1. Il documento
più prezioso della
storia di Selvena
Il conte Giacomo, uno dei pochi
meritevoli del titolo nella contea di Santa Fiora, fu l’ultimo vero
signore di Selvena. Ne aveva fatto la sua dimora abituale,
specialmente dopo esserne diventato unico proprietario, il luogo di
sosta, di riposo, di ripresa dopo le scorribande, le lunghe scorrerie
a piedi e a cavallo per infestar nemici o per star dietro ai privati
interessi.
Era un rifugio sicuro per il bestiame
predato, un riparo per i fuorusciti, per gli amici, che, in qualche
modo, fossero compromessi con la giustizia.
Selvena con il suo distretto, di qua e
di là dalla Fiora, era un piccolo stato, una proprietà tutta
riunita, senza frazionamenti illogici né privative. Entrate
sostenute dai dazi sulle merci in transito, ché di là passava la
strada più breve dalla marina alla montagna, dai pedaggi delle
bestie statinare, dalle fide sui terreni pascolativi e forse da una
certa affezione dei pochi abitanti, che consideravano una fortuna la
dipendenza da un solo padrone, a differenza di tanti altri
confinanti.
Il testamento, dettato «presso la
villa di Ampugnano nel contado senese, nella casa situata sopra il
podere di Francesco di Guiduccio Ruffaldi» nel 1343, legato
indissolubilmente agli altri due, che proporremo successivamente, è
il documento più prezioso nella storia di Selvena.
Vale quindi la pena di tradurlo per
intero, non solo perché finora inedito, ma anche perché costituisce
l’ultima decisa volontà dì un uomo agitato non tanto dalla
speranza del perdono delle malefatte commesse ai danni di Siena, o
dalla paura insidiosa della vita futura, quanto dal timore, anzi
dalla persuasione che i beni salvati con tanta accortezza ed ampliati
con vero accanimento, andassero a finire nelle mani di parenti
scioperati, capaci di ridere dell’insperata fortuna, mantenuta ed
ammassata con avarizia e spilorceria.
Questi sono i sentimenti più naturali
e genuini, che potrebbero agitare un uomo di una certa età, senza
una cultura anche elementare, attaccato ancora alla terra ed alla
vita, che però vede fuggire giorno per giorno.
«In nome di nostro Signore Gesù
Cristo e dell’indivisibile Trinità. Amen.
Anno 1343, indizione XII, 14 di
novembre, secondo il computo tradizionale della città di Siena.
Poiché sta scritto che la condizione
dell’umana natura è quella di pagare il debito della morte, uguale
per tutte le persone, e che uno apparirà tanto più coraggioso
quanto più sollecitamente disporrà il pagamento ditale cambiale,
l’illustre e magnifico signor Giacomo di Santa Fiora, per grazia di
Dio conte palatino, volendo disporre, secondo i dettami della Chiesa,
previdentemente per la salvezza della propria anima, e diligentemente
ed oculatamente per la sorte della propria casa, sano di mente, dì
corpo e di intelletto, ha voluto dettare e far redigere il presente
testamento nuncupativo “sine scriptis”. Prima di tutto si
professa assertore fedele e geloso della vera fede cattolica, secondo
le disposizioni della Santa Romana Chiesa, soprattutto per ciò che
riguarda la cura dell’anima, e fin d’ora e nell’ultimo istante
della vita, sotto l’egida della vera fede, vuole ripetere
devotamente: Signore, nelle tue mani raccomando l’anima mia. Quando
sopraggiungerà la morte, in segno di riverenza verso il Creatore,
dispone e vuole che il suo cadavere, con le dovute cerimonie
religiose, venga trasferito e seppellito nella chiesa di San Nicola
di Selvena.
Ordina e impone ai suoi eredi e
fidecommissari di restituire e pagare, agli aventi diritto, qualsiasi
interesse legittimamente dovuto, sia pure una sola persona, quanto un
convento o istituto o corporazione, specialmente se gli fosse
pervenuto a qualsiasi titolo per causa illecita od ingiusta. E ben
considerando la diuturna fiducia, l’indiscusso rispetto per le
leggi e tutte quante le buone garanzie del Comune di Siena, a cui ha
sempre aderito almeno mentalmente con la massima sicurezza, e in cui
ora ripone la speranza della sua salvezza con l’esecuzione di
queste ultime volontà, istituisce suo erede universale in tutti i
suoi beni, mobili, immobili, bestiame grosso e minuto, diritti ed
azioni, oneri, condizioni e sostituzioni, il medesimo Comune di
Siena.
E così, perché siano conosciuti i
diritti di sua spettanza sulle terre e sui fortilizi, e perché non
si verifichino, contro la volontà dello stesso testatore,
soperchierie e soprusi a danno di altri, dichiara essere di sua
pertinenza le seguenti terre e fortilizi descritti nelle loro parti.
Cioè:
— La terra e rocca di Selvena con
tutti i diritti spettanti a metà, in comune, con il conte Pietro suo
fratello;
— Il castello e fortezza di Scerpenna
con le proprie spettanze a metà, pro indiviso, con il detto conte
Pietro suo fratello;
— La quarta parte e mezza di un
quarto dell’abitato e della terra di Capalbio con metà del suo
distretto, in comune, con il già detto conte Pietro suo fratello;
— La metà dell’abitato e terra di
Magliano, come appare divisa con gli altri conti, con la quarta parte
del territorio compreso nella giurisdizione già determinata per
confine, con tutte le competenze a metà, in comune, con il fratello
Pietro;
— La metà, pro indiviso, di tutto
l’abitato e il cassero del Giglio con la sua terra attorno, con il
fratello Pietro;
— L’undicesima delle venti parti
dell’abitato e del cassero del Collecchio con la regione attorno, e
le sue spettanze, indivise, con il conte Stefano e ciò a metà, in
comune, con il fratello Pietro;
— La terza parte, come appare già
divisa fra i consorti di famiglia, dell’abitato e della fortezza di
Scansano, e questa terza parte con le proprie attinenze, in comune,
per metà con il conte Pietro suo fratello;
— Così anche la terza parte, pro
indiviso, del territorio e del cassero di Samprugnano con tutte le
sue pertinenze ed i suoi diritti, da dividersi a metà con il conte
Pietro suo fratello;
— La metà di tutto l’abitato e la
fortezza di Monte Buono, con i diritti di spettanza da dividersi a
metà con il fratello conte Pietro;
— La terza parte del censo e del
diritto di censo che gli appartiene e deve riscuotere dal comune di
Monticello, di quaranta fiorini di denari in tutto, da dividere a
metà con il suddetto conte Pietro suo fratello;
— Inoltre la fedeltà e la baronia
della terra di Stribugliano con tutto quanto il territorio, distretto
e le servitù feudali dovute da coloro che hanno il possesso della
terra, a metà, pro indiviso, con il conte Pietro suo fratello.
