Il fascino dell’Amiata




Una soave atmosfera di misticità circonda l’Amiata, le sue campagne deserte e ariose, i suoi paesi sereni e placidi, le sue vette solenni e assorte nell’estasi di panorami infiniti. Tutto, sulla “Montagna maremmana”, sembra immobile nel raccoglimento di una preghiera e nell’immutabile fissità «uno stupore antico.Tutto riconduce al silenzio e alla pace dei conventi, delle chiese e delle pievi che nella cerchia degli abitati pedemontani, ancora segnati dalle impronte di una remota nobiltà, sopravvivono operosi a vicissitudini secolari.

Per questo, non desta meraviglia più di tanto che proprio sull’Amiata sia sorto e abbìa preso vigore, nella seconda metà dell’Ottocento, quel sorprendente movimento religioso legato alla figura ascetica e carismatica del barrocciaio arcidossino David Lazzaretti di cui, a distanza di oltre un secoio, è sempre vivo lo spirito nella fede incrollabile di pochi, ma ostinati seguaci.

Senza dubbio, nel contesto di un ambiente ormai sciaguratamente violentato, fatto oggetto di continue devastazioni, questo autentico monumento alla natura, che si eleva gigantesco fra Grossetano e Senese, rappresenta una vera oasi di tranquillità, un’isola territoriale dalle intatte peculiarità primigenie. Potervi trascorrere una vacanza anche, e soprattutto, in periodi diversi da quelli della neve, e poterlo di tanto in tanto rendere semplicemente meta delle proprie escursioni, costituisce un fatto esaltante che riconcilia con gli affanni di una vita frenetica e ansiosa.

L’Amiata è silenzio, è quiete, è godimento spirituale, è spettacolo paesaggistico. Ci sono terse giornate d’inverno (ma anche d’ogni altra stagione) che conferiscono a questi elementi una indicibile capacità di destare emozioni, di meravigliare, d’indurre a considerare come l’uomo impoverisca irrimediabilmente la propria dimensione umana quando sfregia con i suoi interventi speculativi bellezze di questo singolare spessore. E sono giornate ideali per stabilire un contatto con l’ambiente, con la purezza arcaica, con la luminosità inebriante di questa montagna solitaria che dal suo culmine aereo permette di spingere lo sguardo verso lontananze smisurate in ogni direzione dell’orizzonte. Tutte le strade per raggiungerla sono invitanti ma una lo è, forse, più delle altre: quella che dalle fumide Terme di Saturnia si arrampica serpeggiando sulle pendici del Catabbiese, del Sempronianese, del Rocchigiano.

Man mano che si sale, il panorama si dilata, finché l’etrusca valle dell’Albegna, in cui si scorgono le prominenze di Saturnia, di Montemerano, di Manciano, di Marsiliana, non si manifesta in tutta la sua sconfinata vastità. Lontano, fra i promontori dell’Argentario e di Talamone, l’isola di Montecristo (e talvolta il profilo montuoso della Corsica) emerge con la sua tenue sagoma dal mare opalescente. La visione assume un carattere di grandiosità, come il crescendo maestoso d’una sinfonia.

Ora, oltrepassate le case di Petricci con il loro svelto campanile (o quelle di Cellena sotto la spettacolare rupe omonima, a seconda del tragitto che si sceglie) la strada si sgomitola fra boschi cedui con qualche presenza di conifere nella veduta prospettica del Monte Labbro (l’arido e spoglio Sinai del “santo” di Arcidosso) che sovrasta da un piano lievemente arretrato il turrito castello della Triana.

Il Medioevo è davanti ai nostri occhi a suscitarci sensazioni struggenti, a testimoniarci come i secoli siano trascorsi invano in questa piaga montanara rimasta ferma nel tempo, deserta, selvaggia, primitiva, forse più di quanto non lo fosse in epoca feudale sotto la dominazione dei molti Spinelli e Girolami della nobile famiglia Piccolomini.

Se da qui si percorresse in discesa qualche chilometro (cinque minuti d’automobile lungo la strada diretta a Orbetello e alla Costa d’Argento attraverso Scansano e Magliano in Toscana) si raggiungerebbe Roccalbegna, un gioiello di paese antico dominato dal suo proverbiale, gigantesco monolite (“Se il Sasso scrocca, addio la Rocca”), percorso da linde viuzze ortogonali e nobilitato da un retaggio d’arte pittorica che gode di celebri paternità, come quelle del Vanni, di Luca di Tommé, di Ambrogio Lorenzetti, di Domenico Beccafumi.

Ma il nostro itinerario è motivato dal fascino di più elevate altitudini; e quelle bisogna guadagnare.

Bastano alcuni tornanti a farci raggiungere un percorso più agevole che ha soprattutto nel versante orientale le direttrici privilegiate dei suoi punti di osservazione, anche se l’elemento paesaggistico che ora s’impone di più alla vista è il grande cono selvoso (castagneti, abetine, faggete) del Monte Amiata.

