L’indagine scientifica sotto il governo dei
Lorena
Il Settecento può, senza paura di
sbagliare, considerarsi il periodo d’oro delle nostre zone. Non
tanto per l’ansia di progresso, che pervase le popolazioni, per
l’avvio all’emancipazione terriera perseguita dai Lorenesi, per
secoli desiderata e richiesta da tutti gli abitanti della montagna,
ma soprattutto per quello spirito di ricerca, quell’aspirazione
alla scoperta, che fecero i nostri luoghi meta appetita di studiosi
in ogni branca del sapere: geologi, mineralisti, entomologi,
botanici.
Un vero risveglio scientifico, forse
dovuto al nuovo movimento illuministico, che con la bufera
napoleonica avviluppò tutta quanta l’Europa, e che investì in
pieno l'Italia e le nostre zone, per la diffusione che ebbero gli
scritti di eminenti studiosi toscani come il Micheli, il
Targioni-Tozzetti, il Santi, il Repetti.
Sembra veramente che nel Settecento e
agli albori dell’Ottocento, il Monte Amiata abbia funzionato da
faro, da calamita anzi, nella indagine scientifica: da Firenze, da
Pisa, da Lucca, da Roma scienziati di fama mondiale si mossero per
studiare il suolo, e non solo superficialmente, per analizzare le
acque, e non solo le potabili, per collezionare erbe, e non solo le
medicinali.
Non passarono inosservati né la
carlina piumosa, «i fiori della quale gli abitatori del paese
appendono alle porte di casa, perché chiudendosi danno segno di
vicina pioggia, ed aprendosi di vaga serenità», né i «gustosissimi
e profumatissimi prugnoli», all’occhio attento del botanico
Micheli, che dal 22 maggio al 21 giugno del 1733 non fece che
aggirarsi per le campagne e per i
boschi delle varie comunità
dell’Amiata, stendendo poi una minutissima relazione, pubblicata in
seguito dal suo non meno illustre scolaro Giovanni Targioni-Tozzetti.
E non si limitò alle sole ricerche
botaniche e alle classificazioni minerali, il celebre naturalista, ma
seppe creare un clima d’interesse, un tono d’indagine per ogni
cosa, che si protrasse ancora per qualche anno in coloro che lo
avvicinarono. E del 1734 infatti, cioè dell’anno dopo la sua
escursione nei paesi dell’Amiata, la seguente lettera del dott.
Giuseppe Maria Gualmi medico a Piancastagnaio, diretta allo stesso
Pier Antonio Micheli: «Per mezzo del ministro di questo signor
Marchese (Bourbon del Monte) che fu costì a Firenze per le feste di
S. Giovanni, inviai a V.S. un pezzo intero di una libbra (gr. 330)
del noto cinabro con una mia lettera, e non vedendo finora nessun
riscontro di tal cosa, mi muovo a darlene tal notizia, a ciò almeno
sappia che l’ho servita per quanto mi è stato finora permesso.
Unita al detto cinabro vi era un pezzetto di altra pietra carica, per
quanto si crede, di antimonio e ne desiderava qualche contezza di
questo pure. Cotesto Signor Marchese del Monte mi suppongo avrà da
V.S. ricevuta la dovuta relazione intorno al detto cinabro, ma
bramerebbe da me, per quanto mi accenna, la certezza della miniera.
Questa non può aversi mai, senza lo
scasso di una casa ad uso di podere di padronato dei signori Benci.
Però stimerei necessario che V.S. fosse qui di persona con ordine di
Corte, e col peso di risarcirne ogni danno in caso non trovisi la
miniera, altrimenti non so come potrà andarsi in traccia della
medesima. Si contenti in tal proposito di sapere che il Duca di Santa
Fiora mandò da Roma un mineralista per osservare se nella detta
contea vi erano miniere, e nel mese di giugno e luglio sonosi là
fatte cavare, per quanto mi vien detto, in un luogo non lontano da
qui cinque miglia, 20 mila libbre (circa q. 65) di antimonio, senza
il cinabro e mercurio, che vi è in gran copia.
Se ne tornò a Roma, e viene ora alla
fine del corrente (mese) per seguitare la cava della miniera. Questo
si chiama operare! lo mi ci voglio portare subito che saprò che
lavorano, per osservare la copia di detta miniera, e le ne darò
contezza distinta.
Se il Signor Marchese vorrà spendere
come fa il Duca di Santafiora, son certo che qui troverà molto di
buono.
Me ne rimetto sempre al di lei
purgatissimo intendimento, acciò in caso di abboccamento, tratti
V.S. tale affare con quel modo che le parrà più convenevole, mentre
ansioso de’ suoi pregiati comandi resto con dirmi Devot.mo, obb.mo
servitor vero Giuseppe Maria Gualmi» (Piano, 6 settembre 1734).
Vediamo così localizzate, nella
lettera riportata, le due zone, che circa cento anni dopo avrebbero
ospitato gli stabilimenti minerari più importanti della vecchia
contea di Santa Fiora: quella presso il fosso Solforate e l’altra
presso il fosso Canala, prossimo a Selvena, detta in seguito
«Morone». Ma non voglio lasciar credere che solo nel ‘700 si
venisse a conoscenza dei giacimenti cinabriferi ed antimoniali.
Trascurando gli scavi delle epoche
primordiali , comprovati da numerosi reperti archeologici, catalogati
con ogni cura nel museo «Pigorini» di Roma, in quello
«Chigi-Zondadari» di Siena ed in quello di Antropologia e di
Etnologia dell’Università di Firenze (coltelli e cuspidi in selce,
picconi e mazzuoli di pietra, accette di bronzo, ritrovati tutti in
antichissime gallerie del Cornacchino, del Siele e del Morone) ,
voglio appena accennare alle attenzioni, alle cure prodigate dagli
Aldobrandeschi per la difesa delle miniere esistenti nel loro
vastissimo territorio, di cui la nostra zona rappresentava la punta
più alta.
Siamo già ai tempi, in cui i metalli
son divenuti troppo preziosi per non risvegliare l’avidità, la
cupidigia della ricerca.
Così accanto alla copiosa vena
d’argento, che i conti palatini possedevano presso il castello di
Scerpena, poco sotto Manciano, per donazione di Federico
Barbarossa il 10 agosto 1164, con
diploma e bolla d’oro datata a Pavia vediamo affiancarsi quella di
Batignano e quella presso il castello di Tatti.