Così ordina, impone e raccomanda che
il Comune di Siena, suo erede, debba spendere ed erogare, a salvezza
della sua anima, la somma di quarantadue mila fiorini d’oro nel
modo che segue, cioè: nei dieci anni successivi, dopo la sua morte,
vale a dire almeno quattromiladuecento fiorini d’oro ogni anno
devono essere spesi nella maniera seguente:
— costruire di sana pianta quattro
monasteri, dove possano abitare alla foggia monacale almeno quindici
religiose per ciascuno, a preferenza vergini, povere e di buona
famiglia.
E nei detti monasteri devono esser
celebrati i divini offizi in perpetuo, a salute e rimedio dell’anima
del testatore. Ciascuno dei monasteri sia dotato dal suddetto erede
(il Comune di Siena) della somma di quattromila fiorini, per la
costruzione e per tutte le altre cose idonee al mantenimento, al
vitto ed al necessario per le religiose e per i conviventi,
nell’acquisto dei beni mobili, utili e profittevoli, secondo le
disposizioni degli infrascritti fidecommissari del testatore; e
questi beni non possano in alcun modo essere venduti o alienati o
impegnati, ma debbono rimanere per sempre, con i loro interessi, in
sostentamento delle persone già dette. Il primo di tali monasteri
sia messo sotto la protezione ed il titolo della beata Vergine Maria
e di Sant’Anna sua madre, con la stessa regola e l’osservanza del
convento senese di San Francesco.
Il secondo invece sotto la regola,
l’osservanza ed il titolo del convento di S. Francesco di Siena.
Il terzo sotto il titolo e la regola
del convento di S. Domenico di Siena.
Il quarto infine sotto l’osservanza
ed il titolo del convento di Sant’Agostino di Siena.
Il posto (di erezione) verrà stabilito
dal Comune di Siena o da probiviri eletti dal Comune con il consenso
e la volontà degli infrascritti fidecommissari.
I monasteri dovranno rimanere per
sempre sotto la difesa e sotto la protezione del Comune, ed il Comune
venga riconosciuto assolutamente nei detti monasteri ed in ciascuno
di essi con il privilegio di giuspatronato.
— Con gli stessi criteri deve essere
costruito un ospedale, ossia un ospizio capace di accogliere e
confortare i poveri, specialmente pellegrini, per cui deve esser
devoluta (la stessa cifra) tra costruzione, mantenimento,
attrezzatura (fulcimentis) per almeno trenta letti ben apprestati e
sufficientemente provvisti di biancheria. Anche qui devono esser
celebrate le funzioni religiose.
Per tutto ciò si devono investire e
spendere quattromila fiorini d’oro, secondo le disposizioni dei
probiviri eletti dal Comune di Siena, con il consenso dei
fidecommissari, nel luogo che sembrerà più opportuno ai ridetti
probiviri.
E l’ospizio sia costruito sotto la
denominazione di San Giacomo apostolo ed in suo onore. E come
spetterà al Comune di Siena l’elezione del governatore e
dell’amministratore (dell’ospizio) così dovrà rimanere sotto la
sua protezione, anche quando dovrà incaricare uno o più sacerdoti
per la celebrazione degli uffici divini a rimedio dell’anima sua.
Il restante della somma dei fiorini,
sopra distribuiti, ordina che siano erogati e spesi secondo la
maniera particolare e distinta, che gli capiterà di disporre,
lasciare ed assegnare, da ora in poi, anche a mezzo di codicilli.
Tutto quanto viene disposto e legato
nel presente testamento vuole che sia rispettato ed eseguito, come se
fosse minutamente descritto. Tutta la presente istituzione, affidata
al Comune di Siena, viene fatta se ed in quanto il Comune di Siena
intenderà inderogabilmente accettare entro due mesi dal giorno della
notifica e della presa visione del presente testamento, dopo la morte
del testatore. E se dovesse darsi il caso di non accettazione,
sostituisce ed istituisce, alle stesse condizioni, l’Ospedale di
Santa Maria davanti ai gradini della Chiesa maggiore di Siena , e la
Casa di Santa Maria della Misericordia dei poveri della città, in
parti uguali, a questa condizione: se il Capitolo, l’Assemblea e i
Lettori dei luoghi predetti accetteranno volentieri l’eredità del
testatore, entro altri due mesi dalla notifica loro fatta e dopo il
rifiuto effettuato dal Comune di Siena, e qualora una sola delle due
istituzioni desideri accogliere l’eredità rifiutandola l’altra,
le rimanga assegnata interamente con gli oneri prescritti. Che se
poi, dopo il ripudio effettuato dal Comune, anche una o tutte e due
le istituzioni non volessero accettare o mandare ad effetto la
presente ultima volontà disposta dal testatore, allora in ambedue i
casi, istituisce erede universale la Chiesa Romana con gli impegni
già descritti ed altri da indicare dallo stesso testatore, se sarà
necessario, impegnando fin da ora la lealtà e la volontà dei romani
pontefici e degli amministratori della Chiesa. E se accadesse che
nessuno degli eredi indicati accettasse l’eredità, e i suoi beni
dovessero pervenire a persone fuori (non indicate) del testamento,
vuole che siano sciolti i legati predetti e dispone di essi come se
non fossero rilasciati per testamento, al di fuori della costituzione
in eredità, in maniera che vengano devoluti agli stessi.
