La ricerca mineraria in Selvena




Brevi cenni storici.

L’indagine scientifica sotto il governo dei Lorena


Il Settecento può, senza paura di sbagliare, considerarsi il periodo d’oro delle nostre zone. Non tanto per l’ansia di progresso, che pervase le popolazioni, per l’avvio all’emancipazione terriera perseguita dai Lorenesi, per secoli desiderata e richiesta da tutti gli abitanti della montagna, ma soprattutto per quello spirito di ricerca, quell’aspirazione alla scoperta, che fecero i nostri luoghi meta appetita di studiosi in ogni branca del sapere: geologi, mineralisti, entomologi, botanici.

Un vero risveglio scientifico, forse dovuto al nuovo movimento illuministico, che con la bufera napoleonica avviluppò tutta quanta l’Europa, e che investì in pieno l'Italia e le nostre zone, per la diffusione che ebbero gli scritti di eminenti studiosi toscani come il Micheli, il Targioni-Tozzetti, il Santi, il Repetti.

Sembra veramente che nel Settecento e agli albori dell’Ottocento, il Monte Amiata abbia funzionato da faro, da calamita anzi, nella indagine scientifica: da Firenze, da Pisa, da Lucca, da Roma scienziati di fama mondiale si mossero per studiare il suolo, e non solo superficialmente, per analizzare le acque, e non solo le potabili, per collezionare erbe, e non solo le medicinali.

Non passarono inosservati né la carlina piumosa, «i fiori della quale gli abitatori del paese appendono alle porte di casa, perché chiudendosi danno segno di vicina pioggia, ed aprendosi di vaga serenità», né i «gustosissimi e profumatissimi prugnoli», all’occhio attento del botanico Micheli, che dal 22 maggio al 21 giugno del 1733 non fece che aggirarsi per le campagne e per i

boschi delle varie comunità dell’Amiata, stendendo poi una minutissima relazione, pubblicata in seguito dal suo non meno illustre scolaro Giovanni Targioni-Tozzetti.

E non si limitò alle sole ricerche botaniche e alle classificazioni minerali, il celebre naturalista, ma seppe creare un clima d’interesse, un tono d’indagine per ogni cosa, che si protrasse ancora per qualche anno in coloro che lo avvicinarono. E del 1734 infatti, cioè dell’anno dopo la sua escursione nei paesi dell’Amiata, la seguente lettera del dott. Giuseppe Maria Gualmi medico a Piancastagnaio, diretta allo stesso Pier Antonio Micheli: «Per mezzo del ministro di questo signor Marchese (Bourbon del Monte) che fu costì a Firenze per le feste di S. Giovanni, inviai a V.S. un pezzo intero di una libbra (gr. 330) del noto cinabro con una mia lettera, e non vedendo finora nessun riscontro di tal cosa, mi muovo a darlene tal notizia, a ciò almeno sappia che l’ho servita per quanto mi è stato finora permesso. Unita al detto cinabro vi era un pezzetto di altra pietra carica, per quanto si crede, di antimonio e ne desiderava qualche contezza di questo pure. Cotesto Signor Marchese del Monte mi suppongo avrà da V.S. ricevuta la dovuta relazione intorno al detto cinabro, ma bramerebbe da me, per quanto mi accenna, la certezza della miniera.

Questa non può aversi mai, senza lo scasso di una casa ad uso di podere di padronato dei signori Benci. Però stimerei necessario che V.S. fosse qui di persona con ordine di Corte, e col peso di risarcirne ogni danno in caso non trovisi la miniera, altrimenti non so come potrà andarsi in traccia della medesima. Si contenti in tal proposito di sapere che il Duca di Santa Fiora mandò da Roma un mineralista per osservare se nella detta contea vi erano miniere, e nel mese di giugno e luglio sonosi là fatte cavare, per quanto mi vien detto, in un luogo non lontano da qui cinque miglia, 20 mila libbre (circa q. 65) di antimonio, senza il cinabro e mercurio, che vi è in gran copia.

Se ne tornò a Roma, e viene ora alla fine del corrente (mese) per seguitare la cava della miniera. Questo si chiama operare! lo mi ci voglio portare subito che saprò che lavorano, per osservare la copia di detta miniera, e le ne darò contezza distinta.

Se il Signor Marchese vorrà spendere come fa il Duca di Santafiora, son certo che qui troverà molto di buono.

Me ne rimetto sempre al di lei purgatissimo intendimento, acciò in caso di abboccamento, tratti V.S. tale affare con quel modo che le parrà più convenevole, mentre ansioso de’ suoi pregiati comandi resto con dirmi Devot.mo, obb.mo servitor vero Giuseppe Maria Gualmi» (Piano, 6 settembre 1734).

Vediamo così localizzate, nella lettera riportata, le due zone, che circa cento anni dopo avrebbero ospitato gli stabilimenti minerari più importanti della vecchia contea di Santa Fiora: quella presso il fosso Solforate e l’altra presso il fosso Canala, prossimo a Selvena, detta in seguito «Morone». Ma non voglio lasciar credere che solo nel ‘700 si venisse a conoscenza dei giacimenti cinabriferi ed antimoniali.

Trascurando gli scavi delle epoche primordiali , comprovati da numerosi reperti archeologici, catalogati con ogni cura nel museo «Pigorini» di Roma, in quello «Chigi-Zondadari» di Siena ed in quello di Antropologia e di Etnologia dell’Università di Firenze (coltelli e cuspidi in selce, picconi e mazzuoli di pietra, accette di bronzo, ritrovati tutti in antichissime gallerie del Cornacchino, del Siele e del Morone) , voglio appena accennare alle attenzioni, alle cure prodigate dagli Aldobrandeschi per la difesa delle miniere esistenti nel loro vastissimo territorio, di cui la nostra zona rappresentava la punta più alta.

Siamo già ai tempi, in cui i metalli son divenuti troppo preziosi per non risvegliare l’avidità, la cupidigia della ricerca.

Così accanto alla copiosa vena d’argento, che i conti palatini possedevano presso il castello di Scerpena, poco sotto Manciano, per donazione di Federico

Barbarossa il 10 agosto 1164, con diploma e bolla d’oro datata a Pavia vediamo affiancarsi quella di Batignano e quella presso il castello di Tatti.