E dovettero risultare veramente
redditizie, se permisero alla nobile famiglia di batter moneta, in un
primo tempo nella zecca di Perugia e più tardi direttamente in Santa
Fiora. Le monetine, dette comunemente «provisini», come quelle del
Senato di Roma, si presentano ambedue a contorno fortemente
tranciato, slabbrato, in lega di biglione, ossia in argento di bassa
qualità. La prima «nel suo diritto ha intorno la iscrizione +
comes. P. AI. e la croce nel campo; e nel rovescio: + s.ca Flora
colla protome in mezzo della Santa, che porta nella sinistra un
piccolo vessillo della croce, e nella destra un fiore. Facile è la
spiegazione di questa leggenda. Nel diritto è scritto: Comes
Palatinus Aldobrandus, o meglio Aldobrandinus; e nel rovescio: Sancta
Flora».
La seconda moneta invece «ha nel
D.(iritto) in giro dopo una crocetta Comes D. A... nel campo una
croce in un circolo di perline; nel R.(etro) parimenti dopo una
crocetta la leggenda attorno “S.ca Flora”. Questa preziosa
moneta, che è di bassa lega, è attualmente posseduta dal molto Rev.
Canonico D. Antonio Mazzetti di Chiusi. Per la scoperta di questo
nummo viene ad aggiungersi una nuova officina monetaria a quelle già
conosciute della Toscana».
Dalla relazione interessantissima di un
antico e sconosciuto naturalista senese, Simone di messer Jacomo
Tondi, che nel 1334 ebbe l’incarico, dal prudente governo dei Nove,
di visitare lo Stato della Repubblica di Siena per corredarlo di
nuove strade, per provvedere al risarcimento dei ponti, a costruirne
di nuovi, per impiantar fontane, ove ce ne fosse bisogno, sembrerebbe
si potesse localizzare, anche in Selvena, una miniera di argento.
Ma penso si tratti di un errore, anzi
di una omissione: sarebbe, a mio giudizio, mancante l’aggettivo
«vivo», argento vivo, come difatti era chiamato anche allora il
mercurio. Rimane il fatto però che sia nell’atto divisionale del
1216 sia in quello più tardivo del 1274, le miniere di Selvena
vengono, dai due notari, chiamate argentiere, cioè miniere o cave
d’argento, senza alcun altro appellativo.
Vero è che se abbastanza numerosi sono
i documenti, che attestano l’esistenza antichissima delle cave di
cinabro, nella nostra zona, nessun documento invece precisa la
tecnica di estrazione e di decozione.
La prima poi non doveva presentarsi
solo a cava aperta, ma consistere anche in gallerie ed in pozzi, per
quanto non molto profondi. Certo che l’ignoranza della polvere da
mine, la inesistenza delle macchine per l’elevazione e l’estrazione
delle acque, dovettero costituire ostacoli, a volte insormontabili,
per le persone addette ai lavori.
L’arte mineraria, in quell’epoca,
si riduceva quindi all’applicazione delle sole braccia umane;
poggiava esclusivamente sullo sforzo di poveri esseri, che lavoravano
in mezzo a mille stenti e a mille privazioni.
Del resto minimo doveva essere il
consumo e conseguentemente limitatissima la richiesta del mercurio
vero e proprio; semmai maggior pratica trovava il solfuro di
mercurio, ossia il cinabro nativo, come colorante e come medicamento,
per quanto da tutti si ritenesse pericolosissimo.
Anche sul metodo adottato per la
decozione, per la calcinazione del minerale, bisogna giungere alla
fine del Quattrocento ed attingere alla «Pirotecnia» del senese
Vannuccio Biringucci, per saperne qualcosa: è un metodo primordiale,
rudimentale, infantile direi. Grossi vasi di coccio a forma di pera,
invetriati internamente, per impedire l’evasione, la fuga dei
vapori mercuriali attraverso la porosità del testo, divisi a metà
trasversalmente, alloggiavano il minerale cinabrifero già ridotto in
polvere.
«Et sopra copreno di un dito o due di
cenere stacciata, et sopra col coperchio (cioè con l’altra metà
del vaso) serrano benissimo il vaso legandolo, over con qualche cosa
di grave che gli calchi sopra aggravandolo, et dipoi mette fuoco al
fornello, dove sono aiutati a star dentro detti vasi (in appositi
incavi) et così per sentire il caldo, il mercurio coce dalla minera
(minerale greggio), et saghe per voler evaporare, et percotendo nelli
coperchi, casca infra le ceneri, dalle quali lavandole o, con staccio
fitto, stacciandole, tutto si ricupera».
Lascio considerare se l’utile, che ne
derivava, avesse potuto compensare il tempo, il lavoro, e la
pazienza, anche in tempi, in cui questi tre fattori, oggi assurti
all’acme dell’interesse, eran calcolati meno che zero.
Comunque estinta la casata
Aldobrandesca, e successale nella sovranità della Contea (1439)
quella Sforzesca, gente, quest’ultima, dedita esclusivamente
all’arte bellica, la miniera di Selvena, che rappresentava maggiori
possibilità di sfruttamento in quei tempi, che il minerale si
rinveniva a fior di terra, cadde quasi in un abbandono nero.
Verso la fine del sec. XV, con la
calata di Carlo VIII (1494), prese campo anche in Italia una
terribile malattia venerea, il «mal francioso», detta poi, dal
poemetto del medico-poeta Girolamo Fracastoro, sifilide, che trovò
un relativo giovamento nelle cure mercuriali.
Da qui più attiva la richiesta del
mercurio e dei suoi derivati. E ancora sulla metà del Cinquecento
emergono documenti, che attestano una forte ripresa dei lavori
estrattivi.
Ma è cambiata la natura dello
scandaglio; poco si cura il mercurio. Nuovi impegni assillano gli
uomini, nuove esigenze stimolano l’attività di indagine.
L’invenzione della stampa richiede
antimonio e solfato di ferro; quello per i caratteri, questo per
l’inchiostro.
«Di tal miniere d’antimonio ne sono
ancora assai nel contado di Siena, infra le quali n’è una presso
la città di Massa di maremma, et un’altra grande appresso a
un’altra città chiamata Sovana, et questa li prattici
sperimentatori dicono esser la miglior che sappino. Tròvasene ancho
nel contado di Santa Fiora, presso a una terra chiamata Selvena, et
non solo in questi luochi, ch’io vi ho nominati, ma in molti
altri».