E perché la volontà del testatore
abbia piena esecuzione in ogni caso, e perché i fidecommissari
possano adempiere il loro incarico più facilmente e più
speditamente, vuole che il Comune di Siena presti il suo aiuto,
interponga il suo patrocinio e la sua opera. A questo proposito
dispone, per gratitudine, che venga destinato al Comune di Siena
stesso, a titolo di censo e come censo, onore ed omaggio delle sue
terre, ogni anno, in perpetuo, un cero di cera tagliato del valore di
cento libbre di denari senesi, che dovranno offrire tanto gli eredi
stabiliti quanto i sostituiti e gli eredi successivi fuori del
testamento. I fidecommissari offrano e facciano offrire il cero con
l’insegna ben visibile del testatore, come ricordo del conte
Giacomo, e per la salute dell’anima sua, all’opera di S. Maria,
il giorno della festa della Madonna (15 agosto), quando viene fatta
l’offerta dai Signori Nove.
E dopo tutto, nel caso che l’eredità
venga assegnata a persone fuori del testamento, vuole che le spese ed
i legati si paghino con le entrate ed i redditi dei suoi beni e delle
sue terre, che lascia destinati a tale scopo. Beninteso sempre a
condizione che le terre, le fortezze, le giurisdizioni ed i luoghi
abitati a lui spettanti non possano essere venduti né alienati né
trasferiti ad altre persone, né impegnati sia dagli eredi
testamentari sia dagli eventuali fuori testamento, ma costituiscono
sempre l’eredità integrale, stabilendo per tutti l’osservanza e
l’adempimento, pena la perdita della parte venduta e di tutta
l’eredità.
E per condurre e mandare a compimento e
a buon fine tutto quanto, nomina suoi fidecommissari esecutori e
procuratori testamentari, l’Ufficio dei Signori Nove attuali o
quelli che saranno in carica, il rettore dell’Ospedale di Santa
Maria (della Scala), il rettore della Casa della Misericordia (dei
poveri), il priore del Convento senese di Sant’Agostino, il priore
del Convento senese di San Domenico in Camporeggi, il priore dei
frati della Certosa, il guardiano del Convento senese di San
Francesco come consultore, il signor Niccolò Novello del fu Filippo
de Bonsignori di Siena, il signor Francesco del fu Guiduccio Ruffaldi
e Guidone del fu Meo cittadini senesi, tutti con uguale autorità. E
concede loro la facoltà di eleggere, in sostituzione, altri
fidecommissari o procuratori, confermando fin da ora a loro stessi ed
ai loro sostituti l’autorità, il permesso e la potestà
nell’amministrazione più libera ed ampia. Il loro mandato deve
durare un anno e venire rinnovato anno per anno fino a che le
disposizioni testamentarie abbiano ottenuto l’effetto prescritto, e
possano rinunciare all’incarico tutte le volte che vorranno, e
quello che verrà stabilito da due o dalla maggior parte di loro,
cioè dalla maggioranza, valga e sia ritenuto valido da tutti. In
caso di non accettazione o di assenza, valga la decisione presa dagli
altri.
Questa è l’ultima sua volontà e
disposizione, che intende far valere e ritenere a piena ragione, per
diritto di testamento e di ultima volontà. E se non valesse per
diritto di testamento, valga per diritto di codicillo, o per
qualsiasi altro diritto come meglio e più efficacemente possa
valere, in modo che non si possa più cambiare.
Rendendo vano e privando di qualsiasi
effetto qualunque altro testamento o ultima volontà, che avesse
fatto in passato fino ad oggi. E se ne venisse fuori qualcuna che
fosse anche avvalorata da qualche condizione, vuole che sia ritenuta
come non fatta e vana. E perché il testamento presente sia più
sicuro e resti immutabile, vuole che qualunque altro scritto o
espressione di ultima volontà che apparissero fatti in passato o in
avvenire, sia ritenuto invalido ed inutile, e non abbia alcuna
autorità se non porterà bene evidenti e chiaramente segnate queste
parole: Benum, caides, anavit, avacellus. E se apparisse in
avvenire qualsiasi scritto che non recasse ben scritte in evidenza
tali parole, afferma fin da ora che sarebbe da ritenersi fittizio e
falso. E così anche se succedesse di trovare d’ora in avanti un
suo testamento o ultima volontà che non contenesse espresse le
stesse parole: Benum, caides, anavit, avacellus, afferma che la detta
eredità debba essere ritenuta come donazione irrevocabile fatta tra
vivi (cioè non per testamento), dopo la sua morte, al Comune di
Siena con i pesi, le condizioni, i patti e le modalità dichiarate
sopra. E ciò ha fatto per maggior sicurezza del predetto immutabile
testamento e del suo contenuto.
Fatto presso la villa di Ampugnano del
contado senese, nella casa posta sopra il podere di Francesco di
Guiduccio Ruffaldi, nella sala della stessa casa, alla presenza di
Guidone giudice del fu Federico da Montalcino cittadino senese,
Giacomo del fu Giordano amico del signor conte Giacomo, Domenico del
fu Guiduccio Ruffaldi e Guidone del signor Meo cittadino senese, e di
me infrascritto notaro, che conosciamo di persona il detto testatore,
testimoni invitati e chiamati dallo stesso testatore.
