Una famiglia di imprenditori ebrei a Pitigliano nel 700: i Servi

di Angelo Biondi




Gli ebrei di Pitigliano: polarizzazione e differenziazione economica

Intorno alla metà del '600 si verificò una progressiva polarizzazione verso Pitigliano degli ebrei sparsi nei vari centri sul confine tosco-laziale, con una certa accentuazione a seguito della distruzione nel 1649 della città di Castro, capitale dell'omonimo Ducato dei Farnese.

Tra la popolazione israelita di Pitigliano infatti si cominciano a trovare in questi anni sempre più ebrei provenienti da Scansano, Sorano, Castellottieri, Proceno e da Castro a seguito della sua distruzione, poi da Santa Fiora e Piancastagnaio nella seconda metà del secolo.

Nello stesso periodo cominciò a verificarsi tra gli ebrei pitiglianesi un netto aumento di numero, passando da 58 nel 1608 a 112 nel 1672, circa il doppio in poco più di sessantanni.

Contemporaneamente si creò tra gli israeliti anche una certa differenziazione economica, inesistente nei primi decenni del '600, quando la Contea, passata ai Medici nel 1608, vide la fuga del banchiere, la tassazione delle Comunità ebraiche di Pitigliano e Sorano per fare l'Acquedotto e la Fontana, l'istituzione del Ghetto a Sorano nel 1619 e a Pitigliano nel 1622; a seguito di tali vicende nel 1636 in una supplica degli israeliti della Contea si affermava che «li medesimi si ritrovano tutti in gran calamità e in generale tutti disfatti, che non hanno più traffichi né arte come prima, che tenevano botteghe aperte con varie merci...».

Sebbene la relazione tenda ad esagerare un poco, l'avallo delle locali Autorità come il Sindaco e il Governatore di Contea testimoniano che nella sostanza corrispondeva a verità.

Tuttavia in quegli anni gli ebrei di Sorano, che avevano potuto conservare piccole proprietà ed erano stati rimpolpati dall'immigrazione di israeliti facoltosi, come il mercante romano Giuseppe Natronai e i banchieri Daniele e Samuele Arpino e poi di David Borghi, tutti venuti da Santa Fiora, erano in migliori condizioni di quelli di Pitigliano, che ricominciarono però a risollevarsi dopo il 1635 quando si creò un collegamento per l'incetta di grano con il ricco banchiere ebreo di Piancastagnaio Ferrante Passigli, inserito in un vasto circuito di commercio regionale e interregionale. In pochi decenni però la situazione si rovesciò: la Comunità ebraica di Sorano aveva cominciato a diminuire di numero e si era impoverita, mentre quella di Pitigliano era aumentata, migliorando le sue condizioni economiche, tanto che nel 1678 si ebbe una vivace vertenza tra gli ebrei di Pitigliano e quelli di Sorano, che non potevano più sostenere che tasse e balzelli fossero ancora ripartiti in parti uguali tra le due Comunità, ormai non più numericamente alla pari; perciò gli israeliti di Sorano chiedevano che la ripartizione venisse fatta "a testa" e il Granduca li accontentò, riconoscendo la fondatezza delle loro ragioni.

Intanto tra gli ebrei pitiglianesi vi erano famiglie, che cominciavano ad emergere: una di queste famiglie è quella dei Servi, divisi in più rami, il cui cognome comincia a comparire proprio intorno alla metà del '600. In un elenco di ebrei di Pitigliano del 1678-79 compaiono le famiglie di Angelo Servi con quattro figli e di Salomone Servi con due figli, mentre non compare Giuseppe di Sabato Servi (è forse quello che nel 1688 risulta a Sorano?), che nell'ottobre 1677 descrisse i beni del fu Alessandro di Zaccaria, trasportati da Santa Fiora a Pitigliano e consegnati a Gentile vedova di Alessandro. Salomone Servi compare fin dal dicembre 1661, quando gli furono dati «in tenuta» i beni dell'ebrea Rosa, da poco defunta, mentre nell'agosto 1669, quando risulta debitore di tre staia di grano verso l'ebrea Pazienza, rimasta vedova di Giacobbe Montebarroccia, viene indicato come Salomone Servo ebreo, a dimostrazione che il cognome non era ancora del tutto stabilizzat6. E probabile che Salomone e Angelo Servi siano stati figli di quel Servo d'Agnolo, che appare in un elenco di capifamiglia ebrei di Pitigliano per una contribuzione forzata del dicembre 16447; dunque il cognome Servi sembra derivare dal patronimico Servo.

Dall'elenco del 1644 Servo d'Agnolo non risulta particolarmente ricco, ponendosi tra i mediocri con un'imponibile di 80 scudi; se ne deduce che il decollo economico avvenne con i figli, specie con Salomone Servi, attraverso l'attività commerciale, forse avviata grazie a prestiti di denaro. Infatti nel testamento del 1668 di un facoltoso ebreo pianese: Zaccaria Montebarroccia, risulta che egli in precedenza aveva fatto prestiti della durata di cinque anni ad alcuni ebrei pitiglianesi, tra cui Salomone Servi, che aveva avuto 100 scudi. Salomone esercitava una attività mercantile, che si andava estendendo, come si può arguire dalla richiesta dello stesso Salomone del maggio 1687 per chiedere l'esonero dal portare il segno distintivo, dichiarando che «giornalmente gli si presenta occasione di transitare per negozi nelle fiere di Pisa e Livorno e per tutti li Stati vecchi e nuovi (del Granduca di Toscana)».

Il Governatore di Pitigliano Luigi Giraldi appoggiò la richiesta, affermando «esser verissimo... transitar l'oratore continuamente alle fiere, nel qual caso... sono molti l'esempi di V.A.S. dell'esenzione del segno ad altri ebrei perché ridonda di vantaggio della popolazione e si porge il motivo maggiore al traffico ...».

Salomone Servi dunque si dedicava al commercio ad ampio raggio nel Granducato, comprese le città di Pisa e Livorno, dove possiamo credere che avesse rapporti con i correligionari di quelle città ed evidentemente non gli bastava più l'esonero dal segno per quattro giorni, previsto dal Rescritto del Granduca del 29 settembre 1655.

Anche il figlio Servo di Salomone Servi,continuando l'attività commerciale, il 12 agosto 1728 chiese di godere non solo dell'esonero dal segno, ma di tutti i privilegi ed esenzioni, concessi nel 1700 dagli Otto di Balia di Firenze al suocero Beniamino di Samuele Nepi «per sé e famiglia e discendenti», avendone sposato la figlia Allegra; in sostanza Servo Servi chiedeva di «poter fare tutte le sorte di Arte e Mercanzie, non essere tenuto portare alcun segno differente da cristiani, di poter tenere bottega fuori dal Ghetto e abitare fuori dal medesimo Ghetto, poter portare lui e sua famiglia armi di giorno e di notte non proibite in Firenze e tutti li suoi felicissimi Stati ... insomma tutti i privilegi che gode qualsivoglia ebreo tanto in Firenze quanto in tutti gli Stati di S.A.R. vecchi e nuovi nella forma altre volte concessa ad altri negozianti ebrei...».

Tra la fine del '600 e i primi del '700 furono molti gli ebrei pitiglianesi, che chiesero ed ottennero l'esenzione dal segno per motivi di commercio, tenendo conto che la Comunità israelitica di Pitigliano era in notevole crescita per l'immigrazione di ebrei delle varie Comunità vicine, avviate.

Dall'elenco del 1644 Servo d'Agnolo non risulta particolarmente ricco ponendosi tra i mediocri con un'imponibile di 80 scudi; se ne deduce che il decollo economico avvenne con i figli, specie con Salomone Servi attraverso fattività commerciale, forse avviata grazie a prestiti di denaro. Infatti nel testamento del 1668 di un facoltoso ebreo pianese: Zaccaria Montebarroccia, risulta che egli in precedenza aveva fatto prestiti della durata di cinque anni ad alcuni ebrei pitiglianesi, tra cui Salomone Servi, che aveva avuto 100 scudi. Salomone esercitava una attività mercantile, che si andava estendendo, come si può arguire dalla richiesta dello stesso Salomone del maggio 1687 per chiedere l'esonero dal portare il segno distintivo, dichiarando che «giornalmente gli si presenta occasione di transitare per negozi nelle fiere di Pisa e Livorno e per tutti li Stati vecchi e nuovi (del Granduca di Toscana)».

Il Governatore di Pitigliano Luigi Giraldi appoggiò la richiesta, affermando «esser verissimo... transitar l'oratore continuamente alle fiere, nel qual caso... sono molti l'esempi di V.A.S. dell'esenzione del segno ad altri ebrei perché ridonda di vantaggio della popolazione e si porge il motivo maggiore al traffico ...».