E più avanti: «Vetriolo se ne cava
ancora a Monte Amiata nel contado di Santa Fiora, e se ne caverebbe e
credo se ne sia già cavato, è opinione di alcuni, ancora del
bianco» .
È necessario precisare che per
vetriolo, nel nostro caso, dobbiamo intendere il solfato di ferro,
chiamato anche vetriolo verde o vetriolo romano.
Ce ne avverte un altro illustre
scienziato di S. Miniato, Michele Mercati, archiatra di Clemente
VIII, che visitò di persona i nostri territori nel 1590 e poté
osservare da vicino la lavorazione, allora efficientissima, in
Selvena. A lui si deve quell’opera monumentale e meravigliosa, che
purtroppo uscì postuma, guadagnandone però in pregio, in quanto
corredata ed ornata dalle stupende incisioni del celebre Lancisi, la
«Metallotheca Vaticana».
«Quello che da noi si chiama vetriolo
romano, lo abbiamo veduto produrre presso a poco in questo modo,
tanto nel territorio romano vicino a Bagnoregio, come nella contea di
S. Fiora presso il castello di Selvena, dove ogni giorno se ne fa una
grandissima quantità: difatti da qualsiasi parte scavi la terra,
trovi una vena di solfato ferroso, per cui a buon diritto fu chiamata
Selvena, cioè una Selva di vene; perché non solo vi sono filoni di
solfato di ferro, di zolfo, di pirite, di antimonio, ma anche di
molti altri metalli, di cui neanche la più piccola parte abbiamo
trovato in altri luoghi d'Italia, e neppure abbiamo saputo che altri
ne abbiano rinvenuti, Il minerale dunque, da cui si ricava il
vetriolo artificiale, è generalmente terroso, di color nero
all’esterno; internamente invece, quando si spacca o si secca,
appare qualche volta color della cenere, di sapore acre e
astringente; ritengo anzi che si tratti della melanterite degli
antichi, perché viene descritta con le stesse caratteristiche con
cui si presenta.
Si scava, questa, a volte in caverne
sotterranee o nelle cavità dei monti, a volte invece all’aria
aperta, in pozzi, non perché emetta esalazioni pestifere e letali, o
ne possieda all’interno (come erroneamente hanno ritenuto alcuni),
ma perché spesso, in alcuni luoghi, gli operai che scavano le
gallerie non vi possono lavorare; il vapore, che si sprigiona nelle
cavità sotterranee, non solo
è innocuo, ma anzi giova alla salute
del corpo, come insegna l’esperienza di ogni giorno.
Quando il materiale è stato messo a
nudo, su una vasta superficie, a cielo scoperto, o meglio sotto una
tettoia, perché il minerale non venga slavato dalle acque, o perché
al calore del sole non si risvegli il fuoco muto che internamente
arde, lo accumulano in lunghi mucchi. Infine con rastrelli e con
marre lo sgretolano, lo stritolano, lo trapanano fino a ridurlo in
polvere. E quanto più durerà questo lavorio, tanto più il
materiale sarà idoneo alla resa del vetriolo.
Fatto questo, costruiscono una vasca in
laterizi e calce, la stuccano e la fratazzano all’interno, intorno
intorno, la riempiono di acqua per mezzo di canali e vi gettano
dentro il materiale necessario; infine gli addetti al lavoro con pali
di legno (volgarmente chiamati tràgoli), mischiano la polvere
all’acqua, finché questa non abbia assorbito tutta la sostanza del
vetriolo. Lasciano quindi riposar bene, in modo che i materiali
recrementizi, si depositino al fondo.
Travasano allora l’acqua ben purgata
dal fecciume e ricca di solfato ferroso, per mezzo di una cannella
posta su uno dei lati della vasca, in un gran serbatoio, da dove
viene tolta quando si è schiarita ed ha acquistato un bel color
verde.
Costruite intanto delle vasche di
piombo, come caldaie, che abbiano sotto dei graticci di ferro per
accendere il fuoco, vi tramutano il liquido per mezzo di canali.
Accendono poi, sotto, un fuoco
gagliardo in modo che l’acqua soprastante bolla a ritrècine. Di
tanto in tanto gettano dentro l’acqua dei pezzi di ferro (gli altri
metalli non si liquefanno) in modo che poi il vetriolo sì rapprenda
con maggior peso e lucentezza. Quando il liquido sia ridotto a metà
o abbia assunto la densità del miele, vi immettono nuova acqua,
ripetendo l’operazione quattro o cinque volte nel giro di
ventiquattro ore.
Lasciano poi riposare l’acqua, dopo
averla travasata in altro recipiente, da cui viene tolta ancora
tiepida per essere versata in certe piccole tinozze fatte con dogame
di castagno.
In quindici giorni si rapprende e
diventa solfato di ferro, acquistando un’apparenza vitrea, di color
smeraldo verde o succeruleo, e, ridotto in pani, viene esportato dai
mercanti quasi in ogni parte d’Europa».
Anche la nuova richiesta però, dopo un
inizio veramente brillante, subì una gravissima crisi. La vendita
della sovranità della contea del 1633, le vicissitudine stesse della
famiglia, per le lotte intestine della casata Sforza-Cesarini, i
nuovi metodi di fabbricazione, anche se più costosi, ne furono la
causa principale.
Occorre giungere alla metà del ‘700
per veder riaperte le cave, per tanto tempo interrate dalle acque
piovane, ricoperte di rovi e vitalbe, impraticabili per gli spini
irsuti e per la rinata vegetazione spontanea inorgoglita per la terra
rimossa attorno alle vecchie escavazioni.
Fu ancora il vetriolo ad aprire la
nuova serie di lavori, ad esser richiesto e ricercato. Ce lo conferma
una lettera del 1 761, pubblicata nelle «Novelle letterarie
fiorentine», ed indirizzata al direttore della rivista, Giovanni
Lami.
«Castel del Piano 24 agosto 1761.
Non so se a V.S. sia stata mai data la
notizia che nel villaggio di Silvena della Contea di S. Fiora del
Sig. Duca Sforza Cesarini, dopo che egli ha fatto riaprire le Cave
del Vetriolo, le quali già per lungo tempo erano state trasandate, e
soltanto sapevasi per tradizione, che una volta vi esistevano; in
queste cave, quaranta canne incirca sotto terra, trovansi alcune Pine
di diversa grandezza, verdi, e strette, come se fossero state colte
allora dall’albero.
Ma dopo essere state elleno all’aria,
ed al caldo, si aprono di per se stesse; alcune quantunque così
aperte, il colore e la consistenza di Pina conservano, come quelle
delle nostre pinete; ed alcune rimangono come bruciate e friabili,
che facilmente si riducono quasi in polvere, ed il colore ci
dimostrano dello stesso vetriolo.
I curiosi naturalisti, da che ciò
provenga, giudicheranno, e per qual ragione o questo villaggio, ove
non sono vicine pinete di sorte alcuna, e neppure in altri paesi ad
esso circonvicini 20 ritrovinsi così sotterra le Pine. Mi viene
ancora riferito, che alcune di queste Pine sono state da un
eccellente naturalista viaggiatore inglese raccolte, e trasportate in
Inghilterra. Io ne conservo tre, le
quali volentieri unirei a questa mia
lettera, acciò si prendesse piacere di vederle. Quando ella creda,
esser questa mia scoperta interessante la Storia naturale della
nostra Toscana, ne faccia quell’uso, che giudicherà proprio».
2. Una sconcertante relazione di Giovanni Arduino
La miniera di mercurio invece
vivacchiava tra mille stenti.
Ceduta in affitto a vari pretendenti,
non getteva mai la rendita, che questi avevano presupposto in un
primo tempo, e non perché fosse scarsa di minerale da trattare, che
anzi se ne trovava anche a fior di terra, ma per la rudimentale
tecnica della escavazione e peggio per la inesperienza delle persone
addette alla torrefazione del minerale, e soprattutto per lo
scoramento che subentrava a confronto della cava del vetriolo.
Crollarono addirittura le speranze di
riapertura, di esplorazione e di partecipazione dopo l’inequivocabile
preconio di uno dei più dotti geologi, in quel tempo esistenti in
Italia: Giovanni Arduino.
Nel 757 infatti, richiesto
dall'auditore generale per la città e stato di Siena, sig. Giulio
Franchini Taviani, il quale era stato interessato allo scopo dal
conte Francesco Liberati di Parma, uno dei tanti a cui venne proposto
lo sfruttamento della miniera di Selvena dal duca Filippo
Sforza-Cesarini, anche, e soprattutto per sgravarsi dai molti
obblighi di natura finanziaria 23 contratti da lui o dai suoi
predecessori, emise lo strano verdetto.
L’Arduino dunque, partito da Siena
(era allora ex Sopraintendente e direttore della Società Minerale di
Livorno nelle Corti di Montieri e Beccheggiano, di Prata e di Massa
di Maremma»), in compagnia di due amici, il dott. Calluri ed il sig.
Gio. Filippo Tognoni, si recò in Santa Fiora.
«Partito poi da detto castello,
situato sopra un alto scoglio, collo stesso cavaliere (il conte
Francesco Liberati), con soprannominati miei compagni, e con varie
persone pratiche di questi luoghi silvestri, e montuosi, passai, per
maleggevoli viottoli, tra scoscesi dirupi e boscaglie a detta
Silvena.
Dessa è piccola villa consistente nel
Palazzo di detta ducale famiglia, ed in poche abitazioni, qua e là
sparse, con Chiesa parrocchiale: e corrisponde al proprio nome,
essendo situata tra vastissime, orride, disabitate selve, rese ancor
più tetre dallo squallore di quell’aria pestilente, che tutta la
Maremma Toscana sì gravemente infesta. Le cave sopradette sono in
poca distanza dal Palazzo, nel pendio, riguardante verso il Fiume
Fiora, della congerie di monti e poggi, che propagati dall’alta
montagna di Santa Fiora, s’estendono abbassandosi, e diramandosi,
verso la Romagna, alla volta del Lago di Bolsena.
Consistono esse in alcune scavazioni
fatte, in vari tempi, a cava aperta, cioè allo scoperto, senza
interrarsi con vie sotterranee nelle viscere della Terra, né a
pozzo, né a gallerie orizzontali. Una d’esse cave, la più
recente, e la più conservata da rovine, od interramenti è stata
fatta a spese del prelodato sig. conte Liberati, che ha dovuto
subentrare (come è noto) in luogo del precedente conduttore di tutta
la Contea, per preservare certe sue ragioni di molta importanza, ed a
pagare, in conseguenza, anche per dette miniere non piccolo canone.
Informatomi sopraluogo da questi stessi
che vi hanno lavorato, anche sotto un certo Mattei, chimico romano,
in quale quantità, dove, e come erano soliti di trovarvi il minerale
d’argento vivo; mi sono fatto ad esaminare la natura di quel monte,
e dei vari materiali, che lo compongono; la posizione, ordine, e
andamenti dei suoi strati, e delle vene, e fibre minerali, tra le
quali il mercurio più di frequente incontravano.
Varie sono le pietre, e le terre, dalle
quali esso monte è formato; alcune vitrescenti, e la massima parte
di natura marnosa, e calcarea, di color bianco sudicio variato qua e
là da colori smorti, prodotti da ocra da ferro, dal vetriolo, e da
sostanza bituminosa, minerali, che ivi non solo, ma anche in tutti
quei contorni fanno di sé mostra.
Le pietre, a riserva di certi grossi
massi, duri e consistenti, di sasso calcario, sparsi senza ordine,
nella superficie del terreno, sono tutte screpolate, frantumate e
pochissimo tra sé coerenti; anzi, in molti luoghi, si osservano
essere come da fuoco calcinate, e ridotte in sottilissima e bianca
sabbia. I loro strati, o filari, ordinariamente assai sottili, sono
confusamente, e senza alcuna costanza d’ordine, disposti in varie
direzioni. Alcuni vanno da Scirocco a Maestro (E.SE.-N.NO); altri
dall’Affrico al Greco (S.SO-N.NE) ed altri per altri della bussola
agrimensoria: e si profondono con differenti gradi di divergenza
dalla linea perpendicolare al centro della Terra.
Le vene principali però, tra le quali
l’argento vivo trovasi più di frequente che altrove, sono per lo
più estese dall’Affrico al Greco prossimamente, e si profondano
divergendo da detta perpendicolare, e declinano verso Maestro; ma le
fibre (così dette dai mineristi le vene sottilissime) incrocicchiano
per ogni verso tutti quei pietrosi, e terrei strati.
La materia contenuta nelle sopradette
vene e fibre minerali è una terra marnosa, sottilissima, liscia, e
al tatto untuosa come sapone, dove di color cenericcio chiaro, dove
scuro, approssimantesi al nero: e ripiena di ghiajottoli pietrosi di
varie forme e grossezze. Quanto più essa materia è nera, tanto più
si conosce abbondante di vetriolo, e di sostanza solfureo-bituminosa;
e tanto meno ne partecipa, quanto più al bianco s’avvicina.
Questa specie di marna, che alcuni
laboratori delle miniere di Germania chiamano Letten, e che non
solamente si vede nelle predette vene e fibre minerali, ma anche tra
strato e strato delle pietre di quel sito, e delle circonvicine
situazioni, è la matrice dell’argento vivo. Esso fluido metallo,
di cui ne ho veduto nel Palazzo suddetto, parecchie libre di
distillato e purificato, ed alquanto di misto ancora ed unito alla
sua terra; ma pochissimo tra le vene di dette cave, vi si trova
mineralizzato dal zolfo, col quale unito forma quel minerale
rubicondissimo, che dagli antichi minio era chiamato e da’ moderni
cinabro nativo.
Per ascerzione (asserzione) delle genti
che ci hanno lavorato, il minerale mercuriale non vi ha mai tenuto
ordine seguito da filone; ma si è sempre trovato qua e là sparso e
disseminato, in piccole masse, ed a spruzii anche minutissimi, e
spesso quasi invisibili tra la marna sopradescritta, senza alcuna
regolarità. Nè solamente così lo hanno sempre incontrato nelle
vene e fibre, e fra gli strati pietrosi nel luogo delle cave; ma
anche talvolta alla superficie della terra, sotto quei massi erranti
di pietre calcarie, de’ quali ho sopra fatto cenno, e nei
circonvicini campi coltivati. Ne scoprivano pure, di quando in
quando, ed io stesso ne ho trovato tra certa terra nera da cui
estraevasi non ha guarì il vetriolo; della quale ne ho veduta ivi
vicino grandissima copia, estendentesi sotto la superficie de’
campi, dove è anche vasto rovinato Edificio, che alla confezione
d’esso sale serviva, e che per lo stesso effetto, dicono, essere il
sig. Duca intenzionato di rifabbricarlo. Le osservazioni, da me fatte
in quelle cave, e sopra la faccia di quel paese (zona), non mi
lasciano luogo poter punto dubitare della verità delle accennate
osservazioni di quelle genti.
Non solamente nel sito delle miniere
mercuriali, ma anche all’intorno per vasto tratto, tutto quasi si
vede scompaginato, sconvolto, e disordinato dalla forza, a mio
credere, di antichi vulcani; de’ quali tutt’ora vi sono insigni
reliquie presso a delle cave, ed in altri luoghi non molto di là
lontani, vi esistono caverne, fenditure, e crateri spenti, esalanti
perenne cocente fumo, e fetidissimi aliti di zolfo.
Oltre alle molte pietre che sembrano
abbruciate e calcinate, molte anche ne osservai, che pajono fuse,
fuori vomitate dalle aperture vulcaniche e sparse confusamente sopra
quelle terre. Di quest’ultime specialmente ne sono in grandissimo
numero di sepolte confusamente tra la sopradetta terra vetriolina e
di sparse nei campi, che sono tra essa terra, e le cave dell’argento
vivo: ed hanno la figura di ciottolini di varie grandezze.
Nerissime esse sono, e molto dure, e
rassomigliano nel colore e nel peso alle scorie del ferro. Hanno
inoltre di singolare che, spezzandone, se ne trovano non poche
ripiene di bellissimi e nitidissimi lunghi raggi d’antimonio, tanto
puro, che dal di lui regolo artificiale non pare differente; come dai
pezzetti meco portati, per conservarli cogli altri miei fossili si
può rivelare.
L’accennata confusione che si ravvisa
nell’interna struttura di quello, e dei circonvicini monti, ed il
tumultuario accozzamento delle materie eterogenee, delle quali essi
constano, basterebbero a chiunque ha della metallurgia la necessaria
pratica e gode cognizioni della fisica sotterranea, a togliere la
speranza che nei medesimi si possano incontrare filoni, o vene
metalliche regolari, e di quella continuità ed estensione, che atta
sia a renderne l’escavazione lucrosa.
Mostra pur troppo di frequente, la
sperienza, che nei monti minerali di tale natura, i metalli, che vi
sono generati, o (se si voglia) raddunati, non vi serbano quasi
ordine alcuno, che servire possa di qualche buona strada per
rintracciarli. Comunemente vi esistono qua e là come a nidi, e non
scopribili che fortuitamente: e dove si siano disposti in strati, o
in filoni, sogliono essere questi di poca estensione, ed ingannevoli;
variando col variare delle pietre e materie, tra quali sono
incastrati, il metallurgo allegro allo scoprimento di simili masse, e
vene, che spesso sembrano molto promettere, ben presto si trova
deluso, e moltissimo s’attrista, veggendo che l’incontro d’altra
specie di pietre, o dì terre, o d’altri fossili, più non gli
offre che una vena poverissima, o pregna soltanto d’inutili
minerali, o diventa affatto sterile, o che tale maligna
diversificazione glie la fa anche svanire interamente, senza che più
ne scopra la minima traccia.
L’idea che molti hanno ancora esser
le miniere formate a guisa d’albari, che sorgendo col loro fusto
dalle cupe viscere del nostro globo, s’alzino verso la superficie
de’ monti, spargendo in varie parti i loro rami, è una delle tante
chìmere immaginate da quei filosofanti che avendo voluto, o dovuto
farla da maestri, senza avere contemplati con attenzione gli assetti
della natura sopra i propri luoghi, e privi della tanto necessaria
esperienza, hanno oscurata ed imbrogliata la filosofia, anziché
rischiararla. Le numerose escavazioni minerali, tanto antiche che
moderne, da me osservate in vari paesi, e quelle medesime ch’io ho
fatto eseguire, m’hanno dimostrativamente convinto della falsità,
e del ridicolo di detta opinione, volgarmente creduta.
Se convenisse nella presente occasione
d’entrare in una discussione mineralogica, non mi mancherebbero
certamente, né esempi, né fondate ragioni in confermazione della
suddetta verità; la quale, per ciò che riguarda le miniere
mercuriali di Silvena, è quanto basta, dimostrata da quanto si sa
esservi fino ad ora seguito. Imperciocché attestano quei lavoratori,
ed il vecchio Parroco del luogo, che mai la materia mercuriale, da
essi tutti ben conosciuta, non si è trovata a filoni, o con qualche
altra regolarità; ma sempre (come dissi) vagamente sparsa, anche
nelle vene della sopradescritta marna vetriolica, sulfureo-bitumi
nosa, comune sua matrice.
L’inordinata dispersione de’ suoi
nidi, per nessun esterno indizio apparenti, ha necessitati tutti
quelli, che in vari tempi, ne hanno voluto andare in traccia, di
fare, scavando a caso, or in uno, or in altro sito, i loro tentativi,
talvolta senza effetto, e sempre con poca utilità; poiché anche il
suddetto Mattei, quello che vi lavorò con più intendimento, e con
migliore successo d’ogni altro, ne venne a ritrarre poco più delle
spese.
Dicono che la miniera più ricca, e
d’ammassi più copiosi, sempre si è trovata vicino alla
superficie, specialmente sotto le grosse pietre solitarie, ed
accidentali, dal che argomento che il mercurio e zolfo costituenti il
cinabro nativo di quei luoghi, o almeno i loro elementi, sieno stati
alzati dalla profonda regione della terra per forza de’ fuochi
sotterranei, che ancora si veggono accesi, da quali sieno stati
sublimati fino presso la superficiale corteccia, dove, non trovando
più tanto fuoco, si sieno addensati, in modo analogo alla chimica
formazione del cinabro artificiale.
Questo almeno è ciò che ho osservato
succedere nella concrezione di quei crostoni di zolfo, che in diversi
luoghi di questo Granducato formansi, e, dopo cavati, in ogni certo
periodo d’anni si rinnovellano, intorno ai lagoni ed altre acque
bollenti, ed ai fumacchi, e moffette o putizze che ho visitato in più
siti, dove le sulfuree esalazioni si vanno nel modo predetto
arrestando, in parti nelli pietrosi e terrei materiali confinanti
coll’ambiente aereo, e ricombinandosi in vera genuina sulfurea
sostanza. Non mancano neppure esempi visibili e chiarissimi in alcuni
de luoghi suddetti d’un procedere della natura analogo al
preaccennato, nella formazione del vetriuolo e dell’allume; avendo
io stesso osservato, specialmente agli orridi, bollentissimi lagoni
di Monterotondo (Marittimo), che l’acido sulfureo, dove vi esala
nudo e spogliato dal principio flogistico, col quale è unito, resta
fissato in vero zolfo, si è combinato in vero vetriolo, in quei
siti, ne’ quali ha potuto attaccarsi al ferro e disciorlo; ed in
minerale alluminoso, dove ha incontrato materia atta a servire di
base al medesimo sale. Per tutte le sopra esposte considerazioni,
Ill.mo Nobile Sig. Auditore Generale, io sono di fermo parere, che il
proseguimento delle sopraddette scavazioni minerali non sia mai per
apportare utilità, ma sempre maggiori perdite: e perciò non ho
mancato d’avvertire il Sig. conte Liberati, che sarà ottimo
consiglio, per le già addotte, e per altre riflessioni, di
totalmente abbandonarie.
L’indole vaga di tale miniera
mercuriale, il sito incerto, e da niente indicato de’ suoi nidi, la
scarsa quantità che ne ha dato un lavoro di molti anni, ed il sopra
manifestato, a mio credere, ragionevolissimo sospetto, che sia una
delle miniere superficiali, pochissimo approfondantisi: sono cose,
che non danno speranza alcuna di migliore successo.
Oltre a tutto ciò, la pessima
costituzione del luogo, tutto, come dissi, scompaginato, e composto
di materie screpolate, frante e pochissimo coerenti, forma al
proseguimento gravissimi ostacoli. Voler continuare, a cave aperte,
come si è fatto nei tempi passati, e come sogliono cavarsi le pietre
alluminose, e come cavasi il ferro nell’Elba, sarebbe esporsi a
spese grandissime, per l’enorme quantità di materie inutili, che
dovrebbero cavarsi ed asportarsi.
Tale maniera di cave non può essere
adottata che per quei minerali, che, essendo in grossissimi ammassi,
occupano porzioni insigni de’ monti: e che si scoprono nella loro
superficie, o poco sotto alla medesima; come appunto s’aveva nella
suddetta antichissima e stupenda miniera dell’Elba “insula
inexaustis caiijbus generosa metallis”, e nella maggior parte delle
miniere d’allume e marmoriere e pietraje d'Italia, e d’altre
regioni, nelle quali tutto o quasi tutto l’estratto dalla terra,
con larghissimi escavamenti riesce profittevole.
Non sarebbe neppure agevole d’andare
in traccia di detto argento vivo col mezzo (usitatissimo nelle
miniere metallurgiche) di pozzi, di gallerie, e d’altri simili
sotterranei lavori; poiché, quando quelli non si andassero sempre
fortissimamente armando con sostruzioni di grossi legni e bene
connessi, li canopi, o cavatori sarebbero continuamente in pericolo
di rimanere sepolti sotto le tane. Le spese rilevantissime, che
perciò fare sarebbero necessarie, verrebbono, per mio sentimento,
assai male impiegate, in una miniera, stata fino ad ora così povera,
così scarsa ed incerta; senza dire delle somme difficoltà e
pericoli che s’incontrano in questi tali scavamenti, che non si
possono avanzare un mezzo passo, senza tosto doverli armare. Voglio
credere che fatto riflesso a quanto ho sopra esposto, si vorrà
approfittare dei miei sinceri consigli, cessando dallo spendere in un
lavoro che non dà veruna speranza di futura utilità.
Se tanto spesso le vene minerali, anche
di quei monti, che sembrano più omogenei, ed i più vantaggiosamente
ordinati; e quei strati e filoni, che a primo incontro trovandosi
ubertosi, e coi loro canali visibilmente estesi per lunghissimi
tratti, danno ragionevole speranza di dovizia, e di perennità; e se
tanto incerto è l’esito dell’imprese minerali, che
frequentemente avvera de’ mineristi antico detto: “quod accipiunt
non recipiunt, quod habent proijciunt”, quanto non deve disanimare
la suddetta miniera mercuriale con tante sue numerate imperfezioni».
Solo alla distanza di un secolo, il
celebre geologo avrebbe potuto e dovuto necessariamente riconoscere
quanto i suoi pronostici, le sue nere profezie sarebbero risultate
fallaci.
Ed il fatto mi induce a considerare
come anche i più grandi ingegni possano cadere in gravi errori o
indurre altri in errore, quando mettano incondizionatamente le
proprie capacità al servizio di meschini interessi, o si rendano
schiavi di esigenze egoistiche, sotto l’influsso di scopi che
esulano dalla ricerca scientifica vera e propria.
L’Arduino rimase invece entusiasta
del sistema di distillazione del minerale cinabrifero instaurato in
Selvena già una ventina d’anni avanti dal chimico Stefano Mattioli
(an. 1738) e rimasto inalterato per tanto tempo. Il famoso geologo
aveva potuto osservare fino allora solo le «goffe» distillerie di
Levigliani presso Seravezza (Lucca), evidente segno della sua poca
esperienza in fatto di miniere cinabrifere, e le errate previsioni
confermano tale inesperienza.
Oltre la dettagliata descrizione del
forno di torrefazione, che riporto per intero, l’Arduino redasse
anche un disegno dello stesso, ma non risulta allegato alle carte del
fondo da cui ho tratto lo scritto.
«Altro non rimane a dire in questo
proposito, se non se sopra i due forni per distillare l’argento
vivo, e separano dalla sua matrice, che ho con piacere osservato nel
Palazzo di Selvena, ammirando l’ingegno del sopradetto chimico
Mattei, dal quale furono maestrevolmente edificati.
Sono essi fabbricati di quella specie
di granito, detto peperino, pietra o piuttosto lava dell’alta
vicina Montagna di Santa Fiora, che, colli celeberrimi naturalisti
Micheli e Targioni-Tozzetti, credo uno dei vulcani estinti, in tempi
rimotissimi ed immemorabili, per quelle stesse osservazioni da me
medesimo rifatte sopra luogo, dottamente scritte dal lodato sig.
Targioni nelle Relazioni de’ suoi viaggi per la Toscana, piene di
lumi più interessanti per la scienza naturale, e per la istoria
fisica della Terra.
La natura singolare del peperino di
resistere non solo validamente al fuoco, senza fondersi né
calcinarsi, né fendersi, ma anche d’essere riducibile con facile
lavoro di scarpelli, in tavole così sottili, e con incastri e
commettiture, quanto se fossero di legno, facilitò di molto al
Mattei l’esecuzione di sua bellissima idea.
Imitano essi forni, in qualche parte,
la forma delle fornaci da vetro, nell’apertura al centro del forno,
per la quale entra la fiamma nella soprapposta cavità, in cui opera
la distillazione: e nella figura rotonda della medesima cavità, che
però non ha la forma arcuata, ma in modo di cupola conica molto
ottusa.
Vi rassomigliano pure coll’essere
esternamente cilindrici dal piano del pavimento della stanza fino
all’altezza di circa cinque piedi veneti (circa m. 3,50); da dove
vanno poi a terminare conicamente in acuto come la loro cavità, o
sia ventre del forno. Dentro esso ventre sta collocata in ciascuno
una specie di grandissima storta, capace di parecchie centinaia di
minerale alla fiata (per ciascuna volta), composta tutta di tavolette
di peperino, del quale sono detti forni interamente formati, non più
grosse di circa un’oncia del piede suddetto (cioè di m. 0,05 di
spessore); tutte esattamente insieme incastrate e connesse, e
benissimo stuccate con quella terra bianca, sommamente apira
(refrattaria al fuoco), di detta montagna di Santa Fiora, di cui
fansi a Roma, ed altrove i croggiuli per fondervi i metalli.
Tale storta o cornuta distillatoria
rassomiglia molto ad un forno da pane di mediocre capacità; essendo
il corpo della medesima rotondo, ed il suo fondo piano; ed avendo,
come quello, una bocca di grandezza sufficiente da potervi
comodamente introdurre, con pala di ferro, il minerale d’argento
vivo, e da poternelo estrarre, dopo che il suo metallo a forza di
fuoco ne sia uscito.
La sua volta s’erge a modo di
cilindro cavo fino all’altezza di poco più d’un piede (circa m.
0,06), donde poi si va in forma conica stringendo fino alla sommità
della cupola del forno, dalla quale esce in figura di tubo, che tosto
incurvandosi e piegando ad uno de’ lati della fornace, vi scende
obliquamente, e va a terminare dentro l’acqua, ivi contenuta dentro
un vaso assai capace fatto di terracotta e vitriata, collocato in
distanza di circa sei piedi dal forno (circa m. 4) per recipiente del
mercurio. Il tubo stesso, che serve di collo e di rostro alla gran
storta di detti forni, è formato di più pezzi, come alludelli di
terra cotta e vitriata, l’uno dentro l’altro quanto basta
inseriti, benissimo con luto (specie di cemento) steccati, e
sostenuti con pilastri di muro, e principiando dalla sommità della
storta col foro di circa ott’once (cm. 40) di diametro, va
gradatamente stringendo tanto che, dove termina, è ridotto il foro
stesso al diametro di poco più di quattr’once. Sostentate sono,
dette storte o gran vasi distillatori, sopra il piano della cavità
de’ forni, con pilastrini di peperino, all’altezza di poco più
di un piede; e tutto intorno, tra esse e la volta d’esse cavità (a
riserva della loro bocca, colla quale stanno connesse coll’estrema
parete delle fornaci) vi resta uno spazio vacuo fino presso alla
sommità della cupola, in modo tale che la fiamma percuotendo sotto
il fondo d’esse storte, si divide, passando tra gl’interstizi de’
pilastrini suddetti, e circola intorno alle medesime, coll’ajuto
d’alcuni sfiati esistenti appresso la cima delle cupole, e tutto
fortissimamente riscalda.
Per separare l’argento vivo dalla sua
terra, e dal zolfo, che lo tiene legato sotto la forma di cinabro,
introducono la materia nelle dette storte, in quantità conveniente a
poterne fare perfetta distillazione; ne chiudono con porta di ferro,
e con ottimo luto esattissimamente la bocca; e vi fanno gagliardo
fuoco, senza intermittenza.
Così continuando, tutto l’interno
del forno ed il gran vaso distillatorio, s'infuoca, e la materia in
esso contenuta talmente si riscalda, che l’argento vivo, di tanto
fuoco impaziente, fugge, sublimandosi, e presa la via del suddetto
tubo discende e cade nell’acqua contenuta nel recipiente, nella
quale la bocca di detto tubo si tiene immersa, affinché esso fluido
fugacissimo metallo, cacciato dal fuoco, per l’aria esalando, non
si disperda. Il zolfo che se ne fosse da qualche mezzo trattenuto, lo
seguirebbe, tenendolo sempre vincolato e mnascherato sotto la figura
cinabrina, trova i ceppi nella stessa terrea matrice, che essendo,
come ho già detto, di natura marnosa, cioè calcaria, o sia
assorbente, seco lo trattiene, per legge di maggiore affinità,
liberando il mercurio dai suoi legami. Terminata una distillazione,
aprono la bocca della gran storta; ne cavano la terra, spogliata
dell’argento vivo, e riponendone di nuova, continuano a procedere
nel modo indicato; così facendo fino a che tutto il minerale, pronto
alla separazione, abbia dato il contenuto metallo.
Quanto mi parve goffo, e male ordinato
il grandissimo forno, fatto da certo francese alle miniere d’argento
vivo di Levigliani alle Alpi Appennine, dette le Panie, imminenti a
Serravezza, altrettanto ingegnoso, e bene inteso mi è sembrato
questo, semplice, e d’uso facile ed espedito. Quello: pareva
veramente una fornace da embrici e mattoni, ed era talmente male
appropriato alla distillazione del mercurio che intesi non essersene
ottenuta neppure una goccia da quantità assai grande di pietre
mercuriali; quantunque contenenti detto metallo, per la maggior
parte, sotto la sua forma nativa e purissima, di cui io stesso ne ho
trovato sul luogo, dentro le cieche piccole cavità di quella selce
candida, oggi conosciuta sotto il nome di quarzo, venutaci di
Germania nella quale viddi pure del cinabro nativo.
Insomma i due forni di Silvena, l’uno
all’altro in tutto simili, mi sono parsi così eccellenti, che ne
ho formato sopralluogo il disegno; tanto per potermene servire in
qualche occorrenza, quanto per poterne forse dare al pubblico esatta
idea, a beneficio di quelli, che fossero in caso di poterli
addottare»
3. La visita di Giorgio Santi
Verso la chiusura del sec. XVIII, un
altro insigne naturalista visitò i nostri territori. Non lasciò
inesplorato un palmo di terra, di tutto si occupò: flora, fauna,
minerologia, paleontologia, ogni caso descrivendo ed annotando con
chiarezza mirabile in volumi, che non soltanto allora ebbero
successo, ma anche oggi si possono leggere con vivo interesse
«Egli fu l’ultimo che scrisse
intorno alle miniere di mercurio nel secolo decorso, sec. XVIII»
Da lui sappiamo che la fabbrica del
vetriolo verde, presso il fosso Canala di Selvena, è ormai
«inattiva, trasandata ed abbandonata. Causa di ciò è il
ravvilimento di questa merce, ma più ancora la mancanza di spaccio
in questo luogo fuor di mano, e di difficile accesso, onde il prezzo,
che si ritrarrebbe dal vetriolo in concorrenza di altre simili
fabbriche, non cuoprirebbe le spese».
Trova invece ancora in attività le
cave di cinabro, ma sembra quasi più per soddisfazione o per
arrotondamento delle entrate a beneficio dell’amministratore della
contea, Tommaso Luciani di Santa Fiora, che per un investimento
redditizio da parte della casata feudataria Sforza-Cesarini.
«Passammo quindi alle cave del
cinabro, ossia del mercurio. Sono esse su per il poggio (Paulorio),
scavate poco meno che a fior di terra, senza pozzi, senza gallerie, e
con sì poche braccia, che il lavoro era veramente piccolissimo. Soli
tre uomini, e questi ancor non sempre, vi lavoravano, piuttosto
grattando, che scavando la miniera, quando vi fummo noi».
Ho riportato precedentemente la
descrizione che il Santi, proveniente dall’Università di Pisa,
fece della tecnica distillatoria del cinabro.
Dalla descrizione del forno è facile
riconoscere quanto misero sia stato il progresso avvenuto nel sistema
di decozione, rispetto a quello narrato dall’Arduino.
Sembra anzi che i forni abbiano
smarrito la perfetta funzionalità lodata appena una quarantina
d’anni avanti, e lo stato di stanchezza non sia stato in alcun modo
rinvigorito per esplicare a pieno il loro compito.
Tutta l’apparecchiatura risulta
ancora rudimentale.
La parte inferiore è costituita sempre
dalle lastre di peperino, proveniente da Santa Fiora, che bene
resistono alla potenza del fuoco. La parte superiore invece, formata
da piastre refrattarie, raccoglie i vapori mercuriali e li convoglia
n un lungo tubo o storta, che affoga in un ampio catino in terracotta
contenente acqua. La differenza notevole consiste nella sostituzione
dell’ultima storta con in tubo a tre bocche, di cui una è
innestata alla condotta del vapore, l’altra, a centrale, appozza
nell’acqua della vasca e la terza, in corrispondenza della
lunghezza della tubatura, rimane costantemente chiusa.
Si apre solo dopo avvenuta ogni
distillazione, per ripulire ed alleggerire, con un apposito
fruciandolo, la tubazione dalle incrostazioni e dalla feccia nera
delle distillazioni. Seguono una serie di consigli e di suggerimenti,
che il Santi indica per un maggiore perfezionamento dei mezzi di
distillazione, per una resa maggiore del cinabro e per la difesa
della salute degli addetti ai lavori.
È risaputo infatti come i vapori
mercuriali siano quanto mai micidiali per l’organismo umano ed è
questa la prima volta che riscontro un essere umano mostrar riguardi
e preoccupazioni per la vita dei propri simili minacciata dal lavoro.
Il prof. Santi raccolse nei dintorni di
Selvena ben trentadue campioni di minerali diversi, e forse più ne
avrebbe collezionati se la guida, che lo accompagnava, glielo avesse
consentito. «lo solea da qualche tempo lasciare quanto più si
potea, scosso (libero, cioè privo di carico) l’uomo, che ci
guidava, perché mi ero accorto, che quando noi caricavamo alquanto
di minerali la guida, ei non si curava troppo di condurci in luoghi,
ove potessimo trovare oggetti da raccogliervi».
La lunga vacanza, che si verificò
proprio alla fine del ‘700 fino ai primi del secolo scorso,
determinata maggiormente dalla liquidazione fondiaria della vecchia
contea, adombrò perfino il ricordo di queste ultime vicende.
Dovevano passare ancora una cinquantina d’anni perché la ricerca
mineraria riprendesse con nuovo vigore ed i mezzi di sfruttamento
artigianali impiegati dovessero assurgere a vere strutture
industriali.
Fonte: Castell'Azzara e il suo territorio – Memorie storiche Giovanni Battista Vicarelli