Alla loro presenza il detto testatore
ha pregato me notaro Giacomo di ser Gualtiero di Castiglione (di VaI
d’Orcia) di redigere il presente pubblico atto, secondo i
suggerimenti di persone pratiche e specialmente del signor Guidone da
Montalcino. Lo Giacomo figlio di ser Gualtiero notaro di Castiglione
di VaI d’Orcia, ed ora per autorizzazione imperiale notaro e
giudice ordinario del Comune di Siena, fui presente a tutte e singole
le cose anzi dette, e pregato dallo stesso testatore le ho scritte e
rese di pubblica ragione» .
Inutile dire che l’atto, concluso
lontano dalle zone normalmente praticate dai parenti più prossimi
del conte Giacomo, non fu rivelato da alcuno dei presenti: dal
notaro, per dovere di ufficio; dai tre o quattro amici, per vincolo
d’affetto. Capirono questi, insieme ai giudici convocati per
consigli e suggerimenti, il vero senso dell’ultima volontà del
conte, di non vedere cioè i beni, ereditati da suo padre,
spezzettati, dissipati e ceduti a brano a brano, come carnaccia da
cani, al primo offerente. Certo che non furono gli scrupoli o le
apprensioni per il maltolto alla repubblica di Siena, che
determinarono lo strano comportamento del conte Giacomo, come qualche
cronista e storico senese ebbe a scrivere, ma solo il timore di veder
disperse le sue sostanze da parte dei parenti, come ormai da tempo
andavano scialacquando le proprie.
Del resto basta confrontare le quote
parti, che unitamente a quelle del fratello Pietro e a poche altre
porzioni polverizzate fra gli altri consorti, costituiscono l’asse
patrimoniale del conte, per riconoscere come tutte quante fossero
comprese nel territorio della vecchia contea Aldobrandesca, per la
maggior parte distese lungo i due displuvi della Fiora, o fra quelle
tenute in enfiteusi dal Monastero di Sant’Anastasio alle Acque
Salvie di Roma.
Il comune di Siena, oltre che per
l’aspirazione atavica di uno sbocco al mare, ora più che mai, per
il maggior interesse acquisito dai territori comprati o conquistati a
danno dei consorti Aldobrandeschi, avrebbe legato a sé i vasti
possedimenti, anche se gli venivano a costar cari con l’impianto e
la manutenzione dei quattro monasteri e dell’ospizio in onore di
San Giacomo apostolo, pretesi dal testatore.
E certamente arrivò del tutto inattesa
la donazione anche nella curia senese, come appare dalla lentezza
posta nel disporre dei lasciti, suscitando i desideri e gli addebiti
del vescovo di Sovana.
2. Il contratto stipulato tra il
conte Pietro e il fratello Giacomo
Ho già accennato come l’anno
seguente, 1 344, il conte Pietro, o per necessità familiari, o
perché disposto a consentire alle richieste, forse pressanti,
vendesse al fratello Giacomo la parte della sua eredità relativa
alla metà della rocca di Selvena e del territorio gravitante
attorno, con tutti gli annessi e connessi, a cancelli chiusi, si
direbbe oggi, per indicare tutto quel che esiste di asportabile
all’interno. Il contratto stipulato in tale occasione suscita ancor
più interesse del testamento antecedentemente riprodotto, perché,
oltre a delimitare con assoluta precisione i confini di tutto il
distretto, chiarisce la vita sociale dei pochi abitanti, tutta dedita
ai lavori agricoli nelle molteplici forme:
dalla coltura dei campi vera e propria
alla custodia del numeroso bestiame grosso e minuto, cavalli, buoi,
pecore, capre e porci. Certo che nemmeno il fratello Pietro era a
conoscenza del lascito dettato l’anno avanti ad Ampugnano. Comunque
l’acquisto successivo della spettanza residua sul castello di
Selvena e la sua tenuta, non fu mai considerato o compreso nell’atto
di donazione testamentaria, già effetuato in favore del comune di
Siena. È quindi troppo rilevante l’importanza che assume l’atto
di cessione fra i fratelli, perché non venga conosciuto
integralmente.
«Nel nome del Signore. Amen.
Anno del Signore 1344, indizione XIII,
27 di ottobre.
Sia noto e ben chiaro a tutti coloro
che leggeranno il presente documento come il magnifico Pietro di
Bonifacio de Santa Fiora, per grazia di Dio, conte palatino, di buona
memoria, per sua libera e spontanea volontà e non per errore, al
prezzo di diecimila fiorini regolarmente pagati, senza speranza di
riceverne altri, contento e soddisfatto di quanto ha già avuto e
ricevuto, ha venduto, consegnato e trasferito all’illustre signor
Giacomo da Santa Fiora, per grazia di Dio, conte palatino, suo
fratello e figlio del detto fu conte Bonifacio, compratore qui
presente ed accettante per sé, suoi eredi e successori, la metà
indivisa della terra, della rocca, e dell’abitato di Selvena con
tutta la sua corte e il suo territorio, di sua proprietà per
successione legittima, con tutti gli abitanti, le giurisdizioni, con
il mero e misto impero (cioè la facoltà di giudicare e punire), con
ogni diritto di sudditanza e di omaggio, con le mura, le case, le
carbonaie , i fossi, i fortini, le acque, le fontane, i ponti, il
mulino, le terre, le vigne, i prati, le pasture, le ghiande, i
passaggi, le imposte, le facoltà di comando e tutti gli altri
diritti legati alla mezza parte, ad essa spettanti e di competenza
del venditore.
Tutt’intorno alla rocca di Selvena,
ed al suo borgo, sorgono mura e carbonaie appartenenti al castello e
all’abitato. Il territorio e il distretto di questo castello
confina con la corte ed il territorio di Santa Fiora, con il
territorio e distretto di Caleggiano, con il territorio e distretto
di Catabbio, con la corte e il distretto del castello di Monte Buono
e con la curia, il territorio ed il distretto di Castell’Azzara».