Salomone Servi dunque si dedicava al commercio ad ampio raggio nel Granducato, comprese le città di Pisa e Livorno, dove possiamo credere che avesse rapporti con i correligionari di quelle città ed evidentemente non gli bastava più l'esonero dal segno per quattro giorni, previsto dal Rescritto del Granduca del 29 settembre 1655.

Anche il figlio Servo di Salomone Servi,continuando l'attività commerciale, il 12 agosto 1728 chiese di godere non solo dell'esonero dal segno, ma di tutti i privilegi ed esenzioni, concessi nel 1700 dagli Otto di Balia di Firenze al suocero Beniamino di Samuele Nepi «per sé e famiglia e discendenti», avendone sposato la figlia Allegra; in sostanza Servo Servi chiedeva di «poter fare tutte le sorte di Arte e Mercanzie, non essere tenuto portare alcun segno differente da cristiani, di poter tenere bottega fuori dal Ghetto e abitare fuori dal medesimo Ghetto, poter portare lui e sua famiglia armi di giorno e di notte non proibite in Firenze e tutti li suoi felicissimi Stati ... insomma tutti i privilegi che gode qualsivoglia ebreo tanto in Firenze quanto in tutti gli Stati di S.A.R. vecchi e nuovi nella forma altre volte concessa ad altri negozianti ebrei...».

Tra la fine del '600 e i primi del 700 furono molti gli ebrei pitiglianesi, che chiesero ed ottennero l'esenzione dal segno per motivi di commercio, tenendo conto che la Comunità israelitica di Pitigliano era in notevole crescita per l'immigrazione di ebrei delle varie Comunità vicine, avviate all'estinzione, ma anche di ebrei romani e marchigiani, oltre a qualche senese e fiorentino; non a caso alcuni chiesero ed ottennero l'autorizzazione ad abitare fuori del Ghetto (ma sempre nelle vicinanze), ormai piuttosto affollato.

Tra i richiedenti l'esonero dal segno troviamo nel 1703 anche Servo d'Abramo Servi e Servo di Angelo Servi; come si vede c'erano negli stessi anni ben tre Servi con lo stesso nome e cognome, distinguibili solo dal patronimico; il ripetersi degli stessi nomi, spesso da nonno a nipote, nella famiglia Servi, ormai piuttosto ramificata, rende talvolta difficile l'esatta identificazione.

Più tardi, nel 1728, anche Daniele e Giuseppe di Raffaele Servi, che andavano trafficando in vari luoghi, chiesero l'esonero dal segno «per non esser sottoposti all'insulti de' popoli» e l'ottennero. Nel 1704 si trova Isacco Servi, arrestato insieme ad altri ebrei, perché trovato dentro il Ghetto a giocare a carte di notte.

Anche Servo di Salomone Servi aveva contatti di affari con altri correligionari delle Comunità israelitiche toscane, come si può rilevare da un episodio del 1730, quando gli ebrei Jacob Formello di Pitigliano e Ventura di Mosè di Sorano, a cui Salvatore Tedesco ebreo di Siena aveva affidato una grossa somma da consegnare a Servo Servi a Pitigliano, tentarono di impadronirsene, simulando una rapina; ma ben presto i due vennero scoperti e condannati.

Notevole rimaneva il rapporto commerciale (e l'apporto economico) con il porto di Livorno, come viene evidenziato in una ricorso delle Comunità di Pitigliano e di Sorano contro la ventilata abolizione dei presidi militari nella Contea, senza data (ma presentato tra la seconda metà del 1737 e i primi del 1738): «...per timore di crassazioni (in caso di abolizione del presidio) desisterebbero dal trafico li ebrei e il concorso in questo luogo a comprar mercanzie dallo Stato Pontificio, il che ne risulterebbe il pregiudizio di sopra 10000 scudi ai mercanti di Livorno, denaro tutto che dallo Stato Pontificio cola di mano di questi ebrei e da essi in altrettanta somma si rimette annualmente in detta piazza [di Livorno]...». La somma di 10000 scudi annui è forse esagerata, ma da l'idea del grosso volume di affari, di cui erano tramite gli ebrei della Contea tra lo Stato Pontificio e il porto di Livorno.

In questo periodo alle famiglie Servi pitiglianesi si aggiunsero altri Servi ebrei romani15, come dimostra una controversia del 1748 tra Ricca, figlia di Servo Servi, rimasta vedova dell'ebreo romano Angelo Ariel Spizzichino, e Manasse Servi «ebreo romano abitante in Pitigliano». Ricca accusava Manasse di non voler pagare un debito di 202 scudi e 25 baiocchi, di essersi impadronito in Roma di alcuni recapiti spettanti al marito, e di non voler restituire varie robe, che gli erano state consegnate un anno prima perché le vendesse; così Ricca fece sequestrare le merci che Manasse aveva in Pitigliano, nella sua bottega di piazza delle Erbe presso l'Osteria vecchia.

La controversia fu risolta qualche mese dopo, nel marzo 1749, da un arbitrato del rabbino Ariè Castelnuovo e di Samuele d'Abramo Servi, nipote di Ricca, che portò al riconoscimento di 130 scudi per spese fatte da Manasse, il quale a sua volta rese conto a Ricca di ciò che deteneva per l'eredità del defunto marito Angelo Spizzichino.

Poco prima della metà del 700 la differenziazione tra ebrei poveri e ricchi a Pitigliano è ormai evidente, tanto che i poveri nel 1746 chiesero che la ripartizione delle "gravezze" non fosse più fatta, come in passato, dividendo l'importo totale in parti uguali tra gli ebrei, ma fosse effettuata proporzionalmente ai beni di ciascuno; la proposta fu in parte accolta come accadde anche per quella di eleggere pure degli ebrei poveri tra i Massari, che dirigevano la Comunità; tali cariche erano state fino allora monopolizzate dai più ricchi.

Nel 1746 infatti i Massari erano nove, ben sei dei quali delle famiglie Servi: Abramo, Angelo, Giuseppe, Salomone di Giuseppe, Salomone di Servo e Samuele, oltre a Laudadio di Castro, Giacobbe Palombi e Aronne Sadun; comunque nel 1756 è sempre Salomone di Abramo Servi il personaggio più rilevante tra chi amministrava la Comunità israelitica di Pitigliano. Le basi dell'agiatezza delle famiglie ebraiche più ricche, tra le quali si trovano in maggior parte i Servi, si fondavano sul commercio dei più svariati generi, ma soprattutto di tessuti, e sulle soccide e mezzerie di bestiame con cristiani, senza disdegnare il contrabbando, profittando della posizione di confine di Pitigliano con lo Stato Pontificio. Proprio due Servi: Salomone fu Abramo e Raffaele fu Salomone nel 1756 furono condannati per contrabbando di pannine.

A Pitigliano non mancarono anche condanne e liti per il vizio del gioco, diffuso pure tra gli israeliti: nel 1763, mentre alcuni ebrei, tra cui Giuseppe e Giacobbe Servi, stavano in Cittadella a giocare a tressette «un quattrino per partita», arrivò Abramo della Pergola, che non voleva che il giovane figlio giocasse, e picchiò e bastonò i giocatori; nel 1765 il caporale dei birri di Pitigliano catturò cinque ebrei, tra cui David Servi, trovati in giorno festivo, addirittura «in tempo dei divini uffizi che si celebravano in San Pietro», a giocare a carte «con grandissimo scandalo» in una bettola con la complicità del bettoliere, «che aveva dato ricetto, comodo e luogo a detti ebrei».

Riguardo alle attività degli ebrei pitiglianesi gli Inventari pupillari di Abramo di Salomone Servi del 1743 e quello di Salomone di Servo Servi del 1776 costituiscono due ottimi esempi, fornendo ampie notizie sulla consistenza dei loro beni e sull'ampiezza delle loro iniziative economiche.

2. Gli inventari pupillari di Abramo Servi (1743) e di Salomone Servi (1776)

Abramo di Salomone Servi morì il 22 maggio 1743 e, secondo le norme statutarie allora vigenti in Pitigliano20, i Tutori dei Pupilli fecero l'Inventario dei beni del defunto Abramo per interesse di Beniamino, figlio di primo letto di 22 anni, e dei minori Salomone di 14 anni, Isacco di 11 e Giacobbe di 8, figli della seconda moglie Preziosa.

Dal lungo inventario si possono ricavare numerose e interessanti notizie. Abramo aveva la casa fuori del Ghetto, sotto la Chiesa Collegiata e confinante con un magazzino della Comunità di Pitigliano, dunque appena fuori del portone del Ghetto stesso; la casa era su due piani con quattro stanze, tre sotto ed una sopra.