Ai suoi piedi ecco le Bagnore che si fanno annunciare dai lattiginosi pennacchi dei soffioni boraciferi; ecco, più a destra, l’aldobrandesca Santa Fiora, dove il centro storico, la Peschiera, la Pieve delle Sante Fiora e Lucilla ricolma di tesori robbieschi giustificano l’antico detto popolare “A Santa Fiora chi ci va ci s’innamora”; ecco, in posizione più estrema e solatia, la mineraria Selvena, terra natale d’un Beato Guido dugentesco, protagonista sfortunata, con la sua Rocca Silvana oggi ridotta in romantici brandelli, d’una strenua difesa contro l’esercito federiciano comandato da Pandolfo di Fasanella.

Allorché la corsa di avvicinamento alla montagna è conclusa, il quadrivio delle Aiole induce a scegliere la strada su cui proseguire. Dirigendosi verso sinistra, si è in breve nell’ameno Arcidosso del poeta contadino Giovanni Domenico Peri (1564-1639), del “profeta” David Lazzaretti (1834-1878) e della millenaria Pieve ad Lamulas dove avrebbero sostato Santa Caterina e San Bernardino da Siena; con altrettanta celerità si raggiunge il ridente Castel del Piano dei Nasini (una folta famiglia di pittori settecenteschi), paese lodato da Pio XI “per l’amenità del luogo e la freschezza e l’abbandonza delle acque”; e sempre con una manciata di minuti si arriva al mistico Seggiano, ammantato di olivi, in cui palpita ancora la memoria di un famoso cenobio, il Colombaio, che, fondato probabilmente da San Francesco d’Assisi nel 1221, vide avvicendarsi fra le sue secolari mura uno stuolo di santi e di beati, da Giovanni da Capistrano a Niccolò Silvani, da Pietro Pettinaro a Giovanni Colombini, da Alberto da Sarteano a Giovanni da Fermo, da Andrea da Piancastagnaio a Pietro da Trequanda.

Se invece si decide d’imboccare la strada che ci sta di fronte, è la Vetta (1738 mt. s.l.m.) che ci accoglie dopo un’impegnativa (per l’automobile) e costante arrampicata fra boschi meravigliosi, a volte autentiche cattedrali naturalistiche con le loro fustaie somiglianti a colonnati templari, alte su vasti spazi d’ombra e di quiete. E con la Vetta, la Croce. La grande Croce di ferro battuto del senese Zalaffi, solida, monumentale, con le sue braccia amorose aperte al mondo visibile ed invisibile, come a volerlo circondare d’un tenero amplesso. Vertigine. Ebbrezza. Stordimento. Mezz’ltalia è davanti al nostro sguardo. Si ha netto il senso del dominio, dell’immensità, dell’infinito. Si misurano la grandezza e la potenza del creato con la bilancia del nostro spirito finalmente vivificato, reso vibrante da tanta bellezza.

Tornati al crocevia delle Aiole, l’ultima strada che ci rimane da percorrere è quella per Bagnore e Santa Fiora. Dal singolare borgo natio dello scrittore Mario Pratesi, del pittore Memo Vagaggini e del compianto Padre Ernesto Balducci, si può scendere alla Cassia (per poi riprendere le vie del Soranese, del Pitiglianese, del Mancianese che riconducono al luogo di partenza) attraverso due itinerari: quello di Castell’Azzara e quello di Piancastagnaio e Abbadia San Salvatore. Entrambi sono piuttosto stimolanti, vuoi per il continuo rapporto con la natura che consentono; vuoi per la possibilità che offrono di conoscere paesi ricchi di storia, di tradizioni, di vera umanità montagnola, ch’è una specie rara d’umanità; vuoi, infine, per le scoperte culturali che permettono di fare, come quella del convento della SS. Trinità (XII secolo) non lontano da Santa Fiora, o quella della celeberrima Abbazia di San Salvatore, sede dei potenti monaci cistercensj che intorno al Mille esercitarono sull’Amiata un incontrastato potere politico e religioso.

Ma numerose altre comunità appartengono al territorio di questa montagna incantata: Montelaterone, Montegiovi, Montenero, Monticello, Castiglioncello Bandini, Seggiano, Castiglion d’Orcia, Campiglia d’Orcia, Radicofani. E tutte, per chi trascorra le proprie vacanze nei centri climatici più importanti e rinomati, presto facilmente raggiungibili, capaci di interessare e di stupire nel panorama geografico di una terra davvero fatata dove, per dirla con le semplici parole di uno studioso amiatino, Ildebrando Imberciadori, “bello è il paesaggio agrario, creato dall’opera dell’uomo, come bello è il paesaggio creato dalla natura”.

Fonte: Maremma Amara di Alfio Cavoli

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