Tutto vien ceduto in proprietà, in
uso, in possesso, con diritto di dominio, di proprietà e di
possesso, da ora in avanti per farne quel che piacerà al compratore,
ai suoi eredi e successori. Per questo motivo, a tale titolo e con
tale proposito, il conte Pietro cede e concede al conte Giacomo, che
li riceve, tutti e singoli i diritti, le azioni, reali e personali,
utili e dirette, tacite ed espresse, l’esercizio del mero e misto
impero, tutti i diritti e le azioni competenti, anche in futuro,
entro i confini della parte ceduta, facendone il compratore
procuratore e successore di tutte le ragioni connesse. Se poi il
prezzo della vendita fosse superiore al corrisposto, vuole che sia
abbonato, o defalcato il maggiore importo, a titolo di donazione, in
modo da non poter esser mai richiesto.
Promette inoltre che non darà mai dato
fastidio né moverà causa all’acquirente o ai suoi eredi per
ritornare in possesso della parte venduta, o per qualsiasi altro
motivo, anzi ne prenderà sempre le difese, in qualunque occasione e
davanti a qualsiasi persona o istituzione o popolazione, anche a
proprie spese, impegnandosi a sottostare ad una pena doppia del
prezzo pagato, qualora non mantenesse la parola o intentasse una
causa in Siena, in Firenze, in Pisa, in Orvieto, in Viterbo o in
qualunque altro luogo.
E per maggior garanzia delle promesse
fatte, giura sul Vangelo, toccando materialmente le sacre scritture,
di osservare e di non trasgredire tutte le obbligazioni accettate, di
adempierle anzi singolarmente, senza promuovere alcuna lite, di
diritto o di fatto, come presentato da me notaro infrascritto secondo
i dettami della città di Siena, perché siano attentamente mantenute
nei riguardi del compratore conte Giacomo, che può prendere possesso
dell’acquisto, con la procura fatta al comandante della roccaforte
di Selvena, che nuovamente dichiara di appartenere al compratore.
«Fatto in Santa Fiora, in casa e nella
sala della casa del conte Stefano alla presenza del conte Enrico,
dello stesso conte Stefano del fu conte Ildebrandino (Novello) da
Santa Flora, del signor Niccolò Novello del fu signor Filippo
Bonsignori, di Giovanni Mignanelli, di Nicola del Guercio di Siena,
di Cione di Naldo da Civitella, del notaro Giovanni di ser Bertolino
da Reggio, di Giacomo di Giordano, di Fazzino di Ser Gheri di
Roccastrada e di ser Meo del fu Bertoldo di Selvena, testimoni
presenti, chiamati a tale scopo.
E io Giacomo figlio del notaro
Gualtiero di Castiglione di Valdorcia del contado di Siena, notaro e
giudice ordinario regolarmente autorizzato, ho presenziato a tutte le
cose suddette e dietro richiesta ho scritto e pubblicato» .
Definire con precisione il territorio
distrettuale di Selvena, a tanta distanza tempo, è cosa ardua, per
quanto i confini topografici sembrino abbastanza chiari.
Certamente la giurisdizione fondiaria
si estendeva sui due displuvi della Flora, che la divideva quasi a
metà.
A nord il territorio di Santa Fiora,
probabilmente con una linea, che, staccandosi dalle rupi di Cellena,
seguendo qualche fosso e attraversando il primo tratto della Fiora,
veniva a cadere sui poggi poco oltre l’attuale abitato di Poggio
Montone, verso Fontenassa.
A est doveva correre fungo il crinale
che serve da spartiacque destro della Fiora, comprensivo quindi di
Cellena e Cortevecchia, a confine con la comunità di Caleggiano
(Roccalbegna), che si estendeva e saliva fino alla linea del
displuvio sinistro dell’Albegna.
Solo, in piccola parte, a sud-est,
toccava il territorio di Catabbio, per prendere ripidamente
attraverso qualcuno dei torrentelli numerosi, che sboccano nella
Fiora, in direzione di Querciolaia. Quest’ultima località, con le
sue macchie ghiandifere, apparteneva sicuramente al distretto di
Selvena, e serviva di confine con la comunità di Montebuono.
Da Querciolaia i termini dovevano
passare sui poggi lungo la Faggeta di Monte Vitozzo e Poggio
Felcioso, per raggiungere, al Fosso del Confino (Cornacchino), la
Comunità di Castell’azzara.
Ma non dovevano certamente essere ben
determinati i confini in quest’ultimo tratto, perché anche molti
anni dopo si presentano come motivo di requenti controversie.
Se ne trova traccia fino ai primi del
1600, in una bellissima relazione firmata da messer Niccolò
dell’Antella, uno degli ispettori dei Medici, riguardante la terra
di Pitigliano e Sorano, datata 25 giugno 1608 :
«...et havendo fatto diligenza se vi
erano altri confini controversi, quelli (i rappresentanti) di Monte
Vitozzo si dolgono sia occupato loro una parte di certa Valle del
Faggeto, che confina con quelli di Silvina et Castel Lazzara del duca
Sforza, et domandano che si vegga di mantenere le loro ragioni».
Anche gli abitanti di Castell’Azzara
si trovarono spesso in contrasto con quelli di Selvena a causa delle
sconfinazioni di territorio.
Fra le due comunità i limiti,
staccandosi dal Fosso del Confino (poco oltre il palazzo attuale del
Cornacchino), salivano la cresta di Monte Crogno (cérnio, còrniolo),
giungevano l’altezza di Poggio della Vecchia (quota m. 1047) per
discendere alla svelta lungo i poggioli e la fiancata a nord-ovest
del Monte Penna. Le aderenze fra le due comunità si ritrovano alle
prime scaturigini del torrente Siele, poco oltre l’attuale podere
delle Paicciole, per risalire con le alture di Fontenassa fino a
Poggio Montone.
All’interno del territorio, così
sommariamente definito, anche nel 1700 viene ricordata la «bandita
del conte Giacomo», che a quanto risulterebbe dal seguente documento
non sarebbe stata nel luogo detto oggi «Banditella» (sulla sinistra
del fiume), ma doveva estendersi oltre la Fiora, cioè sul versante
destro, fin quasi sotto Cellena, che molto probabilmente apparteneva
alla giurisdizione di Selvena.