Abramo possedeva anche due cantine, una nel Ghetto ed una fuori con la loro attrezzatura (tine, botti, bigonci ecc.), nelle quali si trovavano, oltre a cinquanta some (60 quintali) di carbone, dodici some (14,4 q.li) di vino bianco e rosso e quattro ziri d'olio, che erano probabilmente frutto di due vigne di proprietà dell'ebreo, una a Fratenuti, l'altra alla Fonte dell'Olmo con pastura ed olivi, integrate da un canneto in contrada Belvedere. Gli arredi della casa sono improntati quasi tutti alla massima semplicità, ma ben altra magnificenza assumono quelli destinati a conservare oggetti legati al culto, come una «sacchetta di seta ricamata d'oro, cangiante, da metterci la Taled», cioè lo scialle usato per la preghiera. Fra i mobili figurava una cassa di noce, con dentro molte scritture, ricevute scopie d'istrumenti relativi agli affari di Abramo, vi si trovavano ben 76 "pagherò", di cui 41 di cristiani e 35 di ebrei, a favore di Abramo per un totale di circa 7400 scudi e 12 some (14,4 q.li) di grano; 13 pegni, di cui 11 di cristiani e 2 di ebrei, per circa 8 scudi; 4 affitti di bestiame con cristiani per 380 pecore e 83 capre, a ragione del 7%; 6 soccide con cristiani per 28 bestie vaccine (vacche, bovi, manzi, birracchi, vitelli); scritture di locazione a cristiani di una vigna al Porcile e della "valle della Martellona", per la quale venivano pagate 18 staia (4,32 q.li) di grano a pastura,; inoltre c erano vari "obblighi" di acquisto di lana a Pitigliano, Latera e Abbadia San Salvatore e un deposito di 10 balle di lana in Valentano, da consegnare ai vetturali di Lucantonio Orlandini, proprietario di una fabbrica di tessuti a Cambiano, presso la quale si riforniva Abramo Servi, oltre ad un prestito dilazionato, fatto da Abramo in cambio dell'acquisto di tanta roba a Civitavecchia. Una diversa cassetta di noce conteneva le gioie (vezzi di perle e granati, fili di coralli, anelli e orecchini d'oro), posate d'argento e numerosi altri pezzi d'argento, compresi sonagli «per creature» e «dieci pezzi d'argento di figure diverse per uso del circonciso».

A casa sua Abramo aveva anche un'altra cassa di noce, dove si conservava l'argenteria della Scuola, cioè della Sinagoga, ed inoltre teneva trine d'oro per una libbra e 7 once, anch'esse della Scuola.

Abramo poi aveva una bottega, tenuta insieme al fratello Giuseppe Servi, situata in piazza delle Erbe, la piazza centrale di Pitigliano, che era stata affittata dai Signori Agnuzzi sotto il loro palazzo; nella bottega c'era una quantità notevole di stoffe, tessuti e pannine di tutti i generi, ma anche gioie ed anelli d'oro, 40 libbre di lana, 400 libbre di ferro, una cesta di scarpe, oltre ad attrezzi come una stadera grossa, uno staio di ferro, un focone grande di rame.

Altri beni stabili di Abramo, oltre alla bottega, risultano indivisi con il fratello Giuseppe: un'altra bottega nella "strada maestra" di Pitigliano, un magazzino sempre in piazza delle Erbe sotto la loggetta della casa del Tenente Lucci, un cellaro da capo la Fratta, due vigne a Vacasio, ambedue acquistate da cristiani, una valle data a terratico (probabilmente la "valle della Martellona" già citata); i fratelli avevano insieme anche crediti per 5640 scudi e censi a loro favore per altri 42 scudi, oltre a 250 pecore date in affitto e 28 bestie vaccine in soccida.

Un'idea generale del notevole volume di affari dei due mercanti ebrei Abramo e Giuseppe Servi si può avere dalla quantità dei loro libri contabili: ben 24 libri in quaderno con note di mercanzia data a credito a diversi ebrei dal 1727 al 1741,3 altri libretti con note dei mercanzia del 1742-1743, un libro di riscossioni dal 1737 al 1743 e un altro di varie ricevute, 3 libretti di diverse partite e forniture, oltre ai bilanci degli anni 1741-1743 e due sacchette di lettere antiche e moderne.

Giuseppe Servi però asserì che c'erano anche debiti per 1239 scudi con altri commercianti ebrei, la maggior parte con il figlio Salomone di Giuseppe Servi per 320 scudi e con Salomone di Servo Servi per 610 scudi. Dopo aver avviato la redazione dell'inventario, accadde che al messo della corte Bernardo Nardi arrivarono voci che Giuseppe Servi aveva occultato nel bilancio presentato una quantità di vacchette e suole che lui stesso aveva visto nel magazzino dell'ebreo; dalle indagini si scoprì che effettivamente il Servi aveva venduto tali vacchette e suole al mercante pitiglianese Virginio di Giuseppe al prezzo di 168 scudi e 63 baiocchi; inoltre un controllo nel magazzino da parte del Cancelliere del Podestà permise di trovare «due vacchette di suolo di peso libbre 60 marchigiano, altre robbe di suolo rosso d'Irlanda di libbre 200, altre di suolo marchigiano di libbre 19 asserto di Mosè di Ventura, e Giuseppe disse essere solamente di Abramo e suoi eredi 6 balle di lana di peso libbre 1710, 9 verghe di ferro di 372 libbre, 2 cuoia di bufala e una di vaccina asserti di Mosè di David Servi e David Formelli di peso 107 libbre, 6 cuoia vaccine diverse peso libbre 160, asserti di Mosè di Ventura, 6 libbre canape sconcia ...».

Risolto il caso del parziale occultamento di beni, tutto fu affidato a Giuseppe Servi con obbligo di rendiconto anche con il confronto tra il bilancio e l'inventario.

1° gennaio 1776 fu redatto l'inventario di Salomone di Servo Servi, morto probabilmente alla fine del 1775, per interesse dei suoi figli di secondo o di terzo letto (si era infatti sposato tre volte24), che erano tre femmine: Samucà di 10 anni, Sara di 4 anni, Ester di 3 anni e un maschio: Angelo di appena 5 mesi; Salomone infatti aveva altri due figli maschi di primo letto: Giacobbe e Isacco.

Salomone abitava in una casa a pigione posta nel Ghetto, dove la mobilia era ridotta all'essenziale, ma in una cassa si trovavano numerosi gioielli d'oro e d'argento: pendenti, medaglie, collane, vezzi di perle e coralli, qualche posata e una fibbia da scarpe anch'esse d'argento, oltre a trine e frange lavorate d'oro e d'argento; numerose erano le suppellettili in rame: una catinella, due teglie, una stagnata, un paiolo, uno scaldaletto, un focone e persino una caffettiera per un totale di una quarantina di libbre; tra i vari oggetti figuravano alcuni per il culto, come un pezzetto d'argento chiamato Menorà» ossia il candelabro a sette bracci e «una lampada d'ottone da sabato a sei pinzi», una lucerna ad olio a sei luci detta comunemente lampada del sabato. Salomone però possedeva in Pitigliano due stanze al Palazzetto, usate luna come stalla, l'altra come fienile, un magazzino in contrada S. Antonio, due cantine: una nel vicolo del Picchi e una in contrada la Fratta, un granaio, dove si trovavano 16 (3,84 q.li) staia di grano, 6 (1,44 q.li) di farina, una soma (1>2 q.li) di farro e uno staio (24 Kg) d'orzo, oltre a 4 barili vuoti e ziri di pietra da 50 e 30 boccali rispettivamente, anch'essi vuoti, tre Salomone aveva beni stabili nella campagna pitiglianese: un campo some (5 ettari circa) a Naioli e una vigna di 2 opere con un prato to annesso al Pantano.

A questi si aggiungeva la proprietà di una casa con cellaro a Castellazzara; anche questa era arredata in modo essenziale, con un tavolo, una madia, due letti, una cassa alla montagnola, evidentemente a Castellazzara Salomone Servi aveva sviluppato notevoli interessi.

Consistente era il patrimonio in bestiame: 621 pecore e capre, 13 vacche e 4 cavalle, date in affitto a una dozzina di cristiani di Pitigliano, San Quirico, Montebuono e Castellazzara, oltre ad altre 4 vacche date in soccida e un polledro dato in guardia.

In favore di Giacobbe e Isacco, figli di primo letto di Salomone, furono conteggiati crediti per 838,75 scudi e debiti per 70,25 scudi, che indicano ulteriori rapporti economici con persone di Pitigliano (cristiani ed ebrei, compreso il rabbino Ariè Castelnuovo), Montebuono, Castellazzara, Piancastagnaio e con ebrei di Livorno.

I due inventari di beni dimostrano l'ampiezza del giro di affari dei due mercanti ebrei, che andava dal classico commercio di tessuti e pannine, alla lana, al ferro, al carbone, al cuoio e alle scarpe; nel caso di Abramo Servi l'incetta della lana serviva a procurare la materia prima ad una fabbrica, da cui a sua volta Abramo acquistava tessuti. Non poteva mancare il commercio di quantità più o meno grandi di prodotti agricoli: cereali, farina, vino, olio, una parte dei quali provenivano da beni terrieri degli stessi ebrei; ciò rientrava nelle eccezionali condizioni godute nella Contea di Pitigliano dagli ebrei, i quali potevano possedere beni stabili quando dappertutto tale possibilità era loro vietata; fa però notizia il fatto che Salomone e il fratello Abramo di Servo Servi conducessero un podere a conto diretto.

