata dal priore del Governo dei Nove, Simone di Giacomo Tondi, qualche anno prima (an. 1334), non viene ricordata affatto .

Un’altra forma di obbligazione era costituita dall’omaggio (homagium), un insieme di vincoli, impegni, corrisposti di solito in natura o in servizi lavorativi, data la miseria pecuniaria serpigna che gravava di continuo sulla popolazione.

Poi le regalie, i tributi di bassa corte, polli, piccioni, uova, regolati da una consuetudine secolare, da una tradizione antichissima, nata dall’aspirazione, dall’istinto della sopravvivenza, che spinge a qualsiasi contratto, pur di respirare ed aver salva la vita. Perché il vassallo non era padrone nemmeno di quel metro quadrato che l’aspettava al cimitero.

Chi nasceva contadino, rimaneva fatalmente contadino.

Qualche giovane particolarmente intelligente poteva aspirare, con l’aiuto del signore, alla carriera ecclesiastica: la sola aperta ad ogni classe sociale, e che permetteva di raggiungere livelli altssimi.

Ma l’aspetto più esoso della sudditanza rimaneva rappresentato dal «diritto del mero e misto impero».

Una frase ambigua per indicare il signore come il giudice di vita o di morte, il giustiziere senza appello sulle persone che rientravano nell’ambito giurisdizionale del castello.

Un totale asservimento degli individui, che venivano permutati, compresi negli atti di acquisto o di vendita come strumenti o parte integrante dell’immobile su cui risiedevano.

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