Il documento riflette l’«Affitto
della contea di S. Fiora, l’anno del Signore 1720, indiz. XIII, a
dì ultimo ottobre...», per cui il duca Gaetano Sforza Cesarini
concede in fitto a Giov. Battista Simonelli di Roccalbegna la intera
contea, che deteneva come feudo, comprendente «la contea di Santa
Fiora, Castell’Azzara, Sforzesca e Silvena per anni tre a
principiare li 29 novembre dell’anno venturo 1721.
...
15. Che tutti quelli che vorranno
godere del Privilegio della Bandita del conte Giacomo, devino
sementare due some nelle terre di Cellena....»
Soprattutto i pascoli erano facilmente
contestati, e le bestie sconfinando, creavano dissensi, che
prontamente sfociavano in lotte, coinvolgendo a volte, oltre le
famiglie pastorali, le intere comunità.
Ma spesso ne erano responsabili anche
le persone, portate per natura e per necessità al ladrocinio,
specialmente di legna da ardere o di pezzame da lavoro, magari
perpetrando i danni nel territorio altrui anche al lume di luna.
3. Il giuramento di fedeltà al
conte Giacomo
Poco prima che scadesse un mese
dall’acquisto fatto dal conte Giacomo, gli abitanti di Selvena e
del contado distrettuale furono chiamati a prestar giuramento di
fedeltà al nuovo definitivo padrone.
La cerimonia si svolse davanti alla
chiesetta di san Nicola, fuori dalla rocca, sul piccolo pianoro
antistante il portone d’ingresso. Solitamente le riunioni di tal
genere si tenevano nella chiesa del castello, ma tutte le persone non
potevano trovare spazio nella piccola chiesa che misurava appena
trentasei metri quadri
Erano convenuti per l’occasione dei
testimoni, tutti estranei all’ambito di Selvena: due preti di
Arcidosso, altri due uomini senza alcun titolo, qualificati solo con
il nome ed il patronimico, Guccio Fucci e Ceccarello Berti, insieme
ad altre due persone dell’isola del Giglio, che forse casualmente
si trovavano sul luogo, Galgano di Giovanni e Ghino di Nasello,
amministratori o guardiani per il conte in quella parte di sua
spettanza.
Il numero dei convocati per l’atto di
vassallaggio risulta di centotré individui, e verosimilmente
abbraccia tutti gli uomini da una certa età in su, in quanto non si
può pensare che il numero fosse costituito da soli capi famiglia.
Ammettendo in tal caso una media di cinque persone per nucleo, si
otterrebbe un totale di circa cinquecento anime, veramente esagerato
per un piccolo centro, anche considerando gli individui certamente
intervenuti dalla campagna. Tutti uomini, almeno per quanto è dato
conoscere dai nomi; due sole donne identificabili con certezza, Gioia
Vite e Vana o Vanna Foschi.
Fra i cognomi, o meglio i patronimici,
quello di «Vannis» conta otto individui, ma uno di essi «Foscho
Vannis» risulta ripetuto, se non si volesse ammettere un caso di
omonimia.
Poi seguono i «Guiducci», i
«Guidarelli», i «Matheuoli», ciascuno con tre presenze.
Fra i nomi stessi, molti, i più
risultano abbreviazioni: Mone per Simone, Meus per Bartholomeus,
Menichus per Domenicus, Cintus per Jacintus, Tòfanus per
Christofanus. Alcuni indubbiamente soprannomi o nomignoli, secondo la
comune usanza, Boccanéra, Boccalèrcia, Caracosa, Bacone.
Qualcuno risulta solo naturalizzato, ed
ostenta il paese di origine, nel dichiarare le proprie generalità.
Così, Angelus de Sancto Johanne
(probabilmente di San Giovanni delle Contee), Fuccius de Latera,
Petriccioius Roselle, e uno che si esibisce con il solo nome della
sua terra, Garfagninus, della Garfagnana.
Solamente pochi indicano la
professione, quando si distacca completamente da quella ordinaria di
gente dedita alla campagna, esercitata dalla quasi totalità.
Due «magistri», che qui va inteso nel
senso di «maestri» nell’arte muraria (mastro Cecco di Gioanni e
mastro Fiorino di Vinci, probabilmente originario della Vai d’Arno),
un prete sicuramente titolare della chiesa di San Nicola, un frate
dal nome strano «Corpus Scudellari», forse un questuante, ed infine
il vecchio notaro, ser Fazzino di ser Gheri da Roccastrada, per tanti
anni al servizio del conte, ed ora invecchiato, inabile a tener
dietro al padrone nei lunghi viaggi, aspettava di chiudere gli occhi
nella ventosa rocca di Selvena.
Lo troviamo, anche qui accompagnato,
come nell’atto di vendita di Selvena, da quel Giacomo di Giordano,
che doveva ricoprire la carica di vicario del conte o di comandante
della rocca. Risulta infatti presente al testamento dettato in
Ampugnano e nell’atto di vendita riportato viene qualificato «amico
barone del conte Giacomo».
Grazie alla diligenza del notaro ser
Gualtiero da Castiglione di Valdorcia ed alla cura di conservazione
degli archivi senesi possiamo oggi leggere il verbale dell’adunanza
del 18 novembre del 1344.
«Nel nome del Signore . Così sia.
Anno del Signore 1344, indizione XIII,
18 di novembre.
Sia ben chiaro a tutti come il
magnifico uomo Giacomo da Santa Fiora, per grazia di Dio conte
palatino, figlio del conte Bonifacio di Santa Fiora, di buona
memoria, per la stessa grazia conte palatino, abbia acquistato e
ricevuto per un determinato prezzo dal magnifico uomo conte Pietro,
suo fratello carnale e figlio del predetto fu conte Bonifacio da
Santa Fiora, la metà indivisa del castello e rocca di Selvena, della
sua corte e distretto, la sua giurisdizione con gli abitanti, le
spettanze e tutti gli altri diritti contenuti nell’atto di vendita
stipulato da me notaro Giacomo sottoscritto.