Un rilievo consistente aveva assunto l'allevamento di notevoli quantità di bestiame (pecore, capre, vaccine, cavalli), che veniva dato in soccida o in affitto a cristiani.

Altrettanto notevole era il raggio di azione delle attività di Salomone di Servo e di Abramo di Salomone Servi, che si estendeva dai centri della Maremma granducale intorno a Pitigliano, sia vicini che lontani, come Sorano, San Quirico, Elmo, Montebuono, Sovana, Mandano, Scansano a quelli della montagna amiatina, come Castellazzara, Selvena, Santa Fiora, Piancastagnaio, Abbadia San Salvatore, a quelli limitrofi dello Stato Pontificio, come Latera, Farnese, Ischia, Grotte di Castro, Valentano. Le merci arrivavano in buona parte dal porto di Civitavecchia, ma veniva mantenuto un solido e continuo rapporto con gli ebrei di Livorno. E da sottolineare che i due commercianti ebrei, benché ricchi, abitavano in case arredate senza alcun lusso e addirittura Salomone Servi abitava in casa in affitto; le proprietà davano tutte reddito o erano collegate ali attività economica (botteghe, magazzini, granai, cantine), mentre il possesso di numerosi gioielli era tipico della mentalità ebraica, che vedeva in essi la possibilità di portare facilmente con se oggetti di poco peso e di scarso ingombro, ma di alto valore, in caso di pericoli, guerre, persecuzioni, trasferimenti forzati.

D'altra parte la mancata ostentazione di ricchezza degli ebrei si inseriva facilmente nella mentalità e nel costume della popolazione locale, in cui «i migliori e più facoltosi stanno come certi castellani benestanti e il resto tiene piuttosto vita ed abito da contadini».

3. L'affitto delle Contee di Santa Fiora e dellaTriana

Nell'ambito del suo ampio giro d'affari Samuele d'Abramo Servi di Pitigliano riuscì ad inserirsi nel lucroso giro dei "Grandi Affitti", che i feudatari assenteisti, vivendo ormai prevalentemente in città presso le Corti, preferivano concedere, assicurandosi un'entrata certa e predeterminata ed evitando così gli impegni e i problemi dell'amministrazione del proprio feudo e dei propri possedimenti.

Così Samuele Servi ottenne dal Duca Giuseppe di Gaetano Sforza- Cesarini il 12 aprile 1742 l'affitto della Contea di Santa Fiora per tre anni, a cominciare dal 1° aprile 1742, dietro corresponsione annuale di 2400 scudi di 10 giuli a scudo; era prevista disdetta sei mesi prima della scadenza, in mancanza della quale l'affitto era prorogato di altri tre anni e cosi di triennio in triennio fino a disdetta con gli stessi patti e canoni, impegnandosi l'affittuario a pagare 600 scudi ogni semestre in Roma, «senza eccezione né per trasporto di monete né per tempeste, inondazioni o altro».

L'affitto dell'intera Contea di Santa Fiora, comprendente anche Castellazzara, Sforzesca e Selvena, era fatto «con tutte e singole loro ragioni, pertinenze, adiacenze e insieme con tutte le loro rendite di qualunque sorte e specie di dazi, risposte, livelli, canoni, edifizi di ferriera, proventi d'osteria, d'appalti e vendita di tabacco, tassa di fiochi, vendita di sale acquavite e stracci, polveriera, proventi di mulini, gabelle e ogn'altra rendita annessa...»; era compresa nell'affitto anche la concia del cuoio, come era stato concesso agli affittuari precedenti; tutta la quantità di cuoio, di sale, di tabacco e altro, che si trovavano nella Contea, sarebbe stata data all’Affittuario al prezzo da concordare «e se non concordasse, se li deve prendere lo stesso».

Tutti i bestiami acquistati o introdotti in Contea spettavano all'Affittuario, godendo di tutti i privilegi ed esenzioni sia per il diritto di pascolo che per la loro estrazione come se fossero del feudatario e così per l'estrazione di grasce dalla Contea, mentre era vietato ai sudditi estrarre grasce e bestiame senza licenza dell'Affittuario.

Riguardo al pascolo nelle Bandite (quella del Conte Giacomo era riservata all'Affittuario) i particolari restavano soggetti all'Affittuario, eccetto coloro che seminassero due some (2,4 q.li) di grano nelle terre di Selvena, nella quali però, in caso di soccida, il soccio poteva godere il privilegio solo per la sua parte e non per quella del padrone; il privilegio di Selvena della franchigia del pascolo gratuito per 50 bestie minute e 3 vaccine era però concesso solo a chi tenesse casa aperta in Selvena (tale privilegio era stato concesso per incrementare la popolazione della villa di Selvena, che era rimasta poco popolata nonostante l'esercizio della miniera di vetriolo e poi di Mercurio).

Era concessa la facoltà all'Affittuario di dare ai sudditi o a forestieri in fitto o a terratico la quantità di terreni, che credesse opportuna e di smacchiare terre per seminare, con spese a suo carico, eccetto il taglio di alberi fruttiferi; non era però compreso il semplice tagl io di macchie o boscaglie, salvo la possibilità di far legna per suo servizio da parte dell'Affittuario, a cui si riconosceva il diritto di ricevere una soma di legna all'anno da ogni famiglia della Contea secondo Fuso dei luoghi.

L'Affittuario e i suoi Ministri potevano godere gratuitamente della casa «nel Palazzetto di Santa Fiora, dove ora abita il Duca» e della casa di Selvena, eccetto le stanze dove abitavano i Ministri del Duca e i loro uomini, nonché «tutto il comodo necessario per riporvi le grascie che si ritraevano dall'Affittuario [precedente]».

«Che tanto l'ebrei, che presentemente abitano in Contea, quanto altri forestieri, che potessero sopravvenire o venissero a prendere casa nella medesima, siano tenuti e obbligati... a pagare a detto Affittuario tutti la dazi e pesi, alli quali sono stati e sono presentemente sottoposti tutti gl'altri e nel modo e forma che sono stati pagati all'Antecessori di Sua Eccellenza».

Il Duca inoltre riservava per se «le mancie dovute dalle Comunità e tutte le pene della Banca Criminale, quali inalterabilmente si riserva a suo arbitrio e indipendentemente da alcuno, anche contro l'ebrei», ma riguardo alle frodi il Duca avrebbe riscosso la metà delle pene, mentre l'altra metà era riconosciuta all'Affittuario.

Non erano comprese nell'affitto le cave di vetriolo, di zolfo e tutte le altre miniere della Contea, che potevano essere affittate liberamente ad altri. Era concessa all'Affittuario la "mano regia" (cioè l'intervento della forza pubblica) come al Duca, per riscuotere dai debitori morosi, se necessario; tale concessione valeva non solo per gli anni dell'affitto, ma anche per i due successivi, proprio per permettere la riscossione dei debiti. L'Affittuario non doveva ingerirsi negli affari della Contea, eccetto nel caso dell'appalto del pascolo di erba e foglia, per cui l'Affittuario godeva del diritto di precedenza entro otto giorni.

L’Affittuario era tenuto a rispettare Statuti, leggi e consuetudini della Contea, senza aumentare tasse e imposizioni oltre quelle già esistenti o introdurne di nuove nei confronti dei sudditi; in caso di controversie, la decisione spettava al Duca, che le avrebbe risolte con appositi editti.

L'Affittuario doveva anche promettere di «far tenere alli molinari le mole nella forma, che vanno tenute ad uso d'arte e che sia lecito coppare secondo l’uso antico di dette Contee a ragione di sei coppe per ogni soma di grano che di castagne con la solita coppa, come sempre si è costumato finora, senza poterla alterare in qualunque parte benché minima»; in sostanza i mugnai dovevano prendere per loro remunerazione sei coppe per ogni soma macinata di grano o di castagne, usando una coppa, la cui capienza era determinata da antico uso e non si poteva modificare.

L’Affittuario si doveva impegnare a mantenere tutti gli edifici ricevuti e riconsegnarli in buono stato «piuttosto migliorati che per sua colpa o difetto deteriorati»; in particolare se fossero caduti muri o tetti per sua colpa, L’Affittuario era obbligato a rifarli.

In caso di mancato pagamento del canone da parte dell'Affittuario, il Duca si riservava «il libero speciale dominio e privativa ipoteca su tutti i bestiami, grascie, mercanzie, crediti e beni di ogni sorte, senza che alcuno possa acquistare diritti o privilegi anche per causa di dote, mercede o altra sorte, finché non sarà stato soddisfatto per intero dell'affitto»; se l'Affittuario avesse mancato di pagare le rate semestrali, il Duca poteva subaffittare a chiunque m lesse.

