«SYLVINA... quasi venarum sylva»





1. L’impalcatura feudale creata da Carlo Magno

La toponomastica, cioè lo studio dei nomi dei diversi luoghi, si presenta a volte così attraente e suggestiva, così semplice e suggestiva, da intrappolare e trarre in errore chi a lei si affida ciecamente, chi si accontenta del superficiale senza curarsi troppo di approfondire il problema.

Non che un’appropriata ricerca etimologica sia da escludersi e da scartarsi completamente, ma pervenire alla conclusione solo per tale strada, fidarsi solo di questo esame per stabilire l’origine di una località, è senz’altro un grave errore incompatibile per uno studioso serio e coscienzioso.

È facile infatti comprendere come, attraverso il tempo, il nome originario possa essere andato man mano trasformandosi, abbia subito talvolta così profonde variazioni e modifiche, derivate dalla pronuncia, dalla scrittura, dall’uso insomma, tanto da significare l’opposto di quello che inizialmente intendeva esprimere.

Sarebbe, semmai, più logico, sotto certi aspetti, affidarsi al significato degli stemmi parlanti, dei sigilli ragionati, sebbene anche questa non possa costituire una prova inoppugnabile della legittimità del nome, in quanto, generalmente, il blasone è nato dal nome stesso della località, ed in epoca abbastanza recente.

Certo che non è cosa facile muoversi e camminare per un sentiero aspro e spinoso, come quello rappresentato dalle poche carte sopravvissute, dalle minime notizie avanzate e scritte, per di più, in uno stile barbaro e contenzioso. Quale altra luce infatti poteva trapelare e giungere fino a noi da quel periodo nero, che corre dalle prime occupazioni barbariche fino all’anno millesimo?

«Dopo le invasioni e le scorrerie barbariche, al IX secolo, l'Italia porgeva di se uno spettacolo, che non potrebbe raggiungersi con la mente, non che descrivere con le parole.

Colluvie di razze e stirpi strane, innesto selvaggio di lingue e costumi foresti, un cozzo orribile di rabbia feroce tra vincitori e vinti di seconda e terza mano, tra padroni, invasori, ospiti, pellegrini, terziatori, indigeni e stranieri, nati o scesi al sacco del suolo italiano. Tutti erano venali di lor privilegi e prerogative, e tradizioni e rapine.

Legislazioni saliche, ripuarie, longobarde, bavare, alemanne mal definite e mal comprese, col diritto romano non interamente dimenticato, formavano altrettante cittadinanze fittizie nella medesima città, e altrettante società nella medesima nazione e nel medesimo paese, tanto che diffinì molto bene quel tempo chi scrisse che gli italiani erano compatrioti senza essere concittadini»

Tale quadro, che corrisponde all'Italia del 700, non cambiò affatto con la impalcatura feudale creata da Carlo Magno. Si temette, anzi, alla sua morte (an. 814), che tutto crollasse in una immensa e polverosa rovina. Il vizio era congenito, nel sistema.

«Dopo la morte di Carlo Magno, una scissione nell’impero franco era in un certo senso inevitabile e salutare. Territori così vasti non potevano, se non in epoche eccezionali e sotto un uomo eccezionale, essere governati da un unico centro. Esistono vari sistemi di suddividere un impero e spartire un territorio, che permettono la conservazione di una certa autorità centrale, ma, di questi sistemi i discendenti di Carlomagno, mediocri, quando non addirittura degenerati, scelsero il peggiore, e cioè l’antica e pessima usanza delle ripartizioni di famiglia, che erano state, fin dall’inizio, la maledizione della politica franca.

Ignorando completamente le lezioni dell’esperienza, trattarono i loro regni come possedimenti privati da lasciarsi in eredità o suddividersi a piacimento come meglio dettasse l’affetto o la convenienza familiare. Da questa usanza disastrosa derivarono evidentemente molti mali che afflissero l’Europa durante il nono secolo».

L'esempio, dato dallo stesso Carlo Magno, di associazione al trono, seguito a breve distanza da tutti indistintamente i feudatari, che non riconoscevano più l’organo competente alla investitura, ma, arbitrariamente, ipotecavano il feudo come una eredità per i figli, fu il primo tarlo, che sforacchiò alla base tutta l’impalcatura imperiale. A tale periodo di confusione, che porta però già in seno il germe fecondo della nuova civiltà comunale, risalgono i primi atti, che si riferiscono alle nostre terre.

2. Una pergamena dell’anno 833

Sfuggì forse a quel grande ricercatore, che fu il Repetti, una pergamena più vecchia di quarant’anni e molto più interessante delle altre due, cui si riferisce scrivendo di Selvena.

Essa ci pone di fronte al figlio di un conte di Sovana, forse proprio del primo conte, Iffone o Griffone. Se è vero infatti che nella legislazione carolingia, i duchi furono sostituiti dai conti, all’epoca della nostra pergamena (anno 833), solo una sessantina di anni erano trascorsi dalla prima calata di Carlo Magno in Italia ed appena una trentina dalla sua incoronazione.

Esercitavano, in un primo tempo, i conti, lo stesso potere dei duchi Longobardi, come amministratori locali del fisco imperiale. E per quanto nei campi, una volta fertili e redditizi, si addensassero ora rovi e sterpi invadenti, per quanto sulle colline ventose intristissero gli olivi e le vigne, pure bestiame di ogni specie pascolava sparpagliato accanto alla boscaglia impenetrabile.

Non mancavano neppure abitazioni rurali, in largo raggio, attorno ai centri che rivestivano sempre una certa importanza, anche se decaduti, come Sovana, la vecchia città, che già nel maggio o giugno del 592, aveva subito il gravame di Ariolfo.

I fondi sono punteggiati da gruppi di case, i villaggi, detti nelle secche cartapecore «vici» o «bici», sorti per lo più accanto alla chiesa.