E dovettero risultare veramente redditizie, se permisero alla nobile famiglia di batter moneta, in un primo tempo nella zecca di Perugia e più tardi direttamente in Santa Fiora. Le monetine, dette comunemente «provisini», come quelle del Senato di Roma, si presentano ambedue a contorno fortemente tranciato, slabbrato, in lega di biglione, ossia in argento di bassa qualità. La prima «nel suo diritto ha intorno la iscrizione + comes. P. AI. e la croce nel campo; e nel rovescio: + s.ca Flora colla protome in mezzo della Santa, che porta nella sinistra un piccolo vessillo della croce, e nella destra un fiore. Facile è la spiegazione di questa leggenda. Nel diritto è scritto: Comes Palatinus Aldobrandus, o meglio Aldobrandinus; e nel rovescio: Sancta Flora».

La seconda moneta invece «ha nel D.(iritto) in giro dopo una crocetta Comes D. A... nel campo una croce in un circolo di perline; nel R.(etro) parimenti dopo una crocetta la leggenda attorno “S.ca Flora”. Questa preziosa moneta, che è di bassa lega, è attualmente posseduta dal molto Rev. Canonico D. Antonio Mazzetti di Chiusi. Per la scoperta di questo nummo viene ad aggiungersi una nuova officina monetaria a quelle già conosciute della Toscana».

Dalla relazione interessantissima di un antico e sconosciuto naturalista senese, Simone di messer Jacomo Tondi, che nel 1334 ebbe l’incarico, dal prudente governo dei Nove, di visitare lo Stato della Repubblica di Siena per corredarlo di nuove strade, per provvedere al risarcimento dei ponti, a costruirne di nuovi, per impiantar fontane, ove ce ne fosse bisogno, sembrerebbe si potesse localizzare, anche in Selvena, una miniera di argento.

Ma penso si tratti di un errore, anzi di una omissione: sarebbe, a mio giudizio, mancante l’aggettivo «vivo», argento vivo, come difatti era chiamato anche allora il mercurio. Rimane il fatto però che sia nell’atto divisionale del 1216 sia in quello più tardivo del 1274, le miniere di Selvena vengono, dai due notari, chiamate argentiere, cioè miniere o cave d’argento, senza alcun altro appellativo.

Vero è che se abbastanza numerosi sono i documenti, che attestano l’esistenza antichissima delle cave di cinabro, nella nostra zona, nessun documento invece precisa la tecnica di estrazione e di decozione.

La prima poi non doveva presentarsi solo a cava aperta, ma consistere anche in gallerie ed in pozzi, per quanto non molto profondi. Certo che l’ignoranza della polvere da mine, la inesistenza delle macchine per l’elevazione e l’estrazione delle acque, dovettero costituire ostacoli, a volte insormontabili, per le persone addette ai lavori.

L’arte mineraria, in quell’epoca, si riduceva quindi all’applicazione delle sole braccia umane; poggiava esclusivamente sullo sforzo di poveri esseri, che lavoravano in mezzo a mille stenti e a mille privazioni.

Del resto minimo doveva essere il consumo e conseguentemente limitatissima la richiesta del mercurio vero e proprio; semmai maggior pratica trovava il solfuro di mercurio, ossia il cinabro nativo, come colorante e come medicamento, per quanto da tutti si ritenesse pericolosissimo.

Anche sul metodo adottato per la decozione, per la calcinazione del minerale, bisogna giungere alla fine del Quattrocento ed attingere alla «Pirotecnia» del senese Vannuccio Biringucci, per saperne qualcosa: è un metodo primordiale, rudimentale, infantile direi. Grossi vasi di coccio a forma di pera, invetriati internamente, per impedire l’evasione, la fuga dei vapori mercuriali attraverso la porosità del testo, divisi a metà trasversalmente, alloggiavano il minerale cinabrifero già ridotto in polvere.

«Et sopra copreno di un dito o due di cenere stacciata, et sopra col coperchio (cioè con l’altra metà del vaso) serrano benissimo il vaso legandolo, over con qualche cosa di grave che gli calchi sopra aggravandolo, et dipoi mette fuoco al fornello, dove sono aiutati a star dentro detti vasi (in appositi incavi) et così per sentire il caldo, il mercurio coce dalla minera (minerale greggio), et saghe per voler evaporare, et percotendo nelli coperchi, casca infra le ceneri, dalle quali lavandole o, con staccio fitto, stacciandole, tutto si ricupera».

Lascio considerare se l’utile, che ne derivava, avesse potuto compensare il tempo, il lavoro, e la pazienza, anche in tempi, in cui questi tre fattori, oggi assurti all’acme dell’interesse, eran calcolati meno che zero.

Comunque estinta la casata Aldobrandesca, e successale nella sovranità della Contea (1439) quella Sforzesca, gente, quest’ultima, dedita esclusivamente all’arte bellica, la miniera di Selvena, che rappresentava maggiori possibilità di sfruttamento in quei tempi, che il minerale si rinveniva a fior di terra, cadde quasi in un abbandono nero.

Verso la fine del sec. XV, con la calata di Carlo VIII (1494), prese campo anche in Italia una terribile malattia venerea, il «mal francioso», detta poi, dal poemetto del medico-poeta Girolamo Fracastoro, sifilide, che trovò un relativo giovamento nelle cure mercuriali.
Da qui più attiva la richiesta del mercurio e dei suoi derivati. E ancora sulla metà del Cinquecento emergono documenti, che attestano una forte ripresa dei lavori estrattivi.

Ma è cambiata la natura dello scandaglio; poco si cura il mercurio. Nuovi impegni assillano gli uomini, nuove esigenze stimolano l’attività di indagine.

L’invenzione della stampa richiede antimonio e solfato di ferro; quello per i caratteri, questo per l’inchiostro.

«Di tal miniere d’antimonio ne sono ancora assai nel contado di Siena, infra le quali n’è una presso la città di Massa di maremma, et un’altra grande appresso a un’altra città chiamata Sovana, et questa li prattici sperimentatori dicono esser la miglior che sappino. Tròvasene ancho nel contado di Santa Fiora, presso a una terra chiamata Selvena, et non solo in questi luochi, ch’io vi ho nominati, ma in molti altri».