Per eventuali controversie il Duca poteva essere convenuto, ma solo a Roma, dove Giuseppe Sforza-Cesarini abitava nel Rione Ponte. La concessione dell'affitto di un feudo come la Contea di Santa Fiora ad un ebreo è senz'altro eccezionale, per le notevoli limitazioni che all'epoca erano ancora vigenti nei confronti degli israeliti; il fatto è tanto più straordinario, in quanto l'Affittuario della Contea assumeva in parte alcuni poteri del feudatario, otne si può ben vedere nei Capitoli dell'affitto del 1742: riscossione di tasse, certi controlli sui sudditi (sui mugnai, per l'estrazione di grasce, per il pascolo ecc.), possibilità di uso della forza pubblica verso i debitori morosi e così via. Samuele Servi aveva colto la sua grande occasione, profittando della sete di denaro del Duca Sforza-Cesarini, oberato di debiti e messo in difficoltà dalla disdetta anticipata per insolvenza del precedente affittuario Francesco Benci; non a caso Samuele Servi si era cautelato, utilizzando un prestanome cristiano: Ludovico Petri, per stipulare il contratto di affitto. Gli Sforza di Santa Fiora avevano una lunga familiarità con gli ebrei, esistenti da quasi tre secoli nella loro Contea, e il Duca Gaetano, padre di Giuseppe ed anch'egli alle prese con continue necessità di denaro, aveva addirittura autorizzato un banco di prestito a Santa Fiora, pur di percepire dal banchiere un compenso di 20 scudi l'anno, quando il prestito ebraico, considerato usura, era stato vietato fin dal 1682 con apposita Bolla da Papa Innocenzo XI e tale disposizione era stata confermata proprio in quegli anni, nel 1740, da Papa Clemente XII; nonostante ciò il Duca Giuseppe Sforza-Cesarini aveva continuato a mantenerlo nella Contea e a proteggere il banchiere ebreo, riscuotendone il solito compenso; in effetti sia il Duca Giuseppe che il padre Gaetano seguivano solo la loro stringente necessità di far denaro, che da una parte li portava a proteggere il banchiere israelita, dall'altra a taglieggiare gli ebrei santafioresi, i quali intorno al 1733 erano stati costretti a subire una contribuzione forzata per 300 scudi, mentre alcuni anni dopo l'ebreo Giuseppe Sorano era stato costretto dal Duca Giuseppe a fornire gratuitamente o sottocosto le livree per i suoi servitori; in questo clima il Duca nel maggio 1744 aveva proceduto alla conferma degli antichi Privilegi degli ebrei santafioresi.
Ciò aveva provocato la reazione del Vescovo di Città della Pieve, da cui Santa Fiora dipendeva, che mosse «vari capi di lite con il Conte di Santa Fiora circa gli ebrei del suo Stato e altro», specie riguardo al banco ebraico, al libero commercio di carne sciattata ecc., corredando il tutto con precisi riferimenti giuridici.
Il contrasto si acuì ulteriormente, in quanto l'eccezionale affidamento dell'affitto della Contea ad un ebreo aveva indotto negli israeliti santafioresi atteggiamenti, considerati arbitrari, di ben maggiore "autonomia" rispetto alle solite restrizioni; tali atteggiamenti per di più si aggiungevano ad un modo di vivere corrente già piuttosto "libero" degli ebrei di Santa Fiora, soprattutto per la notevole familiarità con i cristiani, e più volte censurato dai Vescovi di Città della Pieve.

La nuova situazione, indotta dall'affitto all'ebreo di Pitigliano, è ben descritta in una lettera della Sacra Congregazione del 2 ottobre 1643: «Doppo l'affitto preso dall'ebreo Samuel Servi della Contea di Santa Fiora è pervenuta notizia a questo S. Tribunale che esso e gli altri ebrei tutti, che colà si ritrovano, ardiscano di vendere non solamente molte cose indistintamente nei giorni feriali e festivi, ma di frequentare le case e botteghe dei cristiani et anche le osterie con mangiarvi e giocarvi e che ardiscano di più di tenere donne cristiane nel loro Ghetto, dalle quali si fanno con pubblico scandalo servire in ogni loro bisogno, valendosene altresì in allattare i loro propri figlioli et a tal fine danno alle medesime ricetto in casa di nottetempo e comodo di dormire». Le notevoli pressioni che ne derivarono, soprattutto da parte dell'autorità ecclesiastica e la condotta oscillante del Duca, legato soprattutto al proprio interesse, probabilmente indussero l'Affittuario ebreo a pensare di dare in subaffitto la Contea ad un cristiano, così da diminuire, se non eliminare, le difficoltà che si profilavano.

Così con la mediazione di David Formello, ebreo pitiglianese, nel gennaio 1744 fu interessato al subaffitto Filippo Rinaldi di Scansano. Egli stipulò in Pitigliano, l'8 aprile successivo, un contratto di subaffitto della Contea di Santa Fiora nella bottega di Salomone Servi, zio e insieme suocero di Samuele, che ne aveva sposato la figlia; Salomone infatti agiva per commissione e a nome dell'Affittuario suo genero. Il contratto, rogato dal notaio Nicola Campana, prevedeva i patti seguenti:
che il subaffitto, concesso al Rinaldi, decorresse dal l'aprile 1744 a tutto marzo 1745, quando scadeva l'affitto di Samuel Servi;
che il Rinaldi pagasse per il subaffitto 2600 scudi, da ricavarsi via via dalle entrate della Contea, affidandone l'esazione all'ebreo santafiorese Giuseppe Paggi, fiduciario di Samuele Servi, per il compenso di due scudi al mese, oltre al vitto e alla cavalcatura, a carico del Rinaldi stesso;
se il Rinaldi non avesse pagato interamente entro il marzo 1745, sarebbe stato tenuto a pagare ogni residuo debito successivamente, mentre i crediti non riscossi nell'anno di subaffitto sarebbero rimasti a favore del Rinaldi, che poteva esigerli anche dopo la data di scadenza dell'affitto, come se fosse l'Affittuario Samuele Servi.

se si fosse ottenuto lo sgravio del sale, su cui era pendente una controversia, per l'anno decorso il beneficiario sarebbe stato Samuele, per l'anno presente il Rinaldi era tenuto a non cambiare le locazioni fatte dal Servi e a consegnare all'Affittuario tutti gli edifizi senza alcun danno alla fine del subaffitto.

Alla stipula del contratto Filippo Rinaldi consegnò a Salomone Servi, per sua maggior sicurezza, tre scritture relative a sue entrate annue, derivanti dai suoi beni, con l'ipoteca su una certa quantità di bestiame. Nell'occasione si calcolava che la Contea di Santa Fiora rendesse 1833 scudi di entrate a denari, 144 moggia (691,2 q.li) di grano, 33 moggia (158,4 q.li) di farina dolce, 7 moggia (33,6 q.li) di orzo e 184 moggia (883,2 q.li) di grasce.

Ma il Rinaldi non riuscì mai ad ottenere la reale consegna del subaffitto; nonostante che si recasse più volte a Pitigliano e a Santa Fiora, non c'era mai chi desse le consegne, né ebbe miglior effetto l'invio di biglietti per ottenere lo scopo a Salomone Servi, che invece metteva in atto maneggi per non dare seguito al subaffitto.

Allora Filippo Rinaldi, alla fine di aprile 1744 intentò causa e il 28 giugno successivo produsse un libello contro Salomone Servi, accusandolo di manovre dilatorie nei suoi confronti e di aver subaffittato ad altri, dopo l’accordo intervenuto tra loro, il negozio del sale e l'appalto del tabacco, e alla fine di aver subaffittato la Contea di Santa Fiora, per la stessa somma di 2600 scudi, a David di Angelo Sorano ebreo santafiorese, per escludere e deludere il Rinaldi.

La causa andò avanti per vari anni fino al 1750, tra cavilli, dichiarazioni di contumacia di Salomone Servi e la presentazione continua di eccezioni, tra cui emerse anche che Salomone avrebbe stipulato il subaffitto al Rinaldi all'insaputa del genero Samuele titolare dell'affitto della Contea. Salomone Servi sosteneva che si era trovato di fronte all'opposizione del Ministro della Contea di Santa Fiora, che sarebbe stato contrario al subaffitto al Rinaldi per conto del Duca Sforza-Cesarini, e questo era il punto principale e quasi unico, su cui l'ebreo fondava la sua difesa; ma fu facile al Ten. Francesco Maria Ugolini, procuratore del Rinaldi, obiettare che tale aspetto non era per niente rilevante, in quanto nel contratto di affitto n°n si faceva menzione dell'approvazione del Duca in caso di subaffitto e quindi la ventilata opposizione del Ministro era solo apparenza e scusa; nel contempo Salomone Servi veniva accusato di dolo, oltre la colpa, ed indicato come «noto nel mancare di fede e di parola», e si chiedeva per il Rinaldi il risarcimento di tutte «le spese, scapiti e pregiudizi sofferti». Ma le lungaggini della vertenza indussero ad arrivare poi ad un atto di concordia e transazione, redatto da Carlo Seri nel 1750.