Diversamente il vocabolo «casale», in genere, significa la campagna, che si stende attorno al vico o villaggio, spesso con alloggiamenti per uomini e bestie.

La distanza ragguardevole, che intercorreva fra una borgata e l’altra, fra un casale e l’altro, non era tale da impedire riunioni e ritrovi, anche per uomini costretti a spostarsi con cavalcatura o, il più delle volte, a piedi.

Del resto la vita appartata corrispondeva pienamente al sistema dei Longobardi, che avevano il gusto di abitare alla spicciolata, in case lontane le une dalle altre. Fissavano la loro dimora senza un ordine prefisso, qua e là, dove fosse una «fonte o un campo o un bosco, che attirasse la loro attenzione» .

Dopo aver distrutto, saccheggiato, arso le città ed i conglomerati urbani, non tanto per mania di distruzione quanto per una inspiegabile rivolta contro la civiltà e la società, ora si ritiravano a vivere nelle campagne, divenuti oziosi, sonnolenti e ghiotti, più di quanto non fossero stati fieri e bellicosi in guerra .

A poco a poco però si accostavano, per curiosità, e si amalgamavano, per necessità, ai nativi, precedentemente sospinti con paura e repulsione a dislocarsi per le campagne.

Non è da meravigliarsi quindi se la terra, nell’ottavo e nono secolo, incomincia a redimersi da quello svilimento profondo, in cui era inesorabilmente piombata. I monaci amiatini, come del resto quelli di altri monasteri, avevano potuto costituire un vero latifondo «barattando un cavallo ed una semplice spada con un oliveto» .

A volte erano state le vecchie ville romane, i soggiorni prediali delle nobili e decadute casate patrizie, ad accogliere gli avidi invasori longobardi; come nel caso di Semproniano, che vediamo oggetto di cessione fra due fratelli, ai tempi di Lotario, nell’anno 849.

Ma più spesso i beni del fisco, le terre del contado, il latifondo dei monasteri erano tenuti da livellari: povera gente, tutta dedita al lavoro manuale dei campi, che riceveva in enfiteusi case, corti, orti, vigne, prati, selve, pascoli, acque e ruscelli, corrispondendo, una volta all’anno, un canone, in denaro, e più spesso in natura.

Qualche volta, andando ad oste, al seguito del padrone, se eran tanto fortunati da ritornare, rimanevano sgravati e liberi dal censo pattuito, come da ogni altra prestazione.

Appunto, ad uno ditali livellari, il figlio del conte Iffone di Sovana, Stefano, cede una casa in «Silbina» nell’anno 833 .

«Nel nome del nostro Signore Gesù Cristo. Sotto l’impero del nostro signore piissimo sempre augusto Lodovico, incoronato da Dio grande imperatore, nell’anno diciannovesimo, grazie a Dio, del suo impero e nel quinto anno della reggenza sulla sede santissima del beato Pietro, principe degli apostoli, di papa Gregorio nel mese di gennaio, undecima indizione, felicemente. Nel nome dunque del Signore, io Stefano figlio di Iffone di buona memoria, conte della città di Sovana, in questo giorno, do, cedo, dono, trasmetto e con atto di cessione confermo a te, David, mio livellario, figlio del fu Pisanello, la casa e e sostanze di mia proprietà in Selvena dove tu attualmente abiti, e cioè la casa stessa con la corte, l’orto, le vigne, i prati, le selve, i terreni dicioccati (citina), pascoli, le acque ed i canali di conduzione, il coltivato e l’incolto, mobili ed immobili, in tutto e per tutto ciò che appartiene alla casa suddetta ed alla proprietà, integralmente e senza limitazione, io estendo e trasmetto a te, David, ed ai tuoi eredi, la facoltà di possederla, di venderla, di donarla o permutarla, ed abbiate il pieno diritto di agire e comportarvi secondo la vostra volontà in ogni circostanza per questa nostra donazione. E a conferma e garanzia dell’atto di cessione ho ricevuto, io Stefano, da te David, a titolo di laudemio un paio di manicottoli , perché questa mia donazione debba restare ferma e valida, e se, in futuro, qualcuno dei miei eredi vorrà contrariare o violare, o disfare, o sciogliere questa donazione, o non potessi difenderli da qualsiasi persona, tu possa pretendere il doppio della valutazione, che verrà effettuata, in quel tempo, della casa e della proprietà. Fatto nella corte dello stesso Stefano in Figgilone sotto la data e l’indizione soprascritte.

Io Stefano ho sottoscritto questa carta per me fatta.

Segno + di mano di Bonifacio testimone richiesto.

Segno + di mano di Pietrone mandatario test. richiesto.

Segno + di mano di Adeodato da Agello test. richiesto.

Segno + di mano di Landolfo di San Savino testimone.

Io Damniso notaio richiesto ho compilato e consegnato l’atto dopo averlo completato».

A distanza di quarant’anni (an. 873, giugno 26), dal documento presentato, ne troviamo un altro. Un certo David, non quello dell’atto precedente, «David del fu Pisanello», ma «David del fu Agiberto» vende ad Angelberto, preposto del monastero di San Salvatore sul Monte Amiata, tutti i beni e sostanze ereditate dai parenti tanto di padre che di madre, posti nel territorio di Sovana, nel casale Silbina e altrove, ed in compenso riceve, presente Ardone scabino, 100 soldi in oro ed in argento. In Chiusi, Orso not.»

E nel maggio dell’anno successivo (an. 874) l’archivio dei monaci del Monte Amiata registra un altro documento simile. «Guidone del fu Andolfo, del vico Silbina, vende al Angilberto, preposto di S. Salvatore sul Monte Amiata, i beni e le sostanze che aveva comprato da Monalfo nel fondo del casale Silbina, e ne riceve per prezzo 60 soldi. Dentro le mura della città di Sovana. Leone not.»

I documenti citati sono due semplici atti di vendita o di cessione di beni, da parte di privati al monastero di S. Salvatore sul Monte Amiata.