E più avanti: «Vetriolo se ne cava ancora a Monte Amiata nel contado di Santa Fiora, e se ne caverebbe e credo se ne sia già cavato, è opinione di alcuni, ancora del bianco» .

È necessario precisare che per vetriolo, nel nostro caso, dobbiamo intendere il solfato di ferro, chiamato anche vetriolo verde o vetriolo romano.

Ce ne avverte un altro illustre scienziato di S. Miniato, Michele Mercati, archiatra di Clemente VIII, che visitò di persona i nostri territori nel 1590 e poté osservare da vicino la lavorazione, allora efficientissima, in Selvena. A lui si deve quell’opera monumentale e meravigliosa, che purtroppo uscì postuma, guadagnandone però in pregio, in quanto corredata ed ornata dalle stupende incisioni del celebre Lancisi, la «Metallotheca Vaticana».

«Quello che da noi si chiama vetriolo romano, lo abbiamo veduto produrre presso a poco in questo modo, tanto nel territorio romano vicino a Bagnoregio, come nella contea di S. Fiora presso il castello di Selvena, dove ogni giorno se ne fa una grandissima quantità: difatti da qualsiasi parte scavi la terra, trovi una vena di solfato ferroso, per cui a buon diritto fu chiamata Selvena, cioè una Selva di vene; perché non solo vi sono filoni di solfato di ferro, di zolfo, di pirite, di antimonio, ma anche di molti altri metalli, di cui neanche la più piccola parte abbiamo trovato in altri luoghi d'Italia, e neppure abbiamo saputo che altri ne abbiano rinvenuti, Il minerale dunque, da cui si ricava il vetriolo artificiale, è generalmente terroso, di color nero all’esterno; internamente invece, quando si spacca o si secca, appare qualche volta color della cenere, di sapore acre e astringente; ritengo anzi che si tratti della melanterite degli antichi, perché viene descritta con le stesse caratteristiche con cui si presenta.

Si scava, questa, a volte in caverne sotterranee o nelle cavità dei monti, a volte invece all’aria aperta, in pozzi, non perché emetta esalazioni pestifere e letali, o ne possieda all’interno (come erroneamente hanno ritenuto alcuni), ma perché spesso, in alcuni luoghi, gli operai che scavano le gallerie non vi possono lavorare; il vapore, che si sprigiona nelle cavità sotterranee, non solo

è innocuo, ma anzi giova alla salute del corpo, come insegna l’esperienza di ogni giorno.

Quando il materiale è stato messo a nudo, su una vasta superficie, a cielo scoperto, o meglio sotto una tettoia, perché il minerale non venga slavato dalle acque, o perché al calore del sole non si risvegli il fuoco muto che internamente arde, lo accumulano in lunghi mucchi. Infine con rastrelli e con marre lo sgretolano, lo stritolano, lo trapanano fino a ridurlo in polvere. E quanto più durerà questo lavorio, tanto più il materiale sarà idoneo alla resa del vetriolo.

Fatto questo, costruiscono una vasca in laterizi e calce, la stuccano e la fratazzano all’interno, intorno intorno, la riempiono di acqua per mezzo di canali e vi gettano dentro il materiale necessario; infine gli addetti al lavoro con pali di legno (volgarmente chiamati tràgoli), mischiano la polvere all’acqua, finché questa non abbia assorbito tutta la sostanza del vetriolo. Lasciano quindi riposar bene, in modo che i materiali recrementizi, si depositino al fondo.

Travasano allora l’acqua ben purgata dal fecciume e ricca di solfato ferroso, per mezzo di una cannella posta su uno dei lati della vasca, in un gran serbatoio, da dove viene tolta quando si è schiarita ed ha acquistato un bel color verde.

Costruite intanto delle vasche di piombo, come caldaie, che abbiano sotto dei graticci di ferro per accendere il fuoco, vi tramutano il liquido per mezzo di canali.

Accendono poi, sotto, un fuoco gagliardo in modo che l’acqua soprastante bolla a ritrècine. Di tanto in tanto gettano dentro l’acqua dei pezzi di ferro (gli altri metalli non si liquefanno) in modo che poi il vetriolo sì rapprenda con maggior peso e lucentezza. Quando il liquido sia ridotto a metà o abbia assunto la densità del miele, vi immettono nuova acqua, ripetendo l’operazione quattro o cinque volte nel giro di ventiquattro ore.

Lasciano poi riposare l’acqua, dopo averla travasata in altro recipiente, da cui viene tolta ancora tiepida per essere versata in certe piccole tinozze fatte con dogame di castagno.

In quindici giorni si rapprende e diventa solfato di ferro, acquistando un’apparenza vitrea, di color smeraldo verde o succeruleo, e, ridotto in pani, viene esportato dai mercanti quasi in ogni parte d’Europa».

Anche la nuova richiesta però, dopo un inizio veramente brillante, subì una gravissima crisi. La vendita della sovranità della contea del 1633, le vicissitudine stesse della famiglia, per le lotte intestine della casata Sforza-Cesarini, i nuovi metodi di fabbricazione, anche se più costosi, ne furono la causa principale.

Occorre giungere alla metà del ‘700 per veder riaperte le cave, per tanto tempo interrate dalle acque piovane, ricoperte di rovi e vitalbe, impraticabili per gli spini irsuti e per la rinata vegetazione spontanea inorgoglita per la terra rimossa attorno alle vecchie escavazioni.

Fu ancora il vetriolo ad aprire la nuova serie di lavori, ad esser richiesto e ricercato. Ce lo conferma una lettera del 1 761, pubblicata nelle «Novelle letterarie fiorentine», ed indirizzata al direttore della rivista, Giovanni Lami.




«Castel del Piano 24 agosto 1761.

Non so se a V.S. sia stata mai data la notizia che nel villaggio di Silvena della Contea di S. Fiora del Sig. Duca Sforza Cesarini, dopo che egli ha fatto riaprire le Cave del Vetriolo, le quali già per lungo tempo erano state trasandate, e soltanto sapevasi per tradizione, che una volta vi esistevano; in queste cave, quaranta canne incirca sotto terra, trovansi alcune Pine di diversa grandezza, verdi, e strette, come se fossero state colte allora dall’albero.