Forse le accuse di dolo, frode e malafede nei confronti di Salomone Servi furono eccessive, anche se il modo di condurre gli affari sia da parte di Salomone che da parte del fratello Abramo, padre di Samuele affittuario della Contea, pare essere stato piuttosto disinvolto.

Infatti già nel 1744 Abramo Servi si era trovato coinvolto in un processo per aver rescisso prima della scadenza, nel giugno 1742, una soccida fatta «nel più orrido inverno 1741» con Giovan Maria di Antonio; Abramo, dicendo che aveva bisogno di denaro, aveva venduto il bestiame in soccida all'ebreo Mosè di Ventura; ma nel processo fu testimoniato che nel 1741-42 aveva altre soccide con più persone, specie con Andrea Gasparri e mantenute poi coi suoi figli, per molto bestiame suino, che era stato visto condurre dai faccendieri anche nella Bandita dei Monti in territorio di Pitigliano. A sua volta Salomone Servi nel 1752 fu querelato, perché otto sue bestie vaccine avevano fatto danni consistenti a Domenico d'Astolfo, penetrando per dodici notti nella vigna, che egli teneva in affitto dal Proposto, e per avergli guastato un pagliaio, con danno stimato di tre some d'uva e una soma di paglia; inoltre le otto vaccine erano state tenute da Salomone Servi negli Usi dell'Elmo senza pagare la fida; anche Filippo Cheli fece istanza contro Salomone perché un suo bue aveva fatto danni in un orto di cavoli a Montebuono.

L'affitto della Contea di Samuele Servi si concluse con la naturale scadenza nel marzo 1745, ma costituì un precedente ed aprì la via all'affitto da parte di un altro ebreo: Giacobbe Orvieto di Siena. Scaduto infatti il contratto di Samuele Servi dopo la morte del Duca Giuseppe, avvenuta il 14 agosto 1744, la vedova Maria Giustiniani come tutrice del figlio Filippo Sforza, affittò la Contea di Santa Fiora per nove anni a 2400 scudi annui a Francesco Curiale da Torino, che un anno dopo decadde per non aver rinnovato la cedola bancaria per sicurezza del pagamento; a questo punto il 26 marzo 1746 subentrò Giacobbe Orvieto del fu Salomone, grosso imprenditore ebreo di Siena, alle stesse condizioni del Curiale, al prezzo di 2400 scudi all'anno, da pagare in due rate semestrali, qualche mese dopo ridotto a 2350 scudi annui.

Non si può escludere che Francesco Curiale fosse intervenuto per favorire fin dall'inizio il subentro successivo dell'ebreo senese nel lucroso contratto di affitto.

Anche Giacobbe Orvieto stabilì subito rapporti con i Sorano, gli ebrei più in vista di Santa Fiora, subaffittando stavolta a Giuseppe Sorano nel 1746 lo spaccio del sale per Castellazzara.

Ma ben presto si rinnovarono pressioni e accuse pesanti nei confronti dell' Affittuario ebreo e dei suoi compagni; ne è testimonianza un documento di tale Andrea Vanni del 26 agosto 1752, indirizzato al Duca Sforza- Cesarmi, dal titolo eloquente: "Metodo per espellere più sollecitamente gli ebrei affittuari di Santa Fiora".

In questo documento l'Affittuario ed i suoi fiduciari vengono esplicitamente accusati di «molte contravvenzioni ai capitoli apposti nell'istrumento d'affitto, bastevoli a provare la caducità del medesimo affitto», di malversazioni, abusi, ingiusti aggravi nei confronti dei sudditi della Contea, danneggiamenti con «l'esterminio di tante belle vigne, del Giardino, della Peschiera, della Ferriera... con esser di più stati tagliati, sino con lo sbarbico delle radici, tanti alberi di pere e frutti singolari», inoltre «il magnifico Palazzo di Selvena (ma probabilmente si tratta di quello della Sforzesca), degno di essere situato in una Roma, è stato dall'ebrei ridotto in un porcile e li nobili soffitti ed altri ornati, che furono una volta ricoperti di oro zecchino mediante il buon giusto di quei Ascendenti dell'Eccellenza Vostra, che ambirono la gloria ed ogni magnificenza, sono stati raschiati coll'aver tolto l'istesso oro e poi averlo tutto affumigato e che ormai dalla parte del scirocco sta per diroccarsi affatto, così stando ed in stato peggiore quello di Castellazzara, senza che nessuno vi ponga rimedio...»; ancora più grave agli occhi del Duca doveva apparire l'accusa che «i suddetti ebrei, i quali per aver incusso ogni timore ne' poveri vassalli, trionfano, inauditis omnibus, non solo con la tirannia contro i medesimi, ma sopra un Principe Padrone dell'istessa Contea, costringendo di più ciascun vassallo a non più riconoscerlo per tale e a dover tenere detti ebrei per loro Signori, e ciò contra ogni legge divina et umana...». Sicuramente le accuse erano esagerate da parte dell'estensore del documento Andrea Vanni, che dichiara esplicitamente al Duca il suo interesse «di voler ben servire l'Eccellenza Vostra»; tuttavia qualche fondamento forse poteva esserci, se Giacobbe Orvieto lasciò l'affitto anzitempo, sembra nello stesso anno 1752.

L'episodio eccezionale dell'affitto della Contea di Santa Fiora ad ebrei per circa un decennio, benché servisse a rialzare un poco il morale degli israeliti santafioresi, che si sentirono più "liberi", osservando ancor meno di quanto già non facessero prima, i divieti che li riguardavano nella vita quotidiana, tuttavia non migliorò le loro condizioni generali, nonostante il coinvolgimento economico di alcuni ebrei del luogo, né riuscì ad invertire la fase di decadenza, già imboccata dopo la tarda istituzione del Ghetto a Santa Fiora nel 1714.

Infatti al tempo dell'affitto della Contea a Samuele Servi,la Comunità ebraica santafiorese era ormai ridotta a soli 20 individui divisi in sei famiglie: quelle di Bella Bemporà (2 persone), di Samuel Cetona (5), di Giuseppe Paggi (2), di Samuel Palombo (4), di Angelo Sorano (4), di Giuseppe Sorano (3).

Seguendo l'esempio del genero Samuele, anche Salomone Servi riuscì ad ottenere nel settembre 1749 l'affitto della Contea della Triana per nove anni dal Conte Spinello V Piccolomini.

Tale affitto comprendeva non solo l'intero territorio della Contea di 500 moggia (poco più di 1500 ettari), ma anche le terre di proprietà Piccolomini nelle Comunità vicine di Samprugnano, Rocchette di Fazio e Saturnia, che nel 1706 ascendevano a 120 moggia (360 ettari circa) di terreno lavorativo, prativo e macchinoso, oltre a vigneti per 119 opere e 23 stara, oltre ad un moggio (circa 3 ettari) di terreno pomato.

Ma anche questo affitto dette vita a dissapori e litigi, questa volta tra Salomone Servi e il fratello Abramo; Salomone infatti si era impegnato a far partecipare il fratello all'affitto della Triana, a patto che Abramo prestasse assistenza, amministrasse e controllasse la gestione dei beni della Contea, mentre Salomone avrebbe dovuto pagare tutte le spese, dalla somma del canone di affitto al salario per gli assistenti e gli operai, ripartendo poi lutile a metà.

Ma essendo sorte altre divergenze fra loro, Abramo fu escluso, anche se Salomone, in forza della parola data, si decise a proporre al fratello un riconoscimento di 30 scudi fanno per tutto i nove anni dell'affitto, purché egli andasse a far qualche assistenza.

Alfine i due fratelli trovarono una composizione delle loro divergenze con un lodo, emesso il 19 febbraio 1750 da due arbitri, scelti da loro stessi: Beniamino Paggi per Salomone e Isacco Consiglio per Abramo. Il lodo risolveva anche altri motivi di contrasto tra i due, di minore importanza:
- infatti Salomone e Abramo avevano tenuto un podere in comune dal marzo 1746; avendo fatto dei restauri al casale del podere, Abramo doveva pagare la metà delle spese per i muratori per 53 scudi e 66 baiocchi, oltre ad altri 52 scudi e 47 baiocchi per altre spese fatte sempre nel podere; quest'ultima somma però non poteva essere riscossa da Salomone, finché non venisse divisa tra i fratelli la valuta di denari e gioie, che Salomone ricevette dalla madre Allegra alla sua morte; inoltre Abramo doveva rendere conto di tutti gli attrezzi di campagna affidati alla sua custodia

- Abramo doveva pagare a Salomone un'ulteriore somma di 43 scudi per un recapito del 1743

-nel tempo in cui Salomone aveva interessi nella bottega di Samuele suo nipote e genero, Abramo aveva consumato 39 boccali e un quarto di olio di proprietà di Salomone, che perciò doveva averne il prezzo di 7 scudi e 85 baiocchi.