Nel primo documento la proprietà terriera, annessa alla casa, era evidentemente ben conosciuta, ché altrimenti sarebbe stata presentata con una descrizione più dettagliata dei confini, in modo da non creare equivoci, neppure nella più estranea delle persone.

Nel secondo invece sono ben chiariti i vocaboli, con cui i due fondi costituenti l’atto di vendita, sono chiamati comunemente, uno «vado Reo», il secondo viene classificato come «clusura Arisilde». Il termine «clusura, chiusa», che spesso ricorre negli scritti amiatini, denota sempre un recinto artificiale, creato per precludere ad ogni estraneo il fondo.

E quando si presenta tale speciale dicitura, indica sempre una terra circoscritta, conosciuta da tutti, destinata ad una speciale coltivazione, che ne impedisce l’uso o il passaggio a chiunque, come potrebbe essere un orto, una vigna, un giardino.

Tutta la proprietà ceduta giace nella campagna attorno a Selvena; nel secondo caso, probabilmente poco distante dall’abitato vero e proprio, «in fundo vico et casali Silbina».

Da notare infine come i due contratti, rogati, il primo a Chiusi, e l’altro proprio «entro le mura della città di Sovana», rechino, a sostegno ed a prova della conversione effettuata, un certo numero di testimoni, presentati e voluti da chi richiedeva la scrittura dell’atto stesso.

Alcuni firmano regolarmente il documento steso dal notaro «Ego... rogatus testes subscripsi», altri invece si limitano a tracciare una croce, perché analfabeti.

In ambedue le scritture, i venditori David e Guido, non sanno scrivere, ed appongono un segno di croce con la propria mano, «Signum + manus...».

Nell’atto dell’873 il prezzo di cento soldi, pattuito per la cessione, viene versato seduta stante, in presenza di un’autorità, di uno scabino, che a maggior garanzia rilascia la sua affermazione, «Ego Ardo scabinu ante me ipsum precium dat. Aff.», io Ardone scabino affermo che il prezzo fu pagato in mia presenza.

3. Una supplica dei monaci amiatini a Enrico IV

I duecento anni, dopo l’ultimo documento che ricorda Selvena, passarono come un turbine violento sull'Italia, anzi sull’Europa.

Restaurazioni e destituzioni di re ed imperatori, papi ed antipapi eletti e spodestati, guerra sorta fra gli uni e gli altri. Ed infine tutto l’odio ammassato all’interno delle due potenze, impero e Chiesa, esplose in quel cozzo formidabile, che coinvolse, volenti o nolenti, tutti i ceti sociali: gli straccioni della pataria ed i baroni dell’impero, i poveri curati semianalfabeti di campagna ed i cardinali astuti della curia romana. Alla data del nostro nuovo documento (luglio 1081) è già scoppiata la tempesta fra i maggiori esponenti delle due agguerrite fazioni.

Enrico IV, bambino di appena cinque anni (nascita l’11 novembre 1050), era succeduto al padre Enrico III nel 1056, sotto la reggenza della madre Agnese, una donna irresoluta, affatto esperta del regno, in balia dell’arcivescovo di Colonia, Annone, affetto da campanilismo acuto, che non seppero frenare gli impulsi naturali del giovane, né educano alla diplomazia, né esercitano nell’arte del comando.

Il giovane Enrico, appena uscito di minorità, inesperto e testardo, cresciuto in un clima da guerra fredda verso il clero romano, si trovò presto a dover combattere e reprimere una insurrezione di oppositori interni, i Sassoni, che si erano rafforzati od illusi nel disordine della reggenza.

L’esito favorevole lo incoraggia a cercar amicizie, consensi e concordanze fra gli ecclesiastici di elezione imperiale, che covavano un odio basso verso la curia romana ed il papa in particolare. Gregorio VII, quando fu acclamato pontefice (an. 1073), aveva già superato da qualche anno la cinquantina, ed aveva acquisito un tale allenamento in campo diplomatico, a contatto diretto con cinque papi, da poter far fronte a qualsiasi impresa agonistica. Mirava diritto al traguardo, l’indipendenza e la purezza della Chiesa, poggiando massimamente su un intransigente senso di giustizia, forse troppo soggettiva, ma certamente richiesta dalle contingenze, che ammettevano solo tagli netti e colpi ben assestati, senza cincischiamenti e senza sbavature. Non posso dilungarmi nella rievocazione di un periodo burrascoso, di una lotta feroce scaturita fra un imperatore caparbio ed un papa irremovibile, sorretti l’uno e l’altro da una folta schiera di esaltati, che si accapigliavano e si sbranavano a vicenda.

Quella che comunemente va sotto il titolo di “lotta per le investiture”, è in realtà una guerra di riscatto e di riabilitazione, di predominio e di supremazia.

Tutti i libri di storia ne sono pieni.

Con diversa risonanza, ma certamente con non minore impegno ed acredine veniva combattuta, nello stesso periodo, una lotta ad oltranza fra i monaci dell’abbazia di San Salvatore e gli esponenti della casata Aldobrandesca. L’abbazia del Monte Amiata, nata dall’ossequio religioso e dal fanatismo longobardo, in quasi tre secoli di esistenza, aveva congregato attorno ai primigeni beni dotali, attraverso acquisti, donazioni e lasciti, un patrimonio fondiario, che andava dall’Amiata al mare di Talamone e di Tarquinia (Corneto).

I numerosi possessi risultarono però frazionati e disseminati qua e là, in diversi luoghi, a volte molto distanti fra loro, e principalmente dall’abbazia madre. Difficile quindi il controllo e la gestione da un unico centro. Era indispensabile distaccare monaci e conversi, erigere celle filiali del monastero, non solo per regolare l’andamento delle coltivazioni, per assistere le mandrie di bestiame, pecore, maiali, cavalli, ma anche, e soprattutto, per dirigere l’economia, assistendo alla raccolta, alla spartizione dei prodotti e curando la spedizione ai magazzini centrali del monastero.