Ma dopo essere state elleno all’aria, ed al caldo, si aprono di per se stesse; alcune quantunque così aperte, il colore e la consistenza di Pina conservano, come quelle delle nostre pinete; ed alcune rimangono come bruciate e friabili, che facilmente si riducono quasi in polvere, ed il colore ci dimostrano dello stesso vetriolo.

I curiosi naturalisti, da che ciò provenga, giudicheranno, e per qual ragione o questo villaggio, ove non sono vicine pinete di sorte alcuna, e neppure in altri paesi ad esso circonvicini 20 ritrovinsi così sotterra le Pine. Mi viene ancora riferito, che alcune di queste Pine sono state da un eccellente naturalista viaggiatore inglese raccolte, e trasportate in Inghilterra. Io ne conservo tre, le

quali volentieri unirei a questa mia lettera, acciò si prendesse piacere di vederle. Quando ella creda, esser questa mia scoperta interessante la Storia naturale della nostra Toscana, ne faccia quell’uso, che giudicherà proprio».



2. Una sconcertante relazione di Giovanni Arduino


La miniera di mercurio invece vivacchiava tra mille stenti.

Ceduta in affitto a vari pretendenti, non getteva mai la rendita, che questi avevano presupposto in un primo tempo, e non perché fosse scarsa di minerale da trattare, che anzi se ne trovava anche a fior di terra, ma per la rudimentale tecnica della escavazione e peggio per la inesperienza delle persone addette alla torrefazione del minerale, e soprattutto per lo scoramento che subentrava a confronto della cava del vetriolo.

Crollarono addirittura le speranze di riapertura, di esplorazione e di partecipazione dopo l’inequivocabile preconio di uno dei più dotti geologi, in quel tempo esistenti in Italia: Giovanni Arduino.

Nel 757 infatti, richiesto dall'auditore generale per la città e stato di Siena, sig. Giulio Franchini Taviani, il quale era stato interessato allo scopo dal conte Francesco Liberati di Parma, uno dei tanti a cui venne proposto lo sfruttamento della miniera di Selvena dal duca Filippo Sforza-Cesarini, anche, e soprattutto per sgravarsi dai molti obblighi di natura finanziaria 23 contratti da lui o dai suoi predecessori, emise lo strano verdetto.

L’Arduino dunque, partito da Siena (era allora ex Sopraintendente e direttore della Società Minerale di Livorno nelle Corti di Montieri e Beccheggiano, di Prata e di Massa di Maremma»), in compagnia di due amici, il dott. Calluri ed il sig. Gio. Filippo Tognoni, si recò in Santa Fiora.

«Partito poi da detto castello, situato sopra un alto scoglio, collo stesso cavaliere (il conte Francesco Liberati), con soprannominati miei compagni, e con varie persone pratiche di questi luoghi silvestri, e montuosi, passai, per maleggevoli viottoli, tra scoscesi dirupi e boscaglie a detta Silvena.

Dessa è piccola villa consistente nel Palazzo di detta ducale famiglia, ed in poche abitazioni, qua e là sparse, con Chiesa parrocchiale: e corrisponde al proprio nome, essendo situata tra vastissime, orride, disabitate selve, rese ancor più tetre dallo squallore di quell’aria pestilente, che tutta la Maremma Toscana sì gravemente infesta. Le cave sopradette sono in poca distanza dal Palazzo, nel pendio, riguardante verso il Fiume Fiora, della congerie di monti e poggi, che propagati dall’alta montagna di Santa Fiora, s’estendono abbassandosi, e diramandosi, verso la Romagna, alla volta del Lago di Bolsena.

Consistono esse in alcune scavazioni fatte, in vari tempi, a cava aperta, cioè allo scoperto, senza interrarsi con vie sotterranee nelle viscere della Terra, né a pozzo, né a gallerie orizzontali. Una d’esse cave, la più recente, e la più conservata da rovine, od interramenti è stata fatta a spese del prelodato sig. conte Liberati, che ha dovuto subentrare (come è noto) in luogo del precedente conduttore di tutta la Contea, per preservare certe sue ragioni di molta importanza, ed a pagare, in conseguenza, anche per dette miniere non piccolo canone.

Informatomi sopraluogo da questi stessi che vi hanno lavorato, anche sotto un certo Mattei, chimico romano, in quale quantità, dove, e come erano soliti di trovarvi il minerale d’argento vivo; mi sono fatto ad esaminare la natura di quel monte, e dei vari materiali, che lo compongono; la posizione, ordine, e andamenti dei suoi strati, e delle vene, e fibre minerali, tra le quali il mercurio più di frequente incontravano.

Varie sono le pietre, e le terre, dalle quali esso monte è formato; alcune vitrescenti, e la massima parte di natura marnosa, e calcarea, di color bianco sudicio variato qua e là da colori smorti, prodotti da ocra da ferro, dal vetriolo, e da sostanza bituminosa, minerali, che ivi non solo, ma anche in tutti quei contorni fanno di sé mostra.

Le pietre, a riserva di certi grossi massi, duri e consistenti, di sasso calcario, sparsi senza ordine, nella superficie del terreno, sono tutte screpolate, frantumate e pochissimo tra sé coerenti; anzi, in molti luoghi, si osservano essere come da fuoco calcinate, e ridotte in sottilissima e bianca sabbia. I loro strati, o filari, ordinariamente assai sottili, sono confusamente, e senza alcuna costanza d’ordine, disposti in varie direzioni. Alcuni vanno da Scirocco a Maestro (E.SE.-N.NO); altri dall’Affrico al Greco (S.SO-N.NE) ed altri per altri della bussola agrimensoria: e si profondono con differenti gradi di divergenza dalla linea perpendicolare al centro della Terra.

Le vene principali però, tra le quali l’argento vivo trovasi più di frequente che altrove, sono per lo più estese dall’Affrico al Greco prossimamente, e si profondano divergendo da detta perpendicolare, e declinano verso Maestro; ma le fibre (così dette dai mineristi le vene sottilissime) incrocicchiano per ogni verso tutti quei pietrosi, e terrei strati.