Riguardo all'affitto della Triana gli arbitri lasciarono ad Abramo due possibilità da scegliere entro otto giorni:


-la prima prevedeva che Abramo prestasse l'assistenza necessaria alla gestione della Contea della Triana, anche trasferendovi la propria dimora, eccetto che nelle feste solenni ebraiche, in cambio di un terzo degli utili; in tal caso però Salomone doveva tenere una persona in suo aiuto a proprie spese

-la seconda prevedeva che Abramo ricevesse annualmente 30 scudi per prestare assistenza alla Triana per un mese all'anno per tutti i nove anni dell'affitto, a beneplacito di Salomone «con intimargliene la gita... con un'onorevole vitto e tavola a spese di Salomone» e nel caso che Abramo non potesse andare, doveva inviare a suo carico una persona al suo posto.

Infine gli arbitri stabilivano che le somme dovute da Abramo a Salomone, dovevano essere defalcate dal suo guadagno per la Triana. E interessante notare come nella prima metà del '700 ci sia chi tra ebrei di Pitigliano possa avere la conduzione di un podere, cosa di solito al di fuori delle attività economiche degli israeliti; il podere tenuto da Salomone ed Abramo Servi sembra anticipare l'attenzione degli ebrei pitiglianesi per un più consistente investimento terriero, non appena sarà possibile, qualche decennio dopo, con la stagione delle riforme illuministiche lorenesi nel Granducato di Toscana.

4. La famiglia Servi a Sorano

Fin dalla seconda metà del Seicento si trova un ramo della famiglia Servi nel Ghetto di Sorano.
Infatti in occasione del donativo al Granduca del 1688-1689 tra gli ebrei soranesi è registrato Giuseppe Servi, che contribuì per otto baiocchi, la somma più bassa tra tutti i suoi correligionari.
Dunque Giuseppe Servi era il più povero degli ebrei di Sorano in un periodo, in cui la Comunità di Sorano viveva una fase di impoverimento economico e demografico, sebbene proprio in quegli anni fosse stata accresciuta di numero da un'immigrazione di ebrei pitiglianesi, fra cui forse è da comprendere anche Giuseppe Servi.

La situazione economica non pare modificata, quando nel 1729 compare Angelo Servi (figlio di Giuseppe?) di 31 anni, che per un litigio con Sabato Hasdà, altro ebreo di Sorano, venne multato per uno scudo d'oro, ma poi ottenne la grazia dal pagare tale somma «essendo miserabile». Proprio in quell'anno gli ebrei di Sorano, diminuiti a dodici famiglie, dichiaravano di essere «miserabili e spiantati affatto» e di non riuscire più a sopportare il pagamento di dazi e imposte; chiedevano perciò che venissero in parte ridotti, aumentandoli alla Comunità ebraica di Pitigliano, in crescita e giunta a venticinque famiglie, oltre il doppio di quella di Sorano. Il quadro della Comunità israelitica soranese appariva desolante: «...stante le gravezze, sempre qualcuna ne sfratta da quel luogo, mentre nessuna di loro ha traffico in quel paese ad a riserva di due famiglie che posseggono qualche stabile di poca conseguenza, tutti gli altri sono poveri e campano dell'industria del cucire ...»; tale situazione, avvalorata dai Magistrati locali, risulta addirittura peggiorata nel 1733 per «la morte di più persone e mancanza di capi di famiglia, che hanno lasciato la casa loro in desolazione e senza uomini capaci di dirigerla ...».

Tuttavia qualche ebreo soranese aveva ancora dei capitali in bestiame, come Daniele di Simone Sadun, che lasciò per testamento alla Comunità ebraica di Sorano «per mantenimento di un rabbino o maestro di scuola» 60 pecore matricine, con usufrutto alla moglie Graziosa, che già nel 1736 invitava il cognato Aronne Sadun di Pitigliano a sistemare tale questione prima di Kippur; ma tutto rimase in sospeso e dopo la morte di Graziosa, i Massari della Comunità ebraica di Sorano fecero causa ad Aronne Sadun per ottenere il lascito; in Tribunale si presentò per la causa Angelo Servi. Ma le condizioni degli israeliti soranesi, nell'ambito del progressivo impoverimento della Comunità locale, tendevano ormai a peggiorare, tanto che nel 1755 «gli ebrei stabilitisi in Sorano consistono in sette famiglie: una di queste, non possedendo cosa alcuna né avendo traffico, si procura il vitto andando a cucire e facendo a giornata altre opere con i cristiani. Ciascuna delle altre possiede la casa di propria abitazione e una vigna, gravata però di censi passivi; fra queste Daniel Servi ha di più una piccola bottega ed alquanto bestiame».

Tra gli ebrei di Sorano era dunque quasi scomparso il commercio, principale linfa economica degli israeliti, ad eccezione della piccola bottega di Daniele Servi, forse figlio (o fratello?) di Angelo Servi, che a sua volta faceva un piccolo commercio in tessuti; nello stesso anno infatti egli fece causa ad Astolfo dell'Elmo, detto il Contadino, per ottenere il pagamento di un credito di 11 giuli, avendo venduto due anni prima alla moglie defunta di Astolfo due canne di mezzalana e tre braccia di cortina. La migliore condizione economica di Daniele Servi lo portò ad assumere un certo rilievo nella Comunità ebraica soranese ed infatti nel 1753 Daniele era il Camerlengo della Comunità.

Contro di lui in tale anno fece ricorso Flaminio Sadun, che era stato gravato di 18 paoli con la forza pubblica, a suo parere ingiustamente, per la paga del rabbino, con un riparto «fatto dal Camerlengo a capriccio, con cui ha sgravato se stesso ed altri»; Flaminio, che si dichiarava ebreo povero, sosteneva che la ripartizione della paga del rabbino doveva essere uguale a quella per i birri e «le persone ordinarie sono sempre state gravate a ragione di un grosso al mese e un paolo più per chi ha bambini e li manda a scuola dal Rabbino»; per tale motivo chiedeva che venisse consultato «il libro presso i Massari o Rabbino dell'Università degli ebrei di Pitigliano»58. Questa espressione rende poco chiaro se céra ancora un rabbino a Sorano, o se questo venisse da Pitigliano per le feste principali, come accadde poco dopo per gli ebrei di Santa Fiora59. D'altra parte la Comunità ebraica di Sorano era ormai diminuita a sole sette famiglie, ridotte poco dopo nel 1760 a quattro per dodici persone, a tre nel 1774, quando Daniele Servi chiese ed ottenne l'esenzione dai tributi, a due sole nel 1777: quelle di Giuseppe Sadun e di Daniele Servi «unico avanzo del Ghetto».

La Comunità ebraica di Sorano è ormai alla fine; tuttavia sia Giuseppe Sadun che Daniele Servi dimostrano ancora vitalità economica, risultando nel 1783 proprietari di un certo capitale in bestiame: Giuseppa « possedeva 30 pecore, un montone e 3 capre, date in affitto a E. Benvenuti, che teneva anche 124 pecore di Daniele Servi, proprie altre 100 pecore e 14 capre in affitto a Giuseppe Benocci, abitante a grotte di San Quirico.

5. Tra Settecento e Ottocento: acquisti di opifìci e terre e nuove differenze economiche

«Nella seconda metà del Settecento l'avvenimento di gran lunga più importante e che incide profondamente sull'economia e sulla vita stessa delle antiche Contee granducali di Pitigliano e Sorano, è senza, dubbio l'alienazione dei beni demaniali». Infatti tra le numerose riforme illuministiche, a cui pose mano in Toscana il Granduca Pietro Leopoldo di Lorena, rientrò anche la vendita e l'allivellazione di notevoli quantità di beni, sia demaniali che comunitativi e di luoghi pii per favorire la formazione della piccola proprietà privata, che avrebbe dovuto costituire la base di uno sviluppo economico e demografico in varie zone della Maremma depressa e spopolata.

Uno degli esperimenti più riusciti fu proprio nell'area di Pitiglino e di Sorano, dove furono vendute tra il 1783 e il 1784 vaste estensioni di terra, edifici ed opifici, di proprietà demaniale.
In questo consistente processo di vendite si inserirono anche alcuni degli ebrei pitiglianesi più facoltosi, soprattutto i figli di Salomone di Raffaele Servi. Difatti Abramo Servi di Salomone, che era anche uno dei Massari della Comunità ebraica di Pitigliano, acquistò il 26-11-1783 per 6010 scudi nel territorio di Sorano la tenuta di Montarso di 335,8 ettari, in buona parte lavorativi, il resto a pastura o a bosco; il fratello Angelo Servi di Salomone e suo genero Giuseppe Sadun di Salvatore comprarono il 6-12-1783 il mulino con frantoio di Sorano, posto sul fiume Lente, e il frantoio sul fiume Prochio a Pitigliano, compreso un piccolo frantoio in grotta, ormai inservibile, per un totale di 7833 scudi; l'altro fratello Raffaele Servi di Salomone, definito «il negoziante primario della Nazione Ebrea» pitiglianese, comprò a sua volta i due mulini di Pitigliano: il Mulino vecchio sul fiume Meleta, il Mulino Nuovo sulla Lente, inoltre una porzione della Cittadella di Pitigliano con 9 stanze, due stanzoni e una fabbrica avviata accanto alla Porta, nonché il podere di Belvedere di 34,6 ettari, senz'altro il più bello di Pitigliano, con casa e stalle per bestiame, capace di produrre all'anno 2 moggia (9,6 q.li) di grano, 25 barili di vino, 14 boccali di 6 libbre d'olio, erbatici, foglia di gelso, noci, castagne e frutti vari, al prezzo complessivo di 6389 scudi.

Risulta che alcuni anni dopo, nel giugno 1796, Angelo Servi e Giuseppe Sadun cedettero per 651 scudi il frantoio di Pitigliano a Paolo Leoni nonché il mulino e il frantoio di Sorano per 3477 scudi a Scipione Selvi, ma si trattò probabilmente di una vendita fittizia, dettata forse dai timori indotti dalle armate rivoluzionarie francesi, che avevano occupato il porto di Livorno; poco tempo dopo infatti gli ebrei suddetti risultano ritornati in possesso degli stessi beni (e d'altra parte appare poco credibile che gli ebrei avessero venduto mulino e frantoi per un totale di 4128 scudi a fronte del prezzo di acquisto per complessivi 7333 euro, con un fortissimo scapito di ben 3205 scudi).

E evidente che gli ebrei pitiglianesi, che sono soprattutto commercianti, cercarono di accaparrarsi gli impianti di trasformazione dei prodotti dell'agricoltura (mulini, frantoi), non disdegnando però la proprietà terriera, verso la quale già da qualche decennio si erano orientati, essendo ormai caduto di fatto ogni divieto al riguardo nei loro confronti. D'altra parte gli ebrei già da tempo erano divenuti proprietari di piccoli appezzamenti di terra, prati o vigne, spesso acquisiti dai cristiani per debiti; ad esempio nel 1660 l'ebrea Stella d'Angelo possedeva una vigna in contrada Valle Morte, data in affitto ad un cristiano, mentre nello stesso anno 1783 gli eredi del defunto rabbino Leone Castelnuovo avevano avuto delle terre in contrada Corano e l'ebreo Isacco Conforzio possedeva una vigna di un'opera nella stessa contrada.

Nell'ambito delle riforme lorenesi, che portò in Maremma anche alla riforma delle Municipalità nel 1783, fu anche concesso agli ebrei di poter essere eletti nei Comuni come consiglieri (ma non ancora nel Magistrato comunitativo) e a Pitigliano fin dal 1786 fu eletto nel Consiglio della Comunità il primo ebreo: Angelo Febo. La stessa Università israelitica di Pitigliano, in forte aumento demografico, aveva avuto poco prima, nel 1778, un nuovo ordinamento, che prevedeva l'elezione di tre Massari e di un Camerlengo da rimanere in carica per due anni.

I rivolgimenti portati in Italia dalla Rivoluzione francese, seguita dal periodo napoleonico, determinarono una forte crisi sia per le guere che per il cambio continuo di assetti politici, che per le consistenti tassazioni imposte dai francesi e dovute soprattutto alle necessità della guerra.

Alla fine di marzo 1799 la Toscana è occupata dalle truppe rivouzionarie e il Granduca fu costretto ad andare in esilio. D’ora in poi «un grande sconvolgimento investe l'organizzazione statale toscana e il sistema politico tradizionale...Pitigliano è la prima città della Maremma ad erigere l'albero della libertà. Un gruppo di simpatizzanti democratici promuove per il 4 aprile l'innalzamento dell’albero repubblicano nella piazza principale (piazza della Fonte)...».

Tuttavia di tratta di una minoranza di pitiglianesi (per lo più pubblici e rappresentanti della borghesia professionale), sia cristiani che ebrei, tra i quali il più acceso era il commerciante Abramo Camerino seguito dal figlio Vitale e da David Servi e Leone Moscati, detto l’ebreo romano; la maggior parte degli ebrei di Pitigliano invece mantenne un atteggiamento di prudenza, ma ciò non impedì che si diffondesse che il Ghetto fosse un covo di «giacobini».

Ben presto i rivoluzionari francesi, al di là dei principi di libertà, uguaglianza, fraternità, presentarono piuttosto il volto militare della loro occupazione con dure conseguenze e forti delusioni; così cominciarono «le confische e le requisizioni; in pochi mesi la rapacità degli occupanti spoglia delle sue maggiori ricchezze l'intera regione, lasciando la popolazione nella fame nel momento più critico dell'anno, quello che precede il nuovo raccolto…. La crisi viveri raggiunge livelli drammatici anche a Pitigliano: con del grano si aggravano drasticamente le condizioni di vita delle masse popolari, già in difficoltà a causa della stagnante situazione economica e dello scarso raccolto del 1798».

Tra maggio e giugno 1799 Pitigliano venne costretto a fornire in continuazione derrate: soprattutto vino alle truppe francesi in grano e altri generi a Siena ed altri luoghi, mentre si profilava per il paese lo spettro della fame, solo momentaneamente scongiurato dal una certa quantità di grano, già venduto ai francesi dai maggiori proprietari del territorio.

Intanto l'intervento in Italia dell'esercito austro-russo, che sconfisseripetutamente i francesi, favorì il dilagare dell'insorgenza antifrancese cominciata con il movimento cosiddetto del Viva Maria ad Arezzo ai primi di maggio 1799, che si estese tra giugno e luglio anche alla Maremma. Nota è la vicenda cosiddetta della notte della rivoluzione e poi della notte degli orvietani, connessa ai moti del Viva Maria nel 1799, quando la popolazione pitiglianese in tumulto difese gli ebrei del luogo, del tutto in controtendenza con gli eccidi di ebrei, che avvennero invece in altre parti, anche in Toscana.

Nel giugno-luglio 1799 a Pitigliano gli avvenimenti si susseguirono a ritmo incalzante; la reazione antifrancese provocò il 16 giugno l'arresto dei sospetti "giacobini", sia cristiani che ebrei, da parte di una folla, che abbattè l'albero della libertà, poi assalì anche il Ghetto, irruppe nelle case, distruggendone le suppellettili e arraffando quanto possibile, e portò in prigione 32 persone, di cui 14 ebrei, compreso l'ottantenne Abramo Servi "di cui non seppero neppur loro la cagione della carcerazione"; qualche giorno dopo tutti furono liberati, eccetto Abramo Camerino, che morì per le ferite riportate, e il giovane commerciante David Servi, che avevano dimostrato aperte simpatie per i francesi.

Il tumulto nel Ghetto comunque coinvolse anche Giacobbe Servi e i nipoti Samuele e Isacco Vita figli del suddetto Abramo; Isacco Vita Servi lasciò una interessante memoria manoscritta di quegli avvenimenti, a cui attinse poi il pronipote Flaminio Servi.

Ma il 28 giugno, proprio quando a Siena venne compiuto un eccidio di ebrei, un possibile nuovo assalto al Ghetto di Pitigliano fu sventato dagli stessi maggiorenti pitiglianesi: «la notte - testimonia Isacco Vita Servi - stiedero tutti li meglio del paese in nostra difesa».

Poi ai primi di luglio giunse a Pitigliano un gruppo di sette dragoni del Viva Maria, che nei giorni successivi compirono soprusi, insulti e taglieggiamenti verso gli ebrei; la popolazione cristiana li guardava con sospetto e crescente scontento, finché il popolo stesso si sollevò in tumulto in difesa degli ebrei contro i dragoni, uccidendone quattro e riducendo a mal partito gli altri, che il popolo potè avere nelle mani. L'episodio di difesa degli ebrei da parte della popolazione cristiana a Pitigliano rimase unico all'epoca, in cui la reazione antifrancese provocò eccidi nei confronti degli israeliti a Siena, a Monte San Savino, a Senigallia; l'avvenimento fu a lungo celebrato dalla Comunità ebraica pitiglianese con apposita cerimonia nella Sinagoga e con la composizione di inni in memoria dell'accaduto .

Ma il fatto provocò anche l'apertura di un processo contro i responsabili dell'eccidio: «i primi arresti (una decina di persone) avvengono solo il 17 settembre 1799. Presto divengono sempre più numerosi. In certo modo è tutto il paese che viene sottoposto a giudizio: gli imputati alla fine saranno oltre sessanta... Certamente non c'è famiglia pitiglianese