1. L’impalcatura feudale creata da
Carlo Magno
La toponomastica, cioè lo studio dei
nomi dei diversi luoghi, si presenta a volte così attraente e
suggestiva, così semplice e suggestiva, da intrappolare e trarre in
errore chi a lei si affida ciecamente, chi si accontenta del
superficiale senza curarsi troppo di approfondire il problema.
Non che un’appropriata ricerca
etimologica sia da escludersi e da scartarsi completamente, ma
pervenire alla conclusione solo per tale strada, fidarsi solo di
questo esame per stabilire l’origine di una località, è
senz’altro un grave errore incompatibile per uno studioso serio e
coscienzioso.
È facile infatti comprendere come,
attraverso il tempo, il nome originario possa essere andato man mano
trasformandosi, abbia subito talvolta così profonde variazioni e
modifiche, derivate dalla pronuncia, dalla scrittura, dall’uso
insomma, tanto da significare l’opposto di quello che inizialmente
intendeva esprimere.
Sarebbe, semmai, più logico, sotto
certi aspetti, affidarsi al significato degli stemmi parlanti, dei
sigilli ragionati, sebbene anche questa non possa costituire una
prova inoppugnabile della legittimità del nome, in quanto,
generalmente, il blasone è nato dal nome stesso della località, ed
in epoca abbastanza recente.
Certo che non è cosa facile muoversi e
camminare per un sentiero aspro e spinoso, come quello rappresentato
dalle poche carte sopravvissute, dalle minime notizie avanzate e
scritte, per di più, in uno stile barbaro e contenzioso. Quale altra
luce infatti poteva trapelare e giungere fino a noi da quel periodo
nero, che corre dalle prime occupazioni barbariche fino all’anno
millesimo?
«Dopo le invasioni e le scorrerie
barbariche, al IX secolo, l'Italia porgeva di se uno spettacolo, che
non potrebbe raggiungersi con la mente, non che descrivere con le
parole.
Colluvie di razze e stirpi strane,
innesto selvaggio di lingue e costumi foresti, un cozzo orribile di
rabbia feroce tra vincitori e vinti di seconda e terza mano, tra
padroni, invasori, ospiti, pellegrini, terziatori, indigeni e
stranieri, nati o scesi al sacco del suolo italiano. Tutti erano
venali di lor privilegi e prerogative, e tradizioni e rapine.
Legislazioni saliche, ripuarie,
longobarde, bavare, alemanne mal definite e mal comprese, col diritto
romano non interamente dimenticato, formavano altrettante
cittadinanze fittizie nella medesima città, e altrettante società
nella medesima nazione e nel medesimo paese, tanto che diffinì molto
bene quel tempo chi scrisse che gli italiani erano compatrioti senza
essere concittadini»
Tale quadro, che corrisponde all'Italia
del 700, non cambiò affatto con la impalcatura feudale creata da
Carlo Magno. Si temette, anzi, alla sua morte (an. 814), che tutto
crollasse in una immensa e polverosa rovina. Il vizio era congenito,
nel sistema.
«Dopo la morte di Carlo Magno, una
scissione nell’impero franco era in un certo senso inevitabile e
salutare. Territori così vasti non potevano, se non in epoche
eccezionali e sotto un uomo eccezionale, essere governati da un unico
centro. Esistono vari sistemi di suddividere un impero e spartire un
territorio, che permettono la conservazione di una certa autorità
centrale, ma, di questi sistemi i discendenti di Carlomagno,
mediocri, quando non addirittura degenerati, scelsero il peggiore, e
cioè l’antica e pessima usanza delle ripartizioni di famiglia, che
erano state, fin dall’inizio, la maledizione della politica franca.
Ignorando completamente le lezioni
dell’esperienza, trattarono i loro regni come possedimenti privati
da lasciarsi in eredità o suddividersi a piacimento come meglio
dettasse l’affetto o la convenienza familiare. Da questa usanza
disastrosa derivarono evidentemente molti mali che afflissero
l’Europa durante il nono secolo».
L'esempio, dato dallo stesso Carlo
Magno, di associazione al trono, seguito a breve distanza da tutti
indistintamente i feudatari, che non riconoscevano più l’organo
competente alla investitura, ma, arbitrariamente, ipotecavano il
feudo come una eredità per i figli, fu il primo tarlo, che
sforacchiò alla base tutta l’impalcatura imperiale. A tale periodo
di confusione, che porta però già in seno il germe fecondo della
nuova civiltà comunale, risalgono i primi atti, che si riferiscono
alle nostre terre.
2. Una pergamena dell’anno 833
Sfuggì forse a quel grande
ricercatore, che fu il Repetti, una pergamena più vecchia di
quarant’anni e molto più interessante delle altre due, cui si
riferisce scrivendo di Selvena.
Essa ci pone di fronte al figlio di un
conte di Sovana, forse proprio del primo conte, Iffone o Griffone. Se
è vero infatti che nella legislazione carolingia, i duchi furono
sostituiti dai conti, all’epoca della nostra pergamena (anno 833),
solo una sessantina di anni erano trascorsi dalla prima calata di
Carlo Magno in Italia ed appena una trentina dalla sua incoronazione.
Esercitavano, in un primo tempo, i
conti, lo stesso potere dei duchi Longobardi, come amministratori
locali del fisco imperiale. E per quanto nei campi, una volta fertili
e redditizi, si addensassero ora rovi e sterpi invadenti, per quanto
sulle colline ventose intristissero gli olivi e le vigne, pure
bestiame di ogni specie pascolava sparpagliato accanto alla boscaglia
impenetrabile.
Non mancavano neppure abitazioni
rurali, in largo raggio, attorno ai centri che rivestivano sempre una
certa importanza, anche se decaduti, come Sovana, la vecchia città,
che già nel maggio o giugno del 592, aveva subito il gravame di
Ariolfo.
I fondi sono punteggiati da gruppi di
case, i villaggi, detti nelle secche cartapecore «vici» o «bici»,
sorti per lo più accanto alla chiesa.
Diversamente il vocabolo «casale», in
genere, significa la campagna, che si stende attorno al vico o
villaggio, spesso con alloggiamenti per uomini e bestie.
La distanza ragguardevole, che
intercorreva fra una borgata e l’altra, fra un casale e l’altro,
non era tale da impedire riunioni e ritrovi, anche per uomini
costretti a spostarsi con cavalcatura o, il più delle volte, a
piedi.
Del resto la vita appartata
corrispondeva pienamente al sistema dei Longobardi, che avevano il
gusto di abitare alla spicciolata, in case lontane le une dalle
altre. Fissavano la loro dimora senza un ordine prefisso, qua e là,
dove fosse una «fonte o un campo o un bosco, che attirasse la loro
attenzione» .
Dopo aver distrutto, saccheggiato, arso
le città ed i conglomerati urbani, non tanto per mania di
distruzione quanto per una inspiegabile rivolta contro la civiltà e
la società, ora si ritiravano a vivere nelle campagne, divenuti
oziosi, sonnolenti e ghiotti, più di quanto non fossero stati fieri
e bellicosi in guerra .
A poco a poco però si accostavano, per
curiosità, e si amalgamavano, per necessità, ai nativi,
precedentemente sospinti con paura e repulsione a dislocarsi per le
campagne.
Non è da meravigliarsi quindi se la
terra, nell’ottavo e nono secolo, incomincia a redimersi da quello
svilimento profondo, in cui era inesorabilmente piombata. I monaci
amiatini, come del resto quelli di altri monasteri, avevano potuto
costituire un vero latifondo «barattando un cavallo ed una semplice
spada con un oliveto» .
A volte erano state le vecchie ville
romane, i soggiorni prediali delle nobili e decadute casate patrizie,
ad accogliere gli avidi invasori longobardi; come nel caso di
Semproniano, che vediamo oggetto di cessione fra due fratelli, ai
tempi di Lotario, nell’anno 849.
Ma più spesso i beni del fisco, le
terre del contado, il latifondo dei monasteri erano tenuti da
livellari: povera gente, tutta dedita al lavoro manuale dei campi,
che riceveva in enfiteusi case, corti, orti, vigne, prati, selve,
pascoli, acque e ruscelli, corrispondendo, una volta all’anno, un
canone, in denaro, e più spesso in natura.
Qualche volta, andando ad oste, al
seguito del padrone, se eran tanto fortunati da ritornare, rimanevano
sgravati e liberi dal censo pattuito, come da ogni altra prestazione.
Appunto, ad uno ditali livellari, il
figlio del conte Iffone di Sovana, Stefano, cede una casa in
«Silbina» nell’anno 833 .
«Nel nome del nostro Signore Gesù
Cristo. Sotto l’impero del nostro signore piissimo sempre augusto
Lodovico, incoronato da Dio grande imperatore, nell’anno
diciannovesimo, grazie a Dio, del suo impero e nel quinto anno della
reggenza sulla sede santissima del beato Pietro, principe degli
apostoli, di papa Gregorio nel mese di gennaio, undecima indizione,
felicemente. Nel nome dunque del Signore, io Stefano figlio di Iffone
di buona memoria, conte della città di Sovana, in questo giorno, do,
cedo, dono, trasmetto e con atto di cessione confermo a te, David,
mio livellario, figlio del fu Pisanello, la casa e e sostanze di mia
proprietà in Selvena dove tu attualmente abiti, e cioè la casa
stessa con la corte, l’orto, le vigne, i prati, le selve, i terreni
dicioccati (citina), pascoli, le acque ed i canali di conduzione, il
coltivato e l’incolto, mobili ed immobili, in tutto e per tutto ciò
che appartiene alla casa suddetta ed alla proprietà, integralmente e
senza limitazione, io estendo e trasmetto a te, David, ed ai tuoi
eredi, la facoltà di possederla, di venderla, di donarla o
permutarla, ed abbiate il pieno diritto di agire e comportarvi
secondo la vostra volontà in ogni circostanza per questa nostra
donazione. E a conferma e garanzia dell’atto di cessione ho
ricevuto, io Stefano, da te David, a titolo di laudemio un paio di
manicottoli , perché questa mia donazione debba restare ferma e
valida, e se, in futuro, qualcuno dei miei eredi vorrà contrariare o
violare, o disfare, o sciogliere questa donazione, o non potessi
difenderli da qualsiasi persona, tu possa pretendere il doppio della
valutazione, che verrà effettuata, in quel tempo, della casa e della
proprietà. Fatto nella corte dello stesso Stefano in Figgilone sotto
la data e l’indizione soprascritte.
Io Stefano ho sottoscritto questa
carta per me fatta.
Segno + di mano di Bonifacio
testimone richiesto.
Segno + di mano di Pietrone
mandatario test. richiesto.
Segno + di mano di Adeodato da
Agello test. richiesto.
Segno + di mano di Landolfo di San
Savino testimone.
Io Damniso notaio richiesto ho
compilato e consegnato l’atto dopo averlo completato».
A distanza di quarant’anni (an. 873,
giugno 26), dal documento presentato, ne troviamo un altro. Un certo
David, non quello dell’atto precedente, «David del fu
Pisanello», ma «David del fu Agiberto» vende ad Angelberto,
preposto del monastero di San Salvatore sul Monte Amiata, tutti i
beni e sostanze ereditate dai parenti tanto di padre che di madre,
posti nel territorio di Sovana, nel casale Silbina e altrove, ed in
compenso riceve, presente Ardone scabino, 100 soldi in oro ed in
argento. In Chiusi, Orso not.»
E nel maggio dell’anno successivo
(an. 874) l’archivio dei monaci del Monte Amiata registra un altro
documento simile. «Guidone del fu Andolfo, del vico Silbina,
vende al Angilberto, preposto di S. Salvatore sul Monte Amiata, i
beni e le sostanze che aveva comprato da Monalfo nel fondo del casale
Silbina, e ne riceve per prezzo 60 soldi. Dentro le mura della città
di Sovana. Leone not.»
I documenti citati sono due semplici
atti di vendita o di cessione di beni, da parte di privati al
monastero di S. Salvatore sul Monte Amiata.
Nel primo documento la proprietà
terriera, annessa alla casa, era evidentemente ben conosciuta, ché
altrimenti sarebbe stata presentata con una descrizione più
dettagliata dei confini, in modo da non creare equivoci, neppure
nella più estranea delle persone.
Nel secondo invece sono ben chiariti i
vocaboli, con cui i due fondi costituenti l’atto di vendita, sono
chiamati comunemente, uno «vado Reo», il secondo viene classificato
come «clusura Arisilde». Il termine «clusura, chiusa», che spesso
ricorre negli scritti amiatini, denota sempre un recinto artificiale,
creato per precludere ad ogni estraneo il fondo.
E quando si presenta tale speciale
dicitura, indica sempre una terra circoscritta, conosciuta da tutti,
destinata ad una speciale coltivazione, che ne impedisce l’uso o il
passaggio a chiunque, come potrebbe essere un orto, una vigna, un
giardino.
Tutta la proprietà ceduta giace nella
campagna attorno a Selvena; nel secondo caso, probabilmente poco
distante dall’abitato vero e proprio, «in fundo vico et casali
Silbina».
Da notare infine come i due contratti,
rogati, il primo a Chiusi, e l’altro proprio «entro le mura della
città di Sovana», rechino, a sostegno ed a prova della conversione
effettuata, un certo numero di testimoni, presentati e voluti da chi
richiedeva la scrittura dell’atto stesso.
Alcuni firmano regolarmente il
documento steso dal notaro «Ego... rogatus testes subscripsi»,
altri invece si limitano a tracciare una croce, perché analfabeti.
In ambedue le scritture, i venditori
David e Guido, non sanno scrivere, ed appongono un segno di croce con
la propria mano, «Signum + manus...».
Nell’atto dell’873 il prezzo di
cento soldi, pattuito per la cessione, viene versato seduta stante,
in presenza di un’autorità, di uno scabino, che a maggior garanzia
rilascia la sua affermazione, «Ego Ardo scabinu ante me ipsum
precium dat. Aff.», io Ardone scabino affermo che il prezzo fu
pagato in mia presenza.
3. Una supplica dei monaci amiatini
a Enrico IV
I duecento anni, dopo l’ultimo
documento che ricorda Selvena, passarono come un turbine violento
sull'Italia, anzi sull’Europa.
Restaurazioni e destituzioni di re ed
imperatori, papi ed antipapi eletti e spodestati, guerra sorta fra
gli uni e gli altri. Ed infine tutto l’odio ammassato all’interno
delle due potenze, impero e Chiesa, esplose in quel cozzo
formidabile, che coinvolse, volenti o nolenti, tutti i ceti sociali:
gli straccioni della pataria ed i baroni dell’impero, i poveri
curati semianalfabeti di campagna ed i cardinali astuti della curia
romana. Alla data del nostro nuovo documento (luglio 1081) è già
scoppiata la tempesta fra i maggiori esponenti delle due agguerrite
fazioni.
Enrico IV, bambino di appena cinque
anni (nascita l’11 novembre 1050), era succeduto al padre Enrico
III nel 1056, sotto la reggenza della madre Agnese, una donna
irresoluta, affatto esperta del regno, in balia dell’arcivescovo di
Colonia, Annone, affetto da campanilismo acuto, che non seppero
frenare gli impulsi naturali del giovane, né educano alla
diplomazia, né esercitano nell’arte del comando.
Il giovane Enrico, appena uscito di
minorità, inesperto e testardo, cresciuto in un clima da guerra
fredda verso il clero romano, si trovò presto a dover combattere e
reprimere una insurrezione di oppositori interni, i Sassoni, che si
erano rafforzati od illusi nel disordine della reggenza.
L’esito favorevole lo incoraggia a
cercar amicizie, consensi e concordanze fra gli ecclesiastici di
elezione imperiale, che covavano un odio basso verso la curia romana
ed il papa in particolare. Gregorio VII, quando fu acclamato
pontefice (an. 1073), aveva già superato da qualche anno la
cinquantina, ed aveva acquisito un tale allenamento in campo
diplomatico, a contatto diretto con cinque papi, da poter far fronte
a qualsiasi impresa agonistica. Mirava diritto al traguardo,
l’indipendenza e la purezza della Chiesa, poggiando massimamente su
un intransigente senso di giustizia, forse troppo soggettiva, ma
certamente richiesta dalle contingenze, che ammettevano solo tagli
netti e colpi ben assestati, senza cincischiamenti e senza sbavature.
Non posso dilungarmi nella rievocazione di un periodo burrascoso, di
una lotta feroce scaturita fra un imperatore caparbio ed un papa
irremovibile, sorretti l’uno e l’altro da una folta schiera di
esaltati, che si accapigliavano e si sbranavano a vicenda.
Quella che comunemente va sotto il
titolo di “lotta per le investiture”, è in realtà una guerra di
riscatto e di riabilitazione, di predominio e di supremazia.
Tutti i libri di storia ne sono pieni.
Con diversa risonanza, ma certamente
con non minore impegno ed acredine veniva combattuta, nello stesso
periodo, una lotta ad oltranza fra i monaci dell’abbazia di San
Salvatore e gli esponenti della casata Aldobrandesca. L’abbazia del
Monte Amiata, nata dall’ossequio religioso e dal fanatismo
longobardo, in quasi tre secoli di esistenza, aveva congregato
attorno ai primigeni beni dotali, attraverso acquisti, donazioni e
lasciti, un patrimonio fondiario, che andava dall’Amiata al mare di
Talamone e di Tarquinia (Corneto).
I numerosi possessi risultarono però
frazionati e disseminati qua e là, in diversi luoghi, a volte molto
distanti fra loro, e principalmente dall’abbazia madre. Difficile
quindi il controllo e la gestione da un unico centro. Era
indispensabile distaccare monaci e conversi, erigere celle filiali
del monastero, non solo per regolare l’andamento delle
coltivazioni, per assistere le mandrie di bestiame, pecore, maiali,
cavalli, ma anche, e soprattutto, per dirigere l’economia,
assistendo alla raccolta, alla spartizione dei prodotti e curando la
spedizione ai magazzini centrali del monastero.
Tanto più era necessaria la presenza
dei monaci, nei fondi lontani, in quanto la proprietà del monastero
era considerata una preda facile da parte dei confinanti, dei signori
vicini. I documenti amiatini offrono con ricchezza testimonianze di
continui compromessi, di processi clamorosi, intentati dagli abati in
difesa dei loro possedimenti, o per l’imposizione ed il
riconoscimento dei loro diritti.
Tutto a scapito della disciplina
monastica, che rappresentava il legame indispensabile per le finalità
dell’ordine benedettino. Il monastero spesso rimaneva spopolato, i
dormitori ed i refettori quasi vuoti, ed i monaci vivevano lontani
dalla casa madre, senza troppo curarsi delle prescrizioni della
regola. Forse a tale sistema di vita, a questa primordiale attività
rurale, deve attribuirsi il fatto che il monastero di San Salvatore,
per quanto antico, non riuscì mai a conquistare quell’ascetismo
ardente, che fece erigere, accanto ai chiostri silenziosi, le navate
imponenti di quei luoghi, che anche oggi stupiscono per la loro
magnificenza e per il loro ardimento. La querimonia dei monaci
amiatini presenta una situazione quasi incomprensibile per noi.
Nella arroventata lotta, fra clero ed
impero, appare chiaro come essi ripongano in quest’ultimo le loro
speranze e la loro fiducia. E evidente che sull’Amiata non si era
sentito neppure l’eco del sussulto di vita nuova, riformatrice, che
traboccava da altri monasteri. Non mi sembra del resto che la sola
aspirazione al riconoscimento di abbazia regia, propugnata dai monaci
in ogni tempo, sia da ritenersi sufficiente e valido motivo per
spiegare la loro azione partigiana. Ammettendo che Gregorio VII
derivasse dalla casata Aldobrandesca, aspetti nuovi si aprirebbero
nel comportamento dei monaci di Abbadia San Salvatore, e maggiormente
in quello dei due figli di Ildebrandino V, Ranieri ed Uguccione,
cugini (secondo il Ciacci) del papa battagliero.
Su Enrico IV pesava la fama di una
nuova scomunica, addossatagli dal pontefice nel Concilio di
Quaresima, il 7 marzo 1080 2 anche se era stato liberato dalla prima,
dopo la spettacolare umiliazione di Canossa (25-27 gennaio 1077).
Non potevano ignorare i monaci il
rischio della repressione in cui sarebbero piombati, parteggiando per
l’imperatore.
Ma la scelta era giustificata dalla
persecuzione senza sosta perpetrata dai figli di Ildebrando V
Aldobrandeschi, ai danni del monastero, usurpando il bestiame,
appropriandosi delle derrate, distornando i coloni dai lavori
agricoli per la costruzione dei castelli, occupando le terre e le
fattorie più redditizie. Indubbiamente la supplica indirizzata
all’imperatore, mentre faceva ritorno all’amica Lombardia, dopo
il vano assedio di Roma (21-22 maggio 1081) , contiene molta verità,
anche se espressa in frasi ampollose e retoriche.
Del resto non era la prima volta che il
monastero subiva i soprusi della casata Aldobrandesca.
«... lldebrando (V), conte, figlio del
fu Ildebrando, confinante da più parti colle Castella e Corti del
monastero, da protettore fattosi aggressore (del medesimo), conforme
successe a non poche Badie, aveva esteso la sua padronanza in una
gran porzione, e forse nella migliore delle sostanze del medesimo,
con danno gravissimo dell’abate e dei poveri monaci. Né contento
di sì strane usurpazioni chiudeva non solo gli occhi alle ruberie e
violenze dei suoi vassalli e dipendenti, che a pregiudizio della
Badia ingrassavano, ma di più mandava egli i suoi castaldi e
ministeriali indoverosamente nelle castella e villaggi della medesima
a tener placiti, ad amministrar la giustizia e ad esiger tributi, ad
estorcere dai coloni quello che loro piaceva, e quanto arbitravano
dovuto ai loro seniori. Non mancavano mai titoli, a costoro, o
diritti ideali, ed in ogni caso restava loro sempre il pretesto di
esser Patroni e difensori per riguardare i beni di luoghi pii, quali
loro allodiali e dipendenti per ragione della clientela. Si può
ragionevolmente presumere che i poveri monaci colle più adattate
maniere s’industriassero per indurre il conte prepotente a
rammentarsi della giustizia o almeno ad usar loro maggior carità. Ma
vedendo inutile ogni ulteriore tentativo, imitando l’esempio di
Guinizone, e d’altri abati oppressi dei monasteri d'Italia,
inviossi l’abate Tenzone con Ranieri suo avvocato incontro ad
Arrigo III (Enrico III) , re di Germania, che nell’autunno
dell’anno 1046 calava in Italia, desideroso più che d’ogni altro
di ricever la corona imperiale. Alla corte detta di Martori (oggi
Poggibonsi) nei primi di xmbre (dicembre) dovette il nostro abate
incontrarsi nel Conte Ildebrando, in Guido vescovo di Volterra ed in
Arrigo Gran Cancelliere del Re, i quali facevano la loro Corte, ed
accompagnavano il Sovrano alla volta di Roma. Venne a questi
naturalmente fatto di scoprir l’animo esacerbato dell’abate, che
doveva aver stabilito di presentarsi al Monarca per implorare
giustizia contro l’aggressore del suo monastero, ed è ben
probabile che gli stessi personaggi si interessassero a comporre
l’affare, inducendo il Conte alla restituzione e cessione di quanto
aveva ingiustamente usurpato. Nel giorno 6 dicembre dell’anno 1047,
md. XV, che corrisponde più veramente per l’epoca pisana, qui
usata, al 1046, restò conchiuso l’accomodamento, nel quale il
Conte Ildebrando ricevuta dall’abate non so qual Rosa d’oro
«reputat» e restituiscegli «castellum de Monte Nigro (Montenero)
et castellum de Monte Latrone (Montelaterone) cum omnibus ecclesiis,
et castellis, muris et fossis atque munitionibus eorum, cum omnibus
domnicatis et mansis, villis, protis, quos usque modo vobis et
Monasterio vestro malo ordine detenuimus...».
Promette quindi di non mandare
ulteriormente gastaldi e ministeriali, e di non imporre «malas
consuetudines» e renunziare alle di già imposte sotto la pena di
cento libbre «auri optimi», restando così stabilita una perpetua
pace .
Il fatto è ricordato anche nella nuova
supplica presentata dall’abate Gerardo al giovane imperatore Enrico
IV, forse a dimostrazione dell’impegno, che mosse i suoi avi nel
soccorrere quel monastero rimasto sempre aderente e fedele alla
politica imperiale. Le terre appetite dai conti ora non sono più
quelle dello spartiacque destro dell’Ombrone. Si sono aggiunte
anche quelle dei versanti del Paglia, dell’Albegna, della Fiora,
che il lavoro costante dei coloni avevano trasformato interamente.
Selvena ha acquistato maggiore importanza, una nuova dimensione, un
progresso inevitabile legato ad una scelta collettiva.
Non è più il casale di duecento anni
addietro; una nuova struttura, il castrum, cioè un’opera di
fortificazione, garantisce la vita dei livellari dalle incursioni dei
predoni.
Il fondo certamente abbraccia tutta la
zona della valle della Fiora, che si stende massimamente sulla
sinistra, da Selva di Monte Calvo (Santa Fiora) fin sotto l’attuale
Querciolaia, quasi a toccare Montebuono (Sorano), dove però «ebbe
possessi fino dal Mille la badia di S. Pietro a Monteverdi di
Maremma, in favore della quale l’imp. Arrigo III spedì un
privilegio in data di Colonia, lì 7 maggio 1040, cui fra le altre
corti confermò queste di Montebuono e di Patrignone, poste nel
contado di Sovana» .
Ecco dunque la traduzione del memoriale
o supplica indirizzata dai monaci amiatini a Enrico IV.
«Per l’amore di Cristo Salvatore, o
padrone! Voglia riconoscere la tua pietà come i tuoi servi non si
stanchino mai di pregare per la tua incolumità, e perché il tuo
potere sulla terra perduri indisturbato il più a lungo possibile. Le
violenze gravissime perpetrate ai danni della tua chiesa, o re nostro
padrone, dai conti limitrofi sono aumentate indicibilmente, e ci
costringono a ricorrere alla tua autorità con profondi lamenti.
Così quando anche il nostro padrone,
tuo religiosissimo padre, poté conoscere dall’abate del tempo i
maltrattamenti, identici a quelli attuali, che allora venivano
inferti ai tuoi servi del monastero di S. Salvatore, dal conte
Ildebrando, mosso profondamente a compassione, ordinò che (il conte)
si presentasse subito al suo cospetto e, trattandolo molto
energicamente, l’obbligò, sotto giuramento, a restituire al
monastero tutto ciò che vi è stato riferito in diversi scritti.
Ma appena ritornato oltralpe,
ricominciarono le miserie ed i saccheggi di prima, anzi anche
peggiori, sicché a mala pena potremmo raccontarli.
Quanto infatti, dopo la morte del
padre, ci abbiano fatto soffrire i suoi figli, Ranieri e Ugo, solo la
tua carità può immaginarlo, o Signor nostro. Già quando scendesti
la prima volta in Lombardia l’attuale abate, che per tua
concessione governa questa chiesa, ti fece informare di tutto.
E tu, o piissimo, disponesti che fosse
loro indirizzata una lettera, (parole grevi, degne della tua
severità), perché desistessero da ogni molestia.
Ma essi, più che mai divenuti
rabbiosi, ordinarono ai propri armati, che se avessero incontrato o
l’abate o un monaco qualsiasi, lo avessero fatto fuori, senza tanti
ripensamenti. E sarebbe senz’altro successo, se l’abate non si
fosse allontanato temporaneamente dal monastero.
Perché la tua casa (il monastero) è
circondato praticamente da fortificazioni, e (i conti) costringono i
coloni dei tuoi servi (i monaci) a lavorare continuamente nella
costruzione di bastioni e di fosse a difesa.
Da quando poi si è diffusa più
insistente la voce della tua venuta, li hanno requisiti e obbligati
addirittura per trenta giorni consecutivi in opere attorno alle loro
fortezze.
Non ti sia nascosto neppur questo, o
Signore, che quando conoscono un dipendente del tuo monastero, che
sta bene a quattrini, se lo fanno subito amico, sottraendolo insieme
al suo bestiame al servizio del monastero. Così attirano gli uomini
addetti al lavoro dei tuoi servi nelle loro reti e non li lasciano
più scappare, se non pagano un riscatto in danaro.
E non risparmiano nemmeno gli
assistenti, che sequestrano appena si presenta l’occasione: un
guardiano ha dovuto sborsare cento soldi, un altro cinquanta per
riacquistare la libertà. Per di più collocano commissari propri in
tutti i cascinali del monastero, dove si raduna tanta folla come nei
giorni di processo e, mettendo su banchetti e bancarelle, spogliano
di quel poco che possiede la povera gente.
In particolare uno dei figli del
defunto conte, quello chiamato Ugo, superando in tutto e per tutto
suo padre nella cattiveria, ha occupato una fattoria del monastero,
di nome Sala e i suoi armati hanno rubato i buoi, addetti al lavoro
dei nostri campi, sotto la sorveglianza di un monaco più anziano, ed
hanno rapito gli asini che trasportavano il vino per i tuoi servi
all’abbazia. Anche nella zona di Gravilona, si ingegna a costruire
palizzate e steccati, con gli uomini della tua chiesa, attorno alle
sue fortificazioni. Perché il conte detiene in suo potere operai
che, secondo gli antichi privilegi regi, dovrebbero invece lavorare
per il monastero. Egli ne ha fatto una masnada di ladri, che
continuamente escono a predare le terre della chiesa, e a far
carneficina di cavalli. Vicino alla terra murata di Selvena si è
impossessato di una fattoria, che ha concesso ai suoi seguaci, come
fosse roba sua.
L’altro fratello di nome Ranieri si è
istallato addirittura nella fattoria chiamata Santa Fiora, che conta
più di cento poderi, sicché noi non azzardiamo neppure più a
reclamarla per il monastero.
Con la stessa disinvoltura si è
appropriato del bosco, dotazione stabile ad uso dei suoi servi, nel
territorio di Campusona e vi effettua tagli indiscriminati,
quotidianamente a suo piacere e vantaggio, come negli altri luoghi.
Anche nei dintorni di un altro suo
distretto, chiamato Castel Marino, ha adibito e tratta le borgate di
Piano (Castagnaio) e di San Cassiano, come fossero proprietà
privata, chiudendole e mettendovi a capo dei fattori, che gli
procurano trenta libre all’anno.
Hanno preso possesso anche di un’altra
fortezza vicina al monastero, Radicofani, che sappiamo con sicurezza
di vostra pertinenza, e non conosciamo alcun diritto legale che possa
avallare la loro occupazione. Dalla numerosa compagnia di armati
adunata là dentro dobbiamo sopportare giornalmente ogni specie di
vessazioni.
Troppe cose, o Signor nostro, ci tocca
tralasciare per non approfittare della tua bontà, ma le puoi trovar
annotate nelle lettere che ti sono state rimesse.
Di questo ti preghiamo, che tu non
voglia stornare da noi la tua attenzione, perché siamo ridotti a
tale miseria che nella casa tua (il monastero), dove solitamente
cento monaci vivevano nel servizio divino e nell’orazione
incessante per la conservazione della tua salute, ora appena dodici
possono trovar sostentamento. E se tu lascerai ancora che abbiamo a
soggiacere a tali tribolazioni, sappia pure la tua autorità che (i
monaci) non potranno ancora durare a rimanervi a lungo.
Solo l’attesa speranza del tuo aiuto
ci ha dato la forza di vivere in mezzo a queste miserie e a questi
travagli. Ora ti scongiuriamo, per la salvezza del tuo e del nostro
monastero, che tu abbia presente ciò che abbiamo descritto, perché
la casa di Dio, che sovrani religiosissimi eressero a servizio del
Signore, non si tramuti, per colpa degli uomini, in abitacolo dì
uccelli e di animali selvatici»
4. Gli «Annali della Terra di Santa
Fiora» di padre Battisti
Tutti i documenti, da me illustrati,
furono completamente sconosciuti al padre Agostino Battisti, al
naturalista Michele Mercati ed al fisico Giorgio Santi, gli unici
(oltre gli accenni poco apprezzabili di qualche studioso senese) che
abbiano lasciato scritto qualcosa di storico a proposito di Selvena.
Quanto riporto dagli «Annali della terra di Santa Fiora» del padre
Battisti, deve essere inteso come riferito al misero e malagevole
caseggiato, oggi interamente distrutto, che attorniava l’antica
rocca Aldobrandesca, e non alle attuali abitazioni, che sorsero, da
principio, sparpagliate qua e là, e solo in seguito e più
recentemente, si rinfittirono e si saldarono fra loro.
«Abbiamo chiamato questo luogo Borgo o
Contrada, perché questo nome ce lo danno l’antiche cartapecore del
1300, avendo noi veduto e letto alcuni testamenti fatti in quel luogo
che dicono: Datum in Vico Silbinae. La parola Vico non vuol dire
Terra o Castello, come i moderni la chiamano, ma bensì borgo o
contrada, o viottolo, o piccola via, ed alle volte si prende anche
per villa, come scrisse Cicerone a Terenzia, che voleva vendere la
sua villa: “Quod ad me, mea Terentia, scribis te vicum venditurum,
quid, obsecro te, me miserum, quid futurum est puero?” lib. 14.
La parola Silbinae — scritta con la
«B» e non con la «V» — non faccia alcuna meraviglia, perché
gli antichi ed anche buoni scrittori si servivano di questa lettera,
invece della «U», come anche Cicerone scrisse «abfero» per
«aufero», «abfugio» per «aufugio»; ed anche la parola «Vicus»
si scriveva «Bicus». Ma lasciando di più discorrere di questi
nomi, che non per altro abbiamo qui posto, che per erudizione di chi
poco intende gli antichi latini, diciamo che questo Borgo di Selvena
è molto antico, e quantunque non sappiamo chi sia stato il
fondatore, con tutto ciò teniam per certo esserne stati gli
Aldobrandeschi in tempo che eran governatori o conti assoluti della
città di Sovana.
Questo borgo fu nei secoli bassi molto
abitato per esservi le cave dell’argento, vitriolo, antimonio e
mercurio; anzi noi pensiamo, che il nome Silvena derivasse da «Sylva
et vena», cioè Bosco o Selva ripiena di vene, perché «vene»
appunto son chiamate le cave di tutti i minerali. «Aeris, argenti,
auri venas abolitas invenimus», come disse Ciceròne, De natura
deorum.
Ottimamente dunque fu appropriato il
nome di Selvena a questo borgo. Che vi fossero le vene o cave
dell’argento, noi lo ricaviamo dalla divisione che fu fatta l’anno
1272, fra Aldobrandino figlio dì Guglielmo, conte di Sovana e
l’altro Aldobrandino, figlio di Bonifacio, conte di Santafiora,
quali essendosi spartiti tutti i luoghi che avevano, come a Dio
piacendo, noi vedremo nel progresso di questa storia; e che il borgo
di Selvena restasse al conte di Santafiora, con tutto ciò che le
cave dell’argento restarono indivise, talmente che quell’entrata
restava a tutto il ceppo della famiglia Aldobrandeschi. Questo luogo
di Selvena fu assai forte per esservi una Rocca o Cassero , come
anticamente chiamavasi, fatta con tutta l’architettura di quei
tempi, e tanto più era forte, perché quivi conservavasi tutto
l’argento, ed altro, che cavavasi da quelle vene
Presentemente il d.o Borgo è quasi
tutto diroccato, ma vi resta in piedi il suo cassaro. Questo vien
situato sopra una collinetta ripiena di scogli, che giace in un
fondo, un miglio e poco più lontano dal fiume Fiora, e presentemente
non vi è che poche case di contadini poste sotto questo fortilizio,
che fanno conoscere l’antico borgo che vi era».
lo non condivido affatto l’opinione
del padre Battisti che il nome Selvena derivi da una contrazione o
fusione dei vocaboli «Sylva et vena».
L’idea, oltre tutto, risulta anche
poco originale, in quanto, prima di lui, Michele Mercati, il grande
naturalista e medico di Fucecchio, che così bene descrisse la
preparazione del solfato di ferro nelle cave di Selvena intorno al
1590, e di cui ho già avuto modo di parlare, e riparleremo in
seguito, con tocco quasi poetico, deduceva il nome Selvena dalla
unione di due parole latine «Silva venarum», selva di vene.
Non saprei poi quale importanza
attribuire a quanto è stato recentemente pubblicato. «Selvena
(etrusco Selva e Selvethres thri; latino Silvius e Silvinus —
inius); Schulze (Zur Geschichte lateinischer Elgennamen, Gòttingen
1904) osserva cautamente: “che il ceppo del nome è antico lo
affermano i Silvii Albani, e insomma lo dobbiamo credere; ma nei
particolari non so distingure l’antico dal moderno”.
Che peraltro il nome locale qui addotto
risulti etrusco dal suffisso non par da mettere in dubbio. Selvena,
Castell’Azzara, GR; probab. Silbina, in un doc. del giugno 873 e
maggio 874 (Repetti)».
Da notare che, personalmente, stimo
poco probabile ciò che dall’autore vien reputato vero (Selvena dal
suffisso etrusco), e per vero ciò che dall’autore vien ritenuto
probabile (Silbina per Selvena).
Ultimamente, e forse con maggiore
garbo, il nome ha trovato un’altra interpretazione: «... Castel
Silbenae (Selvena) dalla parola longobarda “silben” che significa
“argento” e “argentiera” veniva chiamata la zona di Selvena».
Il castello era ancora in discreto
stato, se vogliamo prestar fede ad un altro storico, il senese Pecci,
che osservò le cose con i propri occhi intorno alla metà del sec.
XVIII.
«Sulla costa della catena dei monti,
lungo il corso del fiume Fiora a mano destra , ma seguendo la strada
del convento della Santissima Trinità dei Riformati di S. Francesco
(La Selva), e sulla costa, e scesa di detti poggi situato rimane il
villaggio e rocca di Selvena. Questa dunque col di lei maschio è di
pietre concie e merlata, con una sola porta e ponte levatoio ed è
sopra una rupe o scoglio distante dal sopraddetto fiume due miglia
circa. In oggi è in parte rovinata e serve per uso di granai del
signor Duca; ma nel 1501 trovasi che era guardata da un castellano
stipendiato a nome Manno».
La mia opinione è che il nome di
Selvena (originariamente Silbina o Silvina) debba intendere, molto
più prosaicamente, se si vuole, ma con maggior aderenza alla realtà,
e va ritenuto come il diminutivo latino del nome «Silva» (Selva),
cioè «Silvina» (Selvina, Selvetta), già in uso prima del Mille ed
anche oggi forse, anzi quasi con certezza, in contrasto o per
distinzione con altre zone circostanti più boscose e macchiose. Del
resto il nome «Selva» è rimasto ad una terra poco distante, fra
Santa Fiora e Selvena, già abbondantemente citata intorno agli anni
dei documenti osservati, e dove, in epoca posteriore (an. 1490),
sorse il convento dei Frati Minori su un preesistente romitorio.
Mi conferma tale pensiero anche il nome
dato ad un’altra terra, di fronte a Selvena stessa, sulla sponda
destra della Fiora, Cellena, che in un documento del 1114 è detta
«Cellina» (cioè piccola cella), e nel decorso del tempo e
dell’uso, ha subito la stessa alterazione fonica del nome Selvena.
5. La nascita del Castello
Con l’interpretazione da me offerta
sulla etimologia del nome, troverebbe giustificazione lo stemma
dell’antica Comunità, riprodotto anche dal padre Battisti nella
sua opera. «Gli abitatori di questo luogo (Selvena) fanno Comune da
sé e hanno il suo Gonfaloniere, ma tanto nel civile che nel
criminale sono sottoposti al Vicario di S. Fiora, che prima
chiamavasi Viceconte. L’arme di questo Comune è una torre con
bandiera spiegata in cima, con due tronchi d’albero da una parte e
l’altra, per dimostrare il sito in cui era posta la fortezza del
luogo» .
Certamente già esistente nell’anno
1081, ma non nelle proporzioni assunte in seguito, nessun dato
storico però precisa la data di nascita del nostro castello, e, al
di fuori della necessità della difesa, non saprei quale causa
l’abbia provocata. E' logico supporre invece che la fortezza sia
stata eretta là dove esisteva una collettività già insediata in
rispondenza delle migliori condizioni naturali, sia per una rozza
tattica difensiva, sia per indispensabili vantaggi di sussistenza.
Abbiamo notato infatti come le nostre terre siano state battute, fin
dai tempi preistorici, per la ricerca del cibo ed, in tempi più
civili, per il ritrovamento dei minerali. Soprattutto agli impianti
barbarici o misti dobbiamo ascrivere la scelta dei luoghi, delle
posizioni favorevoli, lontane dai miasmi delle zone paludose o
dell’aria greve della maremma malsana, sempre vicino a sorgenti o
corsi di acqua, su cui sorsero in seguito i castelli.
Le preminenze, le alture, i poggi già
servivano ai possessori di bestiame, non solo per meglio vigilare e
seguire le rotte degli animali pascolanti, l’unica risorsa e la più
sicura ricchezza del tempo, ma anche per scorgere ad una
considerevole distanza i razziatori, i predatori, che infittivano le
campagne, di giorno e di notte, come le volpi ed i lupi.
La natura stessa del suolo, montuosa e
sconvolta, non ammetteva che si potessero coltivare intensamente,
come nelle pianure fertili per il terreno di riporto, le poche
graminacee allora conosciute, il farro, la spelta dalle glume
aderenti. Da per tutto branchi di pecore timide, di capre
saltellanti, da per tutto mandrie di buoi mansueti, di cavalli
lucenti. Nei boschi di cerri e sotto querce annose, i porci e gli
asini alla ricerca di ghiande e di radici, di cardi e di rovi.
Le «masse» degli antichi romani,
l’aggregazione dei «fundi», dove numerosi e tribolati schiavi
lavoravano per il benessere del padrone, son divenute le «masie»
del periodo barbarico e susseguente, ossia il grande podere
affiancato da capannoni eretti su tronchi contorti di olmo, coperti
di scandole, di paglia, di fascine, con le capienti rastrelliere, che
si allungano a ridosso delle pareti.
Le vigne, gli orti, gli stazzi a
steccato, le vaste chiusure a siepe si trovavano più in basso, ove
defluiva l’acqua garrula della vicina immancabile sorgente.
La necessità di una difesa comune dai
ladri, di interessi uguali da salvare, la considerazione che il
vivere collettivo era preferibile alla vita solitaria, riportarono a
poco a poco gli uomini a quel genere di esistenza sociale, già
disprezzata e rifiutata dai barbari.
Sugli stessi luoghi poi sorsero le
misere abitazioni in muratura, e furono quindi prescelti, sia per la
più facile disponibilità di mano d’opera, sia per la stessa
posizione strategica, nelle costruzioni delle prime fortificazioni.
Fra quelle sorte nel nostro territorio,
indiscutibilmente la fortezza di Selvena è la più antica. Le si può
assegnare come presunta data di nascita il secolo X o al massimo
l’XI:
« e... nel trapoggiare, ci apparvero
innanzi, come all’aprirsi di una scena, i ruderi del castello. La
torre che lo dominava, e che doveva scoprire a molte miglia le
campagne intorno, dall’Amiata alla valle della Fiora, che è lì
sotto, e al Tirreno lontanissimo, è ora crollata più che a metà, e
pare il mozzicone ancora minaccioso di un enorme scheletro d’eroe
caduto combattendo. Ma è bello a vedere come ora tutt’intorno a
quel carcame secolare verdeggia la vita dei sicomori, dell’ellera,
di mille altre piante rampicanti, che lo abbracciano, o stringono,
gli s’insinuano dentro da ogni parte e non son però ancora
riuscite a scompaginarlo. Le pareti enormi, massicce, aperte qua e là
in breccia come dopo un assedio feroce, non hanno dato un crollo sui
fondamenti, che girano tutto intorno l’orlo della vasta scogliera,
piombante a picco sulla Fiora da tale altezza di precipizi, che, a
guardarlo di lassù, il corso del fiume s’appanna all’occhio per
la lontananza». La struttura colossale, la potenza formidabile, che
trasuda ancora dalle disastrose rovine, fanno ritenere che la tecnica
dell’architetto e l’intento dei costruttori fu quello di
preparare realmente una roccaforte, capace non solo di offrire un
riparo sicuro alle truppe di stanza, ma di accoglierne altre
eventuali, e soprattutto di resistere a lungo in caso di assedio.
Consisteva in tre distinti corpi, che
si elevavano a strapiombo sul profondissimo botro roccioso del fosso
Canala, un affluente minore della Fiora, racchiusi da due lati da una
muraglia insormontabile.
Al centro, la rocca a due ripiani,
vastissima, isolata, con ampio portone a sesto acuto. Le finestre,
occhiaie vuote di una carcassa sbrecciata, si aprono al piano alto,
verso tutti i lati. A terra, internamente, le strette feritoie dal
capace strombo, il grande strappo del camino con la gola aperta
ancora nera di fuliggine. Sul piano antistante, il grande deposito
per l’acqua dalla forma a botte corpacciuta, ai piedi dell’enorme,
elegantissimo càssero triangolare, che si erge ancora altissimo sul
suo propugnacolo dallo spigolo ardente come una lama, quasi uno
sperone navale di prora volta ad oriente.
È questa la parte meglio conservata,
anche se il frontale, dove si apriva il grande portone, protetto
all’esterno da un’altra torretta avanzata, è crollato su se
stesso, si è ripiegato, anzi, come un troncone rotto dal tempo, non
abbattuto dagli uomini. La terrazza menata dell’alta torre è
sparita; sulla cima ha trovato vita un leccio scuro, che affonda
l’apparato radicale fra le crepe del muro e le porosità della
calce. L’interno, diviso in vari ripiani, da superare con scale di
legno, facili a ritirarsi, all’occorrenza, da un giorno all’altro,
in parte è riempito di macerie. L’unica apertura, un alto
finestrino ogivale, che si apre a guardia del portone di accesso ai
rivellini delle mura, dalle parte di scirocco, ne permette tuttora
l’esplorazione, dopo che la porta vera e propria è stata superata
e sotterrata dai cumuli dì pietrame, di mattoni, di calcinacci,
un’immane maceria, tra cui germinano e si innalzano a stento i
cardi pungenti, le ortiche urenti e le marruche spinose, come ad
aumentare la tristezza del luogo. Alla parte estrema (di lì comincia
a stendersi la muraglia ardita, che difende il lato sud-est e di
levante), un unico muro, forato da finestrini, residuo degli ampi
magazzini e delle stalle graveolenti, presenta ancora le due
inclinazioni del tetto. Fuori delle mura, sul costone battuto dal
sole di mezzogiorno, fra una fitta siepaglia di spini e di rovi,
pochi resti di case ridotte a muriccia, testimoniano l’esiguità
dell’antico borgo che fu Selvena. Emana e prorompe da tutto il
paesaggio uno squallore muto, una desolazione amara, una contrazione
spirituale, che sfrangia l’anima e la rode come una pena interna,
sovrumana, incurabile.
Fonte: Tratto dal libro: Castell'Azzara e il suo territorio – Memorie storiche Giovanni Battista Vicarelli
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