La materia contenuta nelle sopradette vene e fibre minerali è una terra marnosa, sottilissima, liscia, e al tatto untuosa come sapone, dove di color cenericcio chiaro, dove scuro, approssimantesi al nero: e ripiena di ghiajottoli pietrosi di varie forme e grossezze. Quanto più essa materia è nera, tanto più si conosce abbondante di vetriolo, e di sostanza solfureo-bituminosa; e tanto meno ne partecipa, quanto più al bianco s’avvicina.

Questa specie di marna, che alcuni laboratori delle miniere di Germania chiamano Letten, e che non solamente si vede nelle predette vene e fibre minerali, ma anche tra strato e strato delle pietre di quel sito, e delle circonvicine situazioni, è la matrice dell’argento vivo. Esso fluido metallo, di cui ne ho veduto nel Palazzo suddetto, parecchie libre di distillato e purificato, ed alquanto di misto ancora ed unito alla sua terra; ma pochissimo tra le vene di dette cave, vi si trova mineralizzato dal zolfo, col quale unito forma quel minerale rubicondissimo, che dagli antichi minio era chiamato e da’ moderni cinabro nativo.

Per ascerzione (asserzione) delle genti che ci hanno lavorato, il minerale mercuriale non vi ha mai tenuto ordine seguito da filone; ma si è sempre trovato qua e là sparso e disseminato, in piccole masse, ed a spruzii anche minutissimi, e spesso quasi invisibili tra la marna sopradescritta, senza alcuna regolarità. Nè solamente così lo hanno sempre incontrato nelle vene e fibre, e fra gli strati pietrosi nel luogo delle cave; ma anche talvolta alla superficie della terra, sotto quei massi erranti di pietre calcarie, de’ quali ho sopra fatto cenno, e nei circonvicini campi coltivati. Ne scoprivano pure, di quando in quando, ed io stesso ne ho trovato tra certa terra nera da cui estraevasi non ha guarì il vetriolo; della quale ne ho veduta ivi vicino grandissima copia, estendentesi sotto la superficie de’ campi, dove è anche vasto rovinato Edificio, che alla confezione d’esso sale serviva, e che per lo stesso effetto, dicono, essere il sig. Duca intenzionato di rifabbricarlo. Le osservazioni, da me fatte in quelle cave, e sopra la faccia di quel paese (zona), non mi lasciano luogo poter punto dubitare della verità delle accennate osservazioni di quelle genti.

Non solamente nel sito delle miniere mercuriali, ma anche all’intorno per vasto tratto, tutto quasi si vede scompaginato, sconvolto, e disordinato dalla forza, a mio credere, di antichi vulcani; de’ quali tutt’ora vi sono insigni reliquie presso a delle cave, ed in altri luoghi non molto di là lontani, vi esistono caverne, fenditure, e crateri spenti, esalanti perenne cocente fumo, e fetidissimi aliti di zolfo.

Oltre alle molte pietre che sembrano abbruciate e calcinate, molte anche ne osservai, che pajono fuse, fuori vomitate dalle aperture vulcaniche e sparse confusamente sopra quelle terre. Di quest’ultime specialmente ne sono in grandissimo numero di sepolte confusamente tra la sopradetta terra vetriolina e di sparse nei campi, che sono tra essa terra, e le cave dell’argento vivo: ed hanno la figura di ciottolini di varie grandezze.

Nerissime esse sono, e molto dure, e rassomigliano nel colore e nel peso alle scorie del ferro. Hanno inoltre di singolare che, spezzandone, se ne trovano non poche ripiene di bellissimi e nitidissimi lunghi raggi d’antimonio, tanto puro, che dal di lui regolo artificiale non pare differente; come dai pezzetti meco portati, per conservarli cogli altri miei fossili si può rivelare.

L’accennata confusione che si ravvisa nell’interna struttura di quello, e dei circonvicini monti, ed il tumultuario accozzamento delle materie eterogenee, delle quali essi constano, basterebbero a chiunque ha della metallurgia la necessaria pratica e gode cognizioni della fisica sotterranea, a togliere la speranza che nei medesimi si possano incontrare filoni, o vene metalliche regolari, e di quella continuità ed estensione, che atta sia a renderne l’escavazione lucrosa.

Mostra pur troppo di frequente, la sperienza, che nei monti minerali di tale natura, i metalli, che vi sono generati, o (se si voglia) raddunati, non vi serbano quasi ordine alcuno, che servire possa di qualche buona strada per rintracciarli. Comunemente vi esistono qua e là come a nidi, e non scopribili che fortuitamente: e dove si siano disposti in strati, o in filoni, sogliono essere questi di poca estensione, ed ingannevoli; variando col variare delle pietre e materie, tra quali sono incastrati, il metallurgo allegro allo scoprimento di simili masse, e vene, che spesso sembrano molto promettere, ben presto si trova deluso, e moltissimo s’attrista, veggendo che l’incontro d’altra specie di pietre, o dì terre, o d’altri fossili, più non gli offre che una vena poverissima, o pregna soltanto d’inutili minerali, o diventa affatto sterile, o che tale maligna diversificazione glie la fa anche svanire interamente, senza che più ne scopra la minima traccia.

L’idea che molti hanno ancora esser le miniere formate a guisa d’albari, che sorgendo col loro fusto dalle cupe viscere del nostro globo, s’alzino verso la superficie de’ monti, spargendo in varie parti i loro rami, è una delle tante chìmere immaginate da quei filosofanti che avendo voluto, o dovuto farla da maestri, senza avere contemplati con attenzione gli assetti della natura sopra i propri luoghi, e privi della tanto necessaria esperienza, hanno oscurata ed imbrogliata la filosofia, anziché rischiararla. Le numerose escavazioni minerali, tanto antiche che moderne, da me osservate in vari paesi, e quelle medesime ch’io ho fatto eseguire, m’hanno dimostrativamente convinto della falsità, e del ridicolo di detta opinione, volgarmente creduta.

Se convenisse nella presente occasione d’entrare in una discussione mineralogica, non mi mancherebbero certamente, né esempi, né fondate ragioni in confermazione della suddetta verità; la quale, per ciò che riguarda le miniere mercuriali di Silvena, è quanto basta, dimostrata da quanto si sa esservi fino ad ora seguito. Imperciocché attestano quei lavoratori, ed il vecchio Parroco del luogo, che mai la materia mercuriale, da essi tutti ben conosciuta, non si è trovata a filoni, o con qualche altra regolarità; ma sempre (come dissi) vagamente sparsa, anche nelle vene della sopradescritta marna vetriolica, sulfureo-bitumi nosa, comune sua matrice.