Siccome l’altra metà del predetto
castello o rocca con tutti quanti i diritti e le giurisdizioni
spettava, come spetta, allo stesso conte Giacomo per suo giuramento,
così ora i sottoscritti uomini e persone del castello di Selvena,
riconoscendo nel predetto conte il vero Signore di tutto il castello,
della corte e distretto, e di tutti gli abitanti in esso,
presentatisi a me notaro, come persone pubbliche, giurano sui santi
vangeli di Dio, toccando con le mani le sacre scritture, davanti a me
notaro che li riceve in nome del conte Giacomo, la loro fedeltà, e
che saranno, da qui in avanti fino al supremo anelito, fedeli al loro
signore conte Giacomo contro ogni persona, e giurarono pure di non
partecipare mai, con coscienza, a consigli, aiuti o fatti per cui il
conte Giacomo avesse a perdere la vita, sia pure in guerra, o che
dovesse ricevere sulla persona qualsiasi danno, ingiuria o offesa, o
che dovesse perdere l’onore presente e futuro. Che se sapessero o
venissero a conoscenza che qualcuno tramasse contro lo stesso conte,
faranno qualunque sforzo perché il fatto non si verifichi e se non
potessero operare in modo che ciò non avvenisse, quanto prima
farebbero in modo che egli lo sapesse, secondo le loro possibilità.
E giurarono tutto quel che si riferisce ad una vera fedeltà.
Gli uomini e le persone di Selvena che
prestarono giuramento, sono riportati qui sotto, cioè:
Fosco di Vanne; Nuccio di Caracosa;
Cinto di Mino; Francesco di Vannuccio; Leto dì Lieto; Vannuzzo di
Caracosa; Guiduccio del
Ciolo; Silvestro di Giuffredo; Pietro di Viola; Meo di
Manente; Pietro di Gallina; Matteo di
Guidarello; Ugolino di Lotto; Mone di Giacovello; Meo di Boccanera;
Menicuccio di Vanne;
Giovanni di Dato; Giacobbe di Leonio; Vannuccio di Giacomuccio; Gioia
di Vita; Guasco
della Casella; Noccio di Matteolo; Viterbo di Ventura; Menico di
Tuccio; Petricciolo di
Roselle; Tedesco di Buttafango; Leucio dell’Agriola; Peccia di
Francesco; Leucio di Balduccio; Tuccio
di Fuccio; Menicuccio di Tondo; Angelo da San Giovanni; Guido di Vanne;
Tranquillo di Venuto;
Muccio di Caracosa; Sisto di Sisto; Fusco di Paoluccio; Turella di
Viterbuccio; Boccanera di
Rustichello; Mecuccio di Binduccio; Mancino di Vanne; Fazzino di Ser
Gheri; Giacomo di
Giordano; Pietro di Gennaro; Luca di Fedino; Capriolo di Lippo; Pietro
Nuccio; Pietruccio di
Vanne; Vannuccio di Fosco; Goro di Marrachello; Fosco di Vanne; Gheri
di Rosa; Vannardo di Guiduccio; Emo di Guiduccio; Franco di
Luparello; Bartolomeo della Nonna; Secondino di
Vannuccio; Maccione di Naldo; Rosso di Maniccio; Giovanni del Servito;
Angeluzzo di
Cola; Mastro Cecco di Giovanni; Cecco della Bucciana; Pepo di Pepo;
Petricciolo di Paoluccio;
Nannuccino di Guccio; Menicuccio di Luccio; Tuccio del Tedesco; Tuccio
della Caprella;
Ranuccio di Leto; Pietro di Nuccio; Segna di Vitaluccio; Garfagnino;
Tuccio di Giacovello;
Malandrino di Vanne; Noccio di Matteolo; Tuccio della Necca; Fuccio di
Latera; Ligo di Neso; Mastro
Fiori no da Vinci; Boccalercia di Albonetto; Pietro di Vanne; Nardone
di Rolando; Magagnino di Vanne;
Memolo di Neri; Muccio di Naldo; Buffone di Rolando; Santoro prete
Connersano;
Ventura di Lotto; Vannuccino di Guidarello; Meo della Mina; Modesto di
Cecco; Tuccio di
Bacone; Jacovuccio di Nuccio; Nanna di Fosco; Tòfano di Guidarello;
Frate Corpo di Scudellaro;
Paolo di Cecco; Francesco di Giuffredo; Arrighetto di Accettante; Nano
di Matteolo; Turello
di Viterbuccio.
Fatto in Selvena davanti alla chiesa di
San Nicola di Selvena, alla presenza di prete Spina di Giacomo, prete
Antonio di Arcidosso, Guccio di Fuccio, Ceccarello di Berto, Galgano
di Giovanni e Ghino di Nasello del Giglio, testimoni incaricati e
richiesti per assistere a queste cose.
Io Giacomo figlio di Ser Gualtiero
notaro di Castiglione di Vai d’Orcia del contado senese, per
disposizione imperiale notaro e giudice ordinario, sono stato
presente a tutto, e a richiesta ho scritto e pubblicato»
È necessario spendere qualche parola
sulla organizzazione, sull’ordinamento del castello, e sui rapporti
intercorrenti fra il signore del luogo e gli abitanti del distretto.
I termini, che spesso ricorrono nei
documenti, «castello e rocca, corte e distretto», se non
equivalenti, denotano il più delle volte località collegate l’una
all’altra: un castello o una rocca come residenza signorile,
attorniata da un territorio (curia o distretto), di più o meno vasta
estensione, abitata qua e là da famiglie, che sottostanno alla
giurisdizione padronale, giudiziariamente ed amministrativamente,
come si compendia nella frase «con il mero e misto imperio».