Tanto più era necessaria la presenza dei monaci, nei fondi lontani, in quanto la proprietà del monastero era considerata una preda facile da parte dei confinanti, dei signori vicini. I documenti amiatini offrono con ricchezza testimonianze di continui compromessi, di processi clamorosi, intentati dagli abati in difesa dei loro possedimenti, o per l’imposizione ed il riconoscimento dei loro diritti.

Tutto a scapito della disciplina monastica, che rappresentava il legame indispensabile per le finalità dell’ordine benedettino. Il monastero spesso rimaneva spopolato, i dormitori ed i refettori quasi vuoti, ed i monaci vivevano lontani dalla casa madre, senza troppo curarsi delle prescrizioni della regola. Forse a tale sistema di vita, a questa primordiale attività rurale, deve attribuirsi il fatto che il monastero di San Salvatore, per quanto antico, non riuscì mai a conquistare quell’ascetismo ardente, che fece erigere, accanto ai chiostri silenziosi, le navate imponenti di quei luoghi, che anche oggi stupiscono per la loro magnificenza e per il loro ardimento. La querimonia dei monaci amiatini presenta una situazione quasi incomprensibile per noi.

Nella arroventata lotta, fra clero ed impero, appare chiaro come essi ripongano in quest’ultimo le loro speranze e la loro fiducia. E evidente che sull’Amiata non si era sentito neppure l’eco del sussulto di vita nuova, riformatrice, che traboccava da altri monasteri. Non mi sembra del resto che la sola aspirazione al riconoscimento di abbazia regia, propugnata dai monaci in ogni tempo, sia da ritenersi sufficiente e valido motivo per spiegare la loro azione partigiana. Ammettendo che Gregorio VII derivasse dalla casata Aldobrandesca, aspetti nuovi si aprirebbero nel comportamento dei monaci di Abbadia San Salvatore, e maggiormente in quello dei due figli di Ildebrandino V, Ranieri ed Uguccione, cugini (secondo il Ciacci) del papa battagliero.

Su Enrico IV pesava la fama di una nuova scomunica, addossatagli dal pontefice nel Concilio di Quaresima, il 7 marzo 1080 2 anche se era stato liberato dalla prima, dopo la spettacolare umiliazione di Canossa (25-27 gennaio 1077).

Non potevano ignorare i monaci il rischio della repressione in cui sarebbero piombati, parteggiando per l’imperatore.

Ma la scelta era giustificata dalla persecuzione senza sosta perpetrata dai figli di Ildebrando V Aldobrandeschi, ai danni del monastero, usurpando il bestiame, appropriandosi delle derrate, distornando i coloni dai lavori agricoli per la costruzione dei castelli, occupando le terre e le fattorie più redditizie. Indubbiamente la supplica indirizzata all’imperatore, mentre faceva ritorno all’amica Lombardia, dopo il vano assedio di Roma (21-22 maggio 1081) , contiene molta verità, anche se espressa in frasi ampollose e retoriche.

Del resto non era la prima volta che il monastero subiva i soprusi della casata Aldobrandesca.

«... lldebrando (V), conte, figlio del fu Ildebrando, confinante da più parti colle Castella e Corti del monastero, da protettore fattosi aggressore (del medesimo), conforme successe a non poche Badie, aveva esteso la sua padronanza in una gran porzione, e forse nella migliore delle sostanze del medesimo, con danno gravissimo dell’abate e dei poveri monaci. Né contento di sì strane usurpazioni chiudeva non solo gli occhi alle ruberie e violenze dei suoi vassalli e dipendenti, che a pregiudizio della Badia ingrassavano, ma di più mandava egli i suoi castaldi e ministeriali indoverosamente nelle castella e villaggi della medesima a tener placiti, ad amministrar la giustizia e ad esiger tributi, ad estorcere dai coloni quello che loro piaceva, e quanto arbitravano dovuto ai loro seniori. Non mancavano mai titoli, a costoro, o diritti ideali, ed in ogni caso restava loro sempre il pretesto di esser Patroni e difensori per riguardare i beni di luoghi pii, quali loro allodiali e dipendenti per ragione della clientela. Si può ragionevolmente presumere che i poveri monaci colle più adattate maniere s’industriassero per indurre il conte prepotente a rammentarsi della giustizia o almeno ad usar loro maggior carità. Ma vedendo inutile ogni ulteriore tentativo, imitando l’esempio di Guinizone, e d’altri abati oppressi dei monasteri d'Italia, inviossi l’abate Tenzone con Ranieri suo avvocato incontro ad Arrigo III (Enrico III) , re di Germania, che nell’autunno dell’anno 1046 calava in Italia, desideroso più che d’ogni altro di ricever la corona imperiale. Alla corte detta di Martori (oggi Poggibonsi) nei primi di xmbre (dicembre) dovette il nostro abate incontrarsi nel Conte Ildebrando, in Guido vescovo di Volterra ed in Arrigo Gran Cancelliere del Re, i quali facevano la loro Corte, ed accompagnavano il Sovrano alla volta di Roma. Venne a questi naturalmente fatto di scoprir l’animo esacerbato dell’abate, che doveva aver stabilito di presentarsi al Monarca per implorare giustizia contro l’aggressore del suo monastero, ed è ben probabile che gli stessi personaggi si interessassero a comporre l’affare, inducendo il Conte alla restituzione e cessione di quanto aveva ingiustamente usurpato. Nel giorno 6 dicembre dell’anno 1047, md. XV, che corrisponde più veramente per l’epoca pisana, qui usata, al 1046, restò conchiuso l’accomodamento, nel quale il Conte Ildebrando ricevuta dall’abate non so qual Rosa d’oro «reputat» e restituiscegli «castellum de Monte Nigro (Montenero) et castellum de Monte Latrone (Montelaterone) cum omnibus ecclesiis, et castellis, muris et fossis atque munitionibus eorum, cum omnibus domnicatis et mansis, villis, protis, quos usque modo vobis et Monasterio vestro malo ordine detenuimus...».

Promette quindi di non mandare ulteriormente gastaldi e ministeriali, e di non imporre «malas consuetudines» e renunziare alle di già imposte sotto la pena di cento libbre «auri optimi», restando così stabilita una perpetua pace .

Il fatto è ricordato anche nella nuova supplica presentata dall’abate Gerardo al giovane imperatore Enrico IV, forse a dimostrazione dell’impegno, che mosse i suoi avi nel soccorrere quel monastero rimasto sempre aderente e fedele alla politica imperiale. Le terre appetite dai conti ora non sono più quelle dello spartiacque destro dell’Ombrone. Si sono aggiunte anche quelle dei versanti del Paglia, dell’Albegna, della Fiora, che il lavoro costante dei coloni avevano trasformato interamente. Selvena ha acquistato maggiore importanza, una nuova dimensione, un progresso inevitabile legato ad una scelta collettiva.

Non è più il casale di duecento anni addietro; una nuova struttura, il castrum, cioè un’opera di fortificazione, garantisce la vita dei livellari dalle incursioni dei predoni.

Il fondo certamente abbraccia tutta la zona della valle della Fiora, che si stende massimamente sulla sinistra, da Selva di Monte Calvo (Santa Fiora) fin sotto l’attuale Querciolaia, quasi a toccare Montebuono (Sorano), dove però «ebbe possessi fino dal Mille la badia di S. Pietro a Monteverdi di Maremma, in favore della quale l’imp. Arrigo III spedì un privilegio in data di Colonia, lì 7 maggio 1040, cui fra le altre corti confermò queste di Montebuono e di Patrignone, poste nel contado di Sovana» .

Ecco dunque la traduzione del memoriale o supplica indirizzata dai monaci amiatini a Enrico IV.

«Per l’amore di Cristo Salvatore, o padrone! Voglia riconoscere la tua pietà come i tuoi servi non si stanchino mai di pregare per la tua incolumità, e perché il tuo potere sulla terra perduri indisturbato il più a lungo possibile. Le violenze gravissime perpetrate ai danni della tua chiesa, o re nostro padrone, dai conti limitrofi sono aumentate indicibilmente, e ci costringono a ricorrere alla tua autorità con profondi lamenti.

Così quando anche il nostro padrone, tuo religiosissimo padre, poté conoscere dall’abate del tempo i maltrattamenti, identici a quelli attuali, che allora venivano inferti ai tuoi servi del monastero di S. Salvatore, dal conte Ildebrando, mosso profondamente a compassione, ordinò che (il conte) si presentasse subito al suo cospetto e, trattandolo molto energicamente, l’obbligò, sotto giuramento, a restituire al monastero tutto ciò che vi è stato riferito in diversi scritti.

Ma appena ritornato oltralpe, ricominciarono le miserie ed i saccheggi di prima, anzi anche peggiori, sicché a mala pena potremmo raccontarli.

Quanto infatti, dopo la morte del padre, ci abbiano fatto soffrire i suoi figli, Ranieri e Ugo, solo la tua carità può immaginarlo, o Signor nostro. Già quando scendesti la prima volta in Lombardia l’attuale abate, che per tua concessione governa questa chiesa, ti fece informare di tutto.

E tu, o piissimo, disponesti che fosse loro indirizzata una lettera, (parole grevi, degne della tua severità), perché desistessero da ogni molestia.

Ma essi, più che mai divenuti rabbiosi, ordinarono ai propri armati, che se avessero incontrato o l’abate o un monaco qualsiasi, lo avessero fatto fuori, senza tanti ripensamenti. E sarebbe senz’altro successo, se l’abate non si fosse allontanato temporaneamente dal monastero.

Perché la tua casa (il monastero) è circondato praticamente da fortificazioni, e (i conti) costringono i coloni dei tuoi servi (i monaci) a lavorare continuamente nella costruzione di bastioni e di fosse a difesa.

Da quando poi si è diffusa più insistente la voce della tua venuta, li hanno requisiti e obbligati addirittura per trenta giorni consecutivi in opere attorno alle loro fortezze.

Non ti sia nascosto neppur questo, o Signore, che quando conoscono un dipendente del tuo monastero, che sta bene a quattrini, se lo fanno subito amico, sottraendolo insieme al suo bestiame al servizio del monastero. Così attirano gli uomini addetti al lavoro dei tuoi servi nelle loro reti e non li lasciano più scappare, se non pagano un riscatto in danaro.

E non risparmiano nemmeno gli assistenti, che sequestrano appena si presenta l’occasione: un guardiano ha dovuto sborsare cento soldi, un altro cinquanta per riacquistare la libertà. Per di più collocano commissari propri in tutti i cascinali del monastero, dove si raduna tanta folla come nei giorni di processo e, mettendo su banchetti e bancarelle, spogliano di quel poco che possiede la povera gente.

In particolare uno dei figli del defunto conte, quello chiamato Ugo, superando in tutto e per tutto suo padre nella cattiveria, ha occupato una fattoria del monastero, di nome Sala e i suoi armati hanno rubato i buoi, addetti al lavoro dei nostri campi, sotto la sorveglianza di un monaco più anziano, ed hanno rapito gli asini che trasportavano il vino per i tuoi servi all’abbazia. Anche nella zona di Gravilona, si ingegna a costruire palizzate e steccati, con gli uomini della tua chiesa, attorno alle sue fortificazioni. Perché il conte detiene in suo potere operai che, secondo gli antichi privilegi regi, dovrebbero invece lavorare per il monastero. Egli ne ha fatto una masnada di ladri, che continuamente escono a predare le terre della chiesa, e a far carneficina di cavalli. Vicino alla terra murata di Selvena si è impossessato di una fattoria, che ha concesso ai suoi seguaci, come fosse roba sua.

L’altro fratello di nome Ranieri si è istallato addirittura nella fattoria chiamata Santa Fiora, che conta più di cento poderi, sicché noi non azzardiamo neppure più a reclamarla per il monastero.

Con la stessa disinvoltura si è appropriato del bosco, dotazione stabile ad uso dei suoi servi, nel territorio di Campusona e vi effettua tagli indiscriminati, quotidianamente a suo piacere e vantaggio, come negli altri luoghi.

Anche nei dintorni di un altro suo distretto, chiamato Castel Marino, ha adibito e tratta le borgate di Piano (Castagnaio) e di San Cassiano, come fossero proprietà privata, chiudendole e mettendovi a capo dei fattori, che gli procurano trenta libre all’anno.

Hanno preso possesso anche di un’altra fortezza vicina al monastero, Radicofani, che sappiamo con sicurezza di vostra pertinenza, e non conosciamo alcun diritto legale che possa avallare la loro occupazione. Dalla numerosa compagnia di armati adunata là dentro dobbiamo sopportare giornalmente ogni specie di vessazioni.

Troppe cose, o Signor nostro, ci tocca tralasciare per non approfittare della tua bontà, ma le puoi trovar annotate nelle lettere che ti sono state rimesse.

Di questo ti preghiamo, che tu non voglia stornare da noi la tua attenzione, perché siamo ridotti a tale miseria che nella casa tua (il monastero), dove solitamente cento monaci vivevano nel servizio divino e nell’orazione incessante per la conservazione della tua salute, ora appena dodici possono trovar sostentamento. E se tu lascerai ancora che abbiamo a soggiacere a tali tribolazioni, sappia pure la tua autorità che (i monaci) non potranno ancora durare a rimanervi a lungo.

Solo l’attesa speranza del tuo aiuto ci ha dato la forza di vivere in mezzo a queste miserie e a questi travagli. Ora ti scongiuriamo, per la salvezza del tuo e del nostro monastero, che tu abbia presente ciò che abbiamo descritto, perché la casa di Dio, che sovrani religiosissimi eressero a servizio del Signore, non si tramuti, per colpa degli uomini, in abitacolo dì uccelli e di animali selvatici»

4. Gli «Annali della Terra di Santa Fiora» di padre Battisti

Tutti i documenti, da me illustrati, furono completamente sconosciuti al padre Agostino Battisti, al naturalista Michele Mercati ed al fisico Giorgio Santi, gli unici (oltre gli accenni poco apprezzabili di qualche studioso senese) che abbiano lasciato scritto qualcosa di storico a proposito di Selvena. Quanto riporto dagli «Annali della terra di Santa Fiora» del padre Battisti, deve essere inteso come riferito al misero e malagevole caseggiato, oggi interamente distrutto, che attorniava l’antica rocca Aldobrandesca, e non alle attuali abitazioni, che sorsero, da principio, sparpagliate qua e là, e solo in seguito e più recentemente, si rinfittirono e si saldarono fra loro.

«Abbiamo chiamato questo luogo Borgo o Contrada, perché questo nome ce lo danno l’antiche cartapecore del 1300, avendo noi veduto e letto alcuni testamenti fatti in quel luogo che dicono: Datum in Vico Silbinae. La parola Vico non vuol dire Terra o Castello, come i moderni la chiamano, ma bensì borgo o contrada, o viottolo, o piccola via, ed alle volte si prende anche per villa, come scrisse Cicerone a Terenzia, che voleva vendere la sua villa: “Quod ad me, mea Terentia, scribis te vicum venditurum, quid, obsecro te, me miserum, quid futurum est puero?” lib. 14.

La parola Silbinae — scritta con la «B» e non con la «V» — non faccia alcuna meraviglia, perché gli antichi ed anche buoni scrittori si servivano di questa lettera, invece della «U», come anche Cicerone scrisse «abfero» per «aufero», «abfugio» per «aufugio»; ed anche la parola «Vicus» si scriveva «Bicus». Ma lasciando di più discorrere di questi nomi, che non per altro abbiamo qui posto, che per erudizione di chi poco intende gli antichi latini, diciamo che questo Borgo di Selvena è molto antico, e quantunque non sappiamo chi sia stato il fondatore, con tutto ciò teniam per certo esserne stati gli Aldobrandeschi in tempo che eran governatori o conti assoluti della città di Sovana.

Questo borgo fu nei secoli bassi molto abitato per esservi le cave dell’argento, vitriolo, antimonio e mercurio; anzi noi pensiamo, che il nome Silvena derivasse da «Sylva et vena», cioè Bosco o Selva ripiena di vene, perché «vene» appunto son chiamate le cave di tutti i minerali. «Aeris, argenti, auri venas abolitas invenimus», come disse Ciceròne, De natura deorum.

Ottimamente dunque fu appropriato il nome di Selvena a questo borgo. Che vi fossero le vene o cave dell’argento, noi lo ricaviamo dalla divisione che fu fatta l’anno 1272, fra Aldobrandino figlio dì Guglielmo, conte di Sovana e l’altro Aldobrandino, figlio di Bonifacio, conte di Santafiora, quali essendosi spartiti tutti i luoghi che avevano, come a Dio piacendo, noi vedremo nel progresso di questa storia; e che il borgo di Selvena restasse al conte di Santafiora, con tutto ciò che le cave dell’argento restarono indivise, talmente che quell’entrata restava a tutto il ceppo della famiglia Aldobrandeschi. Questo luogo di Selvena fu assai forte per esservi una Rocca o Cassero , come anticamente chiamavasi, fatta con tutta l’architettura di quei tempi, e tanto più era forte, perché quivi conservavasi tutto l’argento, ed altro, che cavavasi da quelle vene

Presentemente il d.o Borgo è quasi tutto diroccato, ma vi resta in piedi il suo cassaro. Questo vien situato sopra una collinetta ripiena di scogli, che giace in un fondo, un miglio e poco più lontano dal fiume Fiora, e presentemente non vi è che poche case di contadini poste sotto questo fortilizio, che fanno conoscere l’antico borgo che vi era».

lo non condivido affatto l’opinione del padre Battisti che il nome Selvena derivi da una contrazione o fusione dei vocaboli «Sylva et vena».

L’idea, oltre tutto, risulta anche poco originale, in quanto, prima di lui, Michele Mercati, il grande naturalista e medico di Fucecchio, che così bene descrisse la preparazione del solfato di ferro nelle cave di Selvena intorno al 1590, e di cui ho già avuto modo di parlare, e riparleremo in seguito, con tocco quasi poetico, deduceva il nome Selvena dalla unione di due parole latine «Silva venarum», selva di vene.

Non saprei poi quale importanza attribuire a quanto è stato recentemente pubblicato. «Selvena (etrusco Selva e Selvethres thri; latino Silvius e Silvinus — inius); Schulze (Zur Geschichte lateinischer Elgennamen, Gòttingen 1904) osserva cautamente: “che il ceppo del nome è antico lo affermano i Silvii Albani, e insomma lo dobbiamo credere; ma nei particolari non so distingure l’antico dal moderno”.

Che peraltro il nome locale qui addotto risulti etrusco dal suffisso non par da mettere in dubbio. Selvena, Castell’Azzara, GR; probab. Silbina, in un doc. del giugno 873 e maggio 874 (Repetti)».

Da notare che, personalmente, stimo poco probabile ciò che dall’autore vien reputato vero (Selvena dal suffisso etrusco), e per vero ciò che dall’autore vien ritenuto probabile (Silbina per Selvena).

Ultimamente, e forse con maggiore garbo, il nome ha trovato un’altra interpretazione: «... Castel Silbenae (Selvena) dalla parola longobarda “silben” che significa “argento” e “argentiera” veniva chiamata la zona di Selvena».

Il castello era ancora in discreto stato, se vogliamo prestar fede ad un altro storico, il senese Pecci, che osservò le cose con i propri occhi intorno alla metà del sec. XVIII.

«Sulla costa della catena dei monti, lungo il corso del fiume Fiora a mano destra , ma seguendo la strada del convento della Santissima Trinità dei Riformati di S. Francesco (La Selva), e sulla costa, e scesa di detti poggi situato rimane il villaggio e rocca di Selvena. Questa dunque col di lei maschio è di pietre concie e merlata, con una sola porta e ponte levatoio ed è sopra una rupe o scoglio distante dal sopraddetto fiume due miglia circa. In oggi è in parte rovinata e serve per uso di granai del signor Duca; ma nel 1501 trovasi che era guardata da un castellano stipendiato a nome Manno».

La mia opinione è che il nome di Selvena (originariamente Silbina o Silvina) debba intendere, molto più prosaicamente, se si vuole, ma con maggior aderenza alla realtà, e va ritenuto come il diminutivo latino del nome «Silva» (Selva), cioè «Silvina» (Selvina, Selvetta), già in uso prima del Mille ed anche oggi forse, anzi quasi con certezza, in contrasto o per distinzione con altre zone circostanti più boscose e macchiose. Del resto il nome «Selva» è rimasto ad una terra poco distante, fra Santa Fiora e Selvena, già abbondantemente citata intorno agli anni dei documenti osservati, e dove, in epoca posteriore (an. 1490), sorse il convento dei Frati Minori su un preesistente romitorio.

Mi conferma tale pensiero anche il nome dato ad un’altra terra, di fronte a Selvena stessa, sulla sponda destra della Fiora, Cellena, che in un documento del 1114 è detta «Cellina» (cioè piccola cella), e nel decorso del tempo e dell’uso, ha subito la stessa alterazione fonica del nome Selvena.




5. La nascita del Castello

Con l’interpretazione da me offerta sulla etimologia del nome, troverebbe giustificazione lo stemma dell’antica Comunità, riprodotto anche dal padre Battisti nella sua opera. «Gli abitatori di questo luogo (Selvena) fanno Comune da sé e hanno il suo Gonfaloniere, ma tanto nel civile che nel criminale sono sottoposti al Vicario di S. Fiora, che prima chiamavasi Viceconte. L’arme di questo Comune è una torre con bandiera spiegata in cima, con due tronchi d’albero da una parte e l’altra, per dimostrare il sito in cui era posta la fortezza del luogo» .

Certamente già esistente nell’anno 1081, ma non nelle proporzioni assunte in seguito, nessun dato storico però precisa la data di nascita del nostro castello, e, al di fuori della necessità della difesa, non saprei quale causa l’abbia provocata. E' logico supporre invece che la fortezza sia stata eretta là dove esisteva una collettività già insediata in rispondenza delle migliori condizioni naturali, sia per una rozza tattica difensiva, sia per indispensabili vantaggi di sussistenza. Abbiamo notato infatti come le nostre terre siano state battute, fin dai tempi preistorici, per la ricerca del cibo ed, in tempi più civili, per il ritrovamento dei minerali. Soprattutto agli impianti barbarici o misti dobbiamo ascrivere la scelta dei luoghi, delle posizioni favorevoli, lontane dai miasmi delle zone paludose o dell’aria greve della maremma malsana, sempre vicino a sorgenti o corsi di acqua, su cui sorsero in seguito i castelli.

Le preminenze, le alture, i poggi già servivano ai possessori di bestiame, non solo per meglio vigilare e seguire le rotte degli animali pascolanti, l’unica risorsa e la più sicura ricchezza del tempo, ma anche per scorgere ad una considerevole distanza i razziatori, i predatori, che infittivano le campagne, di giorno e di notte, come le volpi ed i lupi.

La natura stessa del suolo, montuosa e sconvolta, non ammetteva che si potessero coltivare intensamente, come nelle pianure fertili per il terreno di riporto, le poche graminacee allora conosciute, il farro, la spelta dalle glume aderenti. Da per tutto branchi di pecore timide, di capre saltellanti, da per tutto mandrie di buoi mansueti, di cavalli lucenti. Nei boschi di cerri e sotto querce annose, i porci e gli asini alla ricerca di ghiande e di radici, di cardi e di rovi.

Le «masse» degli antichi romani, l’aggregazione dei «fundi», dove numerosi e tribolati schiavi lavoravano per il benessere del padrone, son divenute le «masie» del periodo barbarico e susseguente, ossia il grande podere affiancato da capannoni eretti su tronchi contorti di olmo, coperti di scandole, di paglia, di fascine, con le capienti rastrelliere, che si allungano a ridosso delle pareti.

Le vigne, gli orti, gli stazzi a steccato, le vaste chiusure a siepe si trovavano più in basso, ove defluiva l’acqua garrula della vicina immancabile sorgente.

La necessità di una difesa comune dai ladri, di interessi uguali da salvare, la considerazione che il vivere collettivo era preferibile alla vita solitaria, riportarono a poco a poco gli uomini a quel genere di esistenza sociale, già disprezzata e rifiutata dai barbari.

Sugli stessi luoghi poi sorsero le misere abitazioni in muratura, e furono quindi prescelti, sia per la più facile disponibilità di mano d’opera, sia per la stessa posizione strategica, nelle costruzioni delle prime fortificazioni.

Fra quelle sorte nel nostro territorio, indiscutibilmente la fortezza di Selvena è la più antica. Le si può assegnare come presunta data di nascita il secolo X o al massimo l’XI:

« e... nel trapoggiare, ci apparvero innanzi, come all’aprirsi di una scena, i ruderi del castello. La torre che lo dominava, e che doveva scoprire a molte miglia le campagne intorno, dall’Amiata alla valle della Fiora, che è lì sotto, e al Tirreno lontanissimo, è ora crollata più che a metà, e pare il mozzicone ancora minaccioso di un enorme scheletro d’eroe caduto combattendo. Ma è bello a vedere come ora tutt’intorno a quel carcame secolare verdeggia la vita dei sicomori, dell’ellera, di mille altre piante rampicanti, che lo abbracciano, o stringono, gli s’insinuano dentro da ogni parte e non son però ancora riuscite a scompaginarlo. Le pareti enormi, massicce, aperte qua e là in breccia come dopo un assedio feroce, non hanno dato un crollo sui fondamenti, che girano tutto intorno l’orlo della vasta scogliera, piombante a picco sulla Fiora da tale altezza di precipizi, che, a guardarlo di lassù, il corso del fiume s’appanna all’occhio per la lontananza». La struttura colossale, la potenza formidabile, che trasuda ancora dalle disastrose rovine, fanno ritenere che la tecnica dell’architetto e l’intento dei costruttori fu quello di preparare realmente una roccaforte, capace non solo di offrire un riparo sicuro alle truppe di stanza, ma di accoglierne altre eventuali, e soprattutto di resistere a lungo in caso di assedio.

Consisteva in tre distinti corpi, che si elevavano a strapiombo sul profondissimo botro roccioso del fosso Canala, un affluente minore della Fiora, racchiusi da due lati da una muraglia insormontabile.

Al centro, la rocca a due ripiani, vastissima, isolata, con ampio portone a sesto acuto. Le finestre, occhiaie vuote di una carcassa sbrecciata, si aprono al piano alto, verso tutti i lati. A terra, internamente, le strette feritoie dal capace strombo, il grande strappo del camino con la gola aperta ancora nera di fuliggine. Sul piano antistante, il grande deposito per l’acqua dalla forma a botte corpacciuta, ai piedi dell’enorme, elegantissimo càssero triangolare, che si erge ancora altissimo sul suo propugnacolo dallo spigolo ardente come una lama, quasi uno sperone navale di prora volta ad oriente.

È questa la parte meglio conservata, anche se il frontale, dove si apriva il grande portone, protetto all’esterno da un’altra torretta avanzata, è crollato su se stesso, si è ripiegato, anzi, come un troncone rotto dal tempo, non abbattuto dagli uomini. La terrazza menata dell’alta torre è sparita; sulla cima ha trovato vita un leccio scuro, che affonda l’apparato radicale fra le crepe del muro e le porosità della calce. L’interno, diviso in vari ripiani, da superare con scale di legno, facili a ritirarsi, all’occorrenza, da un giorno all’altro, in parte è riempito di macerie. L’unica apertura, un alto finestrino ogivale, che si apre a guardia del portone di accesso ai rivellini delle mura, dalle parte di scirocco, ne permette tuttora l’esplorazione, dopo che la porta vera e propria è stata superata e sotterrata dai cumuli dì pietrame, di mattoni, di calcinacci, un’immane maceria, tra cui germinano e si innalzano a stento i cardi pungenti, le ortiche urenti e le marruche spinose, come ad aumentare la tristezza del luogo. Alla parte estrema (di lì comincia a stendersi la muraglia ardita, che difende il lato sud-est e di levante), un unico muro, forato da finestrini, residuo degli ampi magazzini e delle stalle graveolenti, presenta ancora le due inclinazioni del tetto. Fuori delle mura, sul costone battuto dal sole di mezzogiorno, fra una fitta siepaglia di spini e di rovi, pochi resti di case ridotte a muriccia, testimoniano l’esiguità dell’antico borgo che fu Selvena. Emana e prorompe da tutto il paesaggio uno squallore muto, una desolazione amara, una contrazione spirituale, che sfrangia l’anima e la rode come una pena interna, sovrumana, incurabile.

Fonte: Tratto dal libro: Castell'Azzara e il suo territorio – Memorie storiche Giovanni Battista Vicarelli

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