L’inordinata dispersione de’ suoi nidi, per nessun esterno indizio apparenti, ha necessitati tutti quelli, che in vari tempi, ne hanno voluto andare in traccia, di fare, scavando a caso, or in uno, or in altro sito, i loro tentativi, talvolta senza effetto, e sempre con poca utilità; poiché anche il suddetto Mattei, quello che vi lavorò con più intendimento, e con migliore successo d’ogni altro, ne venne a ritrarre poco più delle spese.

Dicono che la miniera più ricca, e d’ammassi più copiosi, sempre si è trovata vicino alla superficie, specialmente sotto le grosse pietre solitarie, ed accidentali, dal che argomento che il mercurio e zolfo costituenti il cinabro nativo di quei luoghi, o almeno i loro elementi, sieno stati alzati dalla profonda regione della terra per forza de’ fuochi sotterranei, che ancora si veggono accesi, da quali sieno stati sublimati fino presso la superficiale corteccia, dove, non trovando più tanto fuoco, si sieno addensati, in modo analogo alla chimica formazione del cinabro artificiale.

Questo almeno è ciò che ho osservato succedere nella concrezione di quei crostoni di zolfo, che in diversi luoghi di questo Granducato formansi, e, dopo cavati, in ogni certo periodo d’anni si rinnovellano, intorno ai lagoni ed altre acque bollenti, ed ai fumacchi, e moffette o putizze che ho visitato in più siti, dove le sulfuree esalazioni si vanno nel modo predetto arrestando, in parti nelli pietrosi e terrei materiali confinanti coll’ambiente aereo, e ricombinandosi in vera genuina sulfurea sostanza. Non mancano neppure esempi visibili e chiarissimi in alcuni de luoghi suddetti d’un procedere della natura analogo al preaccennato, nella formazione del vetriuolo e dell’allume; avendo io stesso osservato, specialmente agli orridi, bollentissimi lagoni di Monterotondo (Marittimo), che l’acido sulfureo, dove vi esala nudo e spogliato dal principio flogistico, col quale è unito, resta fissato in vero zolfo, si è combinato in vero vetriolo, in quei siti, ne’ quali ha potuto attaccarsi al ferro e disciorlo; ed in minerale alluminoso, dove ha incontrato materia atta a servire di base al medesimo sale. Per tutte le sopra esposte considerazioni, Ill.mo Nobile Sig. Auditore Generale, io sono di fermo parere, che il proseguimento delle sopraddette scavazioni minerali non sia mai per apportare utilità, ma sempre maggiori perdite: e perciò non ho mancato d’avvertire il Sig. conte Liberati, che sarà ottimo consiglio, per le già addotte, e per altre riflessioni, di totalmente abbandonarie.

L’indole vaga di tale miniera mercuriale, il sito incerto, e da niente indicato de’ suoi nidi, la scarsa quantità che ne ha dato un lavoro di molti anni, ed il sopra manifestato, a mio credere, ragionevolissimo sospetto, che sia una delle miniere superficiali, pochissimo approfondantisi: sono cose, che non danno speranza alcuna di migliore successo.

Oltre a tutto ciò, la pessima costituzione del luogo, tutto, come dissi, scompaginato, e composto di materie screpolate, frante e pochissimo coerenti, forma al proseguimento gravissimi ostacoli. Voler continuare, a cave aperte, come si è fatto nei tempi passati, e come sogliono cavarsi le pietre alluminose, e come cavasi il ferro nell’Elba, sarebbe esporsi a spese grandissime, per l’enorme quantità di materie inutili, che dovrebbero cavarsi ed asportarsi.

Tale maniera di cave non può essere adottata che per quei minerali, che, essendo in grossissimi ammassi, occupano porzioni insigni de’ monti: e che si scoprono nella loro superficie, o poco sotto alla medesima; come appunto s’aveva nella suddetta antichissima e stupenda miniera dell’Elba “insula inexaustis caiijbus generosa metallis”, e nella maggior parte delle miniere d’allume e marmoriere e pietraje d'Italia, e d’altre regioni, nelle quali tutto o quasi tutto l’estratto dalla terra, con larghissimi escavamenti riesce profittevole.

Non sarebbe neppure agevole d’andare in traccia di detto argento vivo col mezzo (usitatissimo nelle miniere metallurgiche) di pozzi, di gallerie, e d’altri simili sotterranei lavori; poiché, quando quelli non si andassero sempre fortissimamente armando con sostruzioni di grossi legni e bene connessi, li canopi, o cavatori sarebbero continuamente in pericolo di rimanere sepolti sotto le tane. Le spese rilevantissime, che perciò fare sarebbero necessarie, verrebbono, per mio sentimento, assai male impiegate, in una miniera, stata fino ad ora così povera, così scarsa ed incerta; senza dire delle somme difficoltà e pericoli che s’incontrano in questi tali scavamenti, che non si possono avanzare un mezzo passo, senza tosto doverli armare. Voglio credere che fatto riflesso a quanto ho sopra esposto, si vorrà approfittare dei miei sinceri consigli, cessando dallo spendere in un lavoro che non dà veruna speranza di futura utilità.

Se tanto spesso le vene minerali, anche di quei monti, che sembrano più omogenei, ed i più vantaggiosamente ordinati; e quei strati e filoni, che a primo incontro trovandosi ubertosi, e coi loro canali visibilmente estesi per lunghissimi tratti, danno ragionevole speranza di dovizia, e di perennità; e se tanto incerto è l’esito dell’imprese minerali, che frequentemente avvera de’ mineristi antico detto: “quod accipiunt non recipiunt, quod habent proijciunt”, quanto non deve disanimare la suddetta miniera mercuriale con tante sue numerate imperfezioni».

Solo alla distanza di un secolo, il celebre geologo avrebbe potuto e dovuto necessariamente riconoscere quanto i suoi pronostici, le sue nere profezie sarebbero risultate fallaci.

Ed il fatto mi induce a considerare come anche i più grandi ingegni possano cadere in gravi errori o indurre altri in errore, quando mettano incondizionatamente le proprie capacità al servizio di meschini interessi, o si rendano schiavi di esigenze egoistiche, sotto l’influsso di scopi che esulano dalla ricerca scientifica vera e propria.

L’Arduino rimase invece entusiasta del sistema di distillazione del minerale cinabrifero instaurato in Selvena già una ventina d’anni avanti dal chimico Stefano Mattioli (an. 1738) e rimasto inalterato per tanto tempo. Il famoso geologo aveva potuto osservare fino allora solo le «goffe» distillerie di Levigliani presso Seravezza (Lucca), evidente segno della sua poca esperienza in fatto di miniere cinabrifere, e le errate previsioni confermano tale inesperienza.

Oltre la dettagliata descrizione del forno di torrefazione, che riporto per intero, l’Arduino redasse anche un disegno dello stesso, ma non risulta allegato alle carte del fondo da cui ho tratto lo scritto.

«Altro non rimane a dire in questo proposito, se non se sopra i due forni per distillare l’argento vivo, e separano dalla sua matrice, che ho con piacere osservato nel Palazzo di Selvena, ammirando l’ingegno del sopradetto chimico Mattei, dal quale furono maestrevolmente edificati.

Sono essi fabbricati di quella specie di granito, detto peperino, pietra o piuttosto lava dell’alta vicina Montagna di Santa Fiora, che, colli celeberrimi naturalisti Micheli e Targioni-Tozzetti, credo uno dei vulcani estinti, in tempi rimotissimi ed immemorabili, per quelle stesse osservazioni da me medesimo rifatte sopra luogo, dottamente scritte dal lodato sig. Targioni nelle Relazioni de’ suoi viaggi per la Toscana, piene di lumi più interessanti per la scienza naturale, e per la istoria fisica della Terra.

La natura singolare del peperino di resistere non solo validamente al fuoco, senza fondersi né calcinarsi, né fendersi, ma anche d’essere riducibile con facile lavoro di scarpelli, in tavole così sottili, e con incastri e commettiture, quanto se fossero di legno, facilitò di molto al Mattei l’esecuzione di sua bellissima idea.

Imitano essi forni, in qualche parte, la forma delle fornaci da vetro, nell’apertura al centro del forno, per la quale entra la fiamma nella soprapposta cavità, in cui opera la distillazione: e nella figura rotonda della medesima cavità, che però non ha la forma arcuata, ma in modo di cupola conica molto ottusa.

Vi rassomigliano pure coll’essere esternamente cilindrici dal piano del pavimento della stanza fino all’altezza di circa cinque piedi veneti (circa m. 3,50); da dove vanno poi a terminare conicamente in acuto come la loro cavità, o sia ventre del forno. Dentro esso ventre sta collocata in ciascuno una specie di grandissima storta, capace di parecchie centinaia di minerale alla fiata (per ciascuna volta), composta tutta di tavolette di peperino, del quale sono detti forni interamente formati, non più grosse di circa un’oncia del piede suddetto (cioè di m. 0,05 di spessore); tutte esattamente insieme incastrate e connesse, e benissimo stuccate con quella terra bianca, sommamente apira (refrattaria al fuoco), di detta montagna di Santa Fiora, di cui fansi a Roma, ed altrove i croggiuli per fondervi i metalli.

Tale storta o cornuta distillatoria rassomiglia molto ad un forno da pane di mediocre capacità; essendo il corpo della medesima rotondo, ed il suo fondo piano; ed avendo, come quello, una bocca di grandezza sufficiente da potervi comodamente introdurre, con pala di ferro, il minerale d’argento vivo, e da poternelo estrarre, dopo che il suo metallo a forza di fuoco ne sia uscito.

La sua volta s’erge a modo di cilindro cavo fino all’altezza di poco più d’un piede (circa m. 0,06), donde poi si va in forma conica stringendo fino alla sommità della cupola del forno, dalla quale esce in figura di tubo, che tosto incurvandosi e piegando ad uno de’ lati della fornace, vi scende obliquamente, e va a terminare dentro l’acqua, ivi contenuta dentro un vaso assai capace fatto di terracotta e vitriata, collocato in distanza di circa sei piedi dal forno (circa m. 4) per recipiente del mercurio. Il tubo stesso, che serve di collo e di rostro alla gran storta di detti forni, è formato di più pezzi, come alludelli di terra cotta e vitriata, l’uno dentro l’altro quanto basta inseriti, benissimo con luto (specie di cemento) steccati, e sostenuti con pilastri di muro, e principiando dalla sommità della storta col foro di circa ott’once (cm. 40) di diametro, va gradatamente stringendo tanto che, dove termina, è ridotto il foro stesso al diametro di poco più di quattr’once. Sostentate sono, dette storte o gran vasi distillatori, sopra il piano della cavità de’ forni, con pilastrini di peperino, all’altezza di poco più di un piede; e tutto intorno, tra esse e la volta d’esse cavità (a riserva della loro bocca, colla quale stanno connesse coll’estrema parete delle fornaci) vi resta uno spazio vacuo fino presso alla sommità della cupola, in modo tale che la fiamma percuotendo sotto il fondo d’esse storte, si divide, passando tra gl’interstizi de’ pilastrini suddetti, e circola intorno alle medesime, coll’ajuto d’alcuni sfiati esistenti appresso la cima delle cupole, e tutto fortissimamente riscalda.

Per separare l’argento vivo dalla sua terra, e dal zolfo, che lo tiene legato sotto la forma di cinabro, introducono la materia nelle dette storte, in quantità conveniente a poterne fare perfetta distillazione; ne chiudono con porta di ferro, e con ottimo luto esattissimamente la bocca; e vi fanno gagliardo fuoco, senza intermittenza.

Così continuando, tutto l’interno del forno ed il gran vaso distillatorio, s'infuoca, e la materia in esso contenuta talmente si riscalda, che l’argento vivo, di tanto fuoco impaziente, fugge, sublimandosi, e presa la via del suddetto tubo discende e cade nell’acqua contenuta nel recipiente, nella quale la bocca di detto tubo si tiene immersa, affinché esso fluido fugacissimo metallo, cacciato dal fuoco, per l’aria esalando, non si disperda. Il zolfo che se ne fosse da qualche mezzo trattenuto, lo seguirebbe, tenendolo sempre vincolato e mnascherato sotto la figura cinabrina, trova i ceppi nella stessa terrea matrice, che essendo, come ho già detto, di natura marnosa, cioè calcaria, o sia assorbente, seco lo trattiene, per legge di maggiore affinità, liberando il mercurio dai suoi legami. Terminata una distillazione, aprono la bocca della gran storta; ne cavano la terra, spogliata dell’argento vivo, e riponendone di nuova, continuano a procedere nel modo indicato; così facendo fino a che tutto il minerale, pronto alla separazione, abbia dato il contenuto metallo.

Quanto mi parve goffo, e male ordinato il grandissimo forno, fatto da certo francese alle miniere d’argento vivo di Levigliani alle Alpi Appennine, dette le Panie, imminenti a Serravezza, altrettanto ingegnoso, e bene inteso mi è sembrato questo, semplice, e d’uso facile ed espedito. Quello: pareva veramente una fornace da embrici e mattoni, ed era talmente male appropriato alla distillazione del mercurio che intesi non essersene ottenuta neppure una goccia da quantità assai grande di pietre mercuriali; quantunque contenenti detto metallo, per la maggior parte, sotto la sua forma nativa e purissima, di cui io stesso ne ho trovato sul luogo, dentro le cieche piccole cavità di quella selce candida, oggi conosciuta sotto il nome di quarzo, venutaci di Germania nella quale viddi pure del cinabro nativo.

Insomma i due forni di Silvena, l’uno all’altro in tutto simili, mi sono parsi così eccellenti, che ne ho formato sopralluogo il disegno; tanto per potermene servire in qualche occorrenza, quanto per poterne forse dare al pubblico esatta idea, a beneficio di quelli, che fossero in caso di poterli addottare»



3. La visita di Giorgio Santi


Verso la chiusura del sec. XVIII, un altro insigne naturalista visitò i nostri territori. Non lasciò inesplorato un palmo di terra, di tutto si occupò: flora, fauna, minerologia, paleontologia, ogni caso descrivendo ed annotando con chiarezza mirabile in volumi, che non soltanto allora ebbero successo, ma anche oggi si possono leggere con vivo interesse

«Egli fu l’ultimo che scrisse intorno alle miniere di mercurio nel secolo decorso, sec. XVIII»

Da lui sappiamo che la fabbrica del vetriolo verde, presso il fosso Canala di Selvena, è ormai «inattiva, trasandata ed abbandonata. Causa di ciò è il ravvilimento di questa merce, ma più ancora la mancanza di spaccio in questo luogo fuor di mano, e di difficile accesso, onde il prezzo, che si ritrarrebbe dal vetriolo in concorrenza di altre simili fabbriche, non cuoprirebbe le spese».

Trova invece ancora in attività le cave di cinabro, ma sembra quasi più per soddisfazione o per arrotondamento delle entrate a beneficio dell’amministratore della contea, Tommaso Luciani di Santa Fiora, che per un investimento redditizio da parte della casata feudataria Sforza-Cesarini.

«Passammo quindi alle cave del cinabro, ossia del mercurio. Sono esse su per il poggio (Paulorio), scavate poco meno che a fior di terra, senza pozzi, senza gallerie, e con sì poche braccia, che il lavoro era veramente piccolissimo. Soli tre uomini, e questi ancor non sempre, vi lavoravano, piuttosto grattando, che scavando la miniera, quando vi fummo noi».

Ho riportato precedentemente la descrizione che il Santi, proveniente dall’Università di Pisa, fece della tecnica distillatoria del cinabro.

Dalla descrizione del forno è facile riconoscere quanto misero sia stato il progresso avvenuto nel sistema di decozione, rispetto a quello narrato dall’Arduino.

Sembra anzi che i forni abbiano smarrito la perfetta funzionalità lodata appena una quarantina d’anni avanti, e lo stato di stanchezza non sia stato in alcun modo rinvigorito per esplicare a pieno il loro compito.

Tutta l’apparecchiatura risulta ancora rudimentale.

La parte inferiore è costituita sempre dalle lastre di peperino, proveniente da Santa Fiora, che bene resistono alla potenza del fuoco. La parte superiore invece, formata da piastre refrattarie, raccoglie i vapori mercuriali e li convoglia n un lungo tubo o storta, che affoga in un ampio catino in terracotta contenente acqua. La differenza notevole consiste nella sostituzione dell’ultima storta con in tubo a tre bocche, di cui una è innestata alla condotta del vapore, l’altra, a centrale, appozza nell’acqua della vasca e la terza, in corrispondenza della lunghezza della tubatura, rimane costantemente chiusa.

Si apre solo dopo avvenuta ogni distillazione, per ripulire ed alleggerire, con un apposito fruciandolo, la tubazione dalle incrostazioni e dalla feccia nera delle distillazioni. Seguono una serie di consigli e di suggerimenti, che il Santi indica per un maggiore perfezionamento dei mezzi di distillazione, per una resa maggiore del cinabro e per la difesa della salute degli addetti ai lavori.

È risaputo infatti come i vapori mercuriali siano quanto mai micidiali per l’organismo umano ed è questa la prima volta che riscontro un essere umano mostrar riguardi e preoccupazioni per la vita dei propri simili minacciata dal lavoro.

Il prof. Santi raccolse nei dintorni di Selvena ben trentadue campioni di minerali diversi, e forse più ne avrebbe collezionati se la guida, che lo accompagnava, glielo avesse consentito. «lo solea da qualche tempo lasciare quanto più si potea, scosso (libero, cioè privo di carico) l’uomo, che ci guidava, perché mi ero accorto, che quando noi caricavamo alquanto di minerali la guida, ei non si curava troppo di condurci in luoghi, ove potessimo trovare oggetti da raccogliervi».

La lunga vacanza, che si verificò proprio alla fine del ‘700 fino ai primi del secolo scorso, determinata maggiormente dalla liquidazione fondiaria della vecchia contea, adombrò perfino il ricordo di queste ultime vicende. Dovevano passare ancora una cinquantina d’anni perché la ricerca mineraria riprendesse con nuovo vigore ed i mezzi di sfruttamento artigianali impiegati dovessero assurgere a vere strutture industriali.

Fonte: Castell'Azzara e il suo territorio – Memorie storiche Giovanni Battista Vicarelli

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