Il castello è il centro propulsore del
distretto, comprensivo non solo della fortificazione vera e propria e
dell’alto cassero, ma anche del nucleo di abitazioni che gli si
stringono attorno. A Selvena tutto l’abitato si condensa in poche
casupole ai piedi della rocca, verso sud.
Lo attestano i cumuli di macerie, i
rottami, i frantumi che si possono osservare anche oggi coperti dai
rovi e dalle vitalbe, sebbene assai ridotti per via delle costruzioni
rurali nate alla lunga nei dintorni. Molto pietrame poi, sia
proveniente dalle mura crollate della rocca, sia asportato dalle
abitazioni dirute, fu ricuperato e rifuso nelle muraglie del vicino
cantiere minerario, verso la fine del secolo scorso e l’inizio del
presente.
La rocca non si presentava come luogo
di libero accesso o di sosta per tutti era riservata esclusivamente
al Signore, al suo vicario o rappresentante, ai familiari addetti
alle varie botteghe di fabbreria, carpenteria, calzoleria.
I coloni, i dipendenti solo in caso di
seria minaccia o di assalto, potevano trovar riparo entro la
struttura muraria difensiva.
Anche la chiesa, in Selvena, è esclusa
dal riparo fortificato. L’ubicazione esterna, non rara del resto,
denota la sua tarda erezione rispetto al castello, e la funzione
strettamente pievanale, cioè di chiesa al servizio di tutti gli
abitanti del distretto. E certamente gravava su di essa il diritto di
patronato laico da parte del conte, come testimonia la pesante tassa
decimale negli anni 1276-1277, inferiore solo a quella canonica di
Sovana. Se ne può arguire una dotazione ed un reddito non
indifferente.
Gli uomini, in quanto abitanti attorno
al castello e per l’eventuale rifugio che, all’occorrenza,
potevano trovare in esso, erano tenuti a risarcire i danni alle mura,
a costruirne eventualmente di nuove, a tener puliti i fossi di
circonvallazione, che nel caso nostro esistevano solo, e per breve
tratto, sul lato di levante e di traversone, a controllare le acque,
specialmente le fontane, a riguardare i ponti, ad assicurare il
funzionamento del mulino, a tutti insomma quei servizi e prestazioni
di utilità pubblica, che esigevano la manutenzione per l’efficienza
del castello e delle sue dipendenze.
Le prestazioni di opera fanno parte del
dovere riconosciuto dagli abitanti e del diritto spettante al
padrone. La necessità che il castello fosse provvisto di tutto si
riconosceva nei frequenti assedi cui andava soggetto. Il forno con le
sue riserve di farina e di grano, le capienti cisterne di acqua, le
ceste di fave e di ceci secchi, le sacca di sale, i mulinetti a mano,
costituivano le riserve o gli arnesi, che ogni tanto andavano
rinnovati o riveduti negli ampi stanzoni del castello, nei
sotterranei semibui o nei complicati labirinti interni.
La resistenza spesso dipendeva
dall’autosufficienza, e l’autosufficienza si preparava con il
concorso di tutte le persone valide. Esistevano insomma, fra vassalli
e padroni, rapporti di dipendenza, che convalidavano altri aspetti
feudali, di origine antichissima, scaturiti certamente dall’uso,
dall’abuso e dal sopruso, quelli cioè della schiavitù accettata e
della padronanza assoluta. Le prestazioni rurali rappresentavano solo
una faccia della dipendenza, ché dalla terra doveva uscire la vita
per tutti, per la famiglia del sottoposto e per la compagine che
agiva attorno al padrone.
Gli oneri erano costituiti dai
corrispettivi per gli affitti, per i capitoli in gestione,
rappresentati dal bestiame, dai prati, dai pascoli, dalle bandite o
chiuse, recinti naturali o artificiali per il bestiame grosso, dai
querceti per l’aggina dei porci.
E per ogni cosa occorreva mano d’opera,
sostenuta anche dai ragazzi appena giunti all’uso di ragione e, per
determinati lavori, anche dalle donne, che non avevano mai pace.
Della miniera di mercurio o argentiera di Selvena, non viene fatta
parola in nessuno dei tre documenti riportati. Segno evidente che,
dopo l’importanza di qualche secolo prima, ora si era spento quasi
del tutto l’interesse lucrativo, o quanto meno ridotto
notevolmente. Né d’altra parte destava le ambizioni o la cupidigia
della repubblica senese, perché nella relazione sulle condizioni
dello stato presentata dal priore del Governo dei Nove, Simone di
Giacomo Tondi, qualche anno prima (an. 1334), non viene ricordata
affatto .
Un’altra forma di obbligazione era
costituita dall’omaggio (homagium), un insieme di vincoli, impegni,
corrisposti di solito in natura o in servizi lavorativi, data la
miseria pecuniaria serpigna che gravava di continuo sulla
popolazione.
Poi le regalie, i tributi di bassa
corte, polli, piccioni, uova, regolati da una consuetudine secolare,
da una tradizione antichissima, nata dall’aspirazione, dall’istinto
della sopravvivenza, che spinge a qualsiasi contratto, pur di
respirare ed aver salva la vita. Perché il vassallo non era padrone
nemmeno di quel metro quadrato che l’aspettava al cimitero.
Chi nasceva contadino, rimaneva
fatalmente contadino.
Qualche giovane particolarmente
intelligente poteva aspirare, con l’aiuto del signore, alla
carriera ecclesiastica: la sola aperta ad ogni classe sociale, e che
permetteva di raggiungere livelli altssimi.
Ma l’aspetto più esoso della
sudditanza rimaneva rappresentato dal «diritto del mero e misto
impero».
Una frase ambigua per indicare il
signore come il giudice di vita o di morte, il giustiziere senza
appello sulle persone che rientravano nell’ambito giurisdizionale
del castello.
Un totale asservimento degli individui,
che venivano permutati, compresi negli atti di acquisto o di vendita
come strumenti o parte integrante dell’immobile su cui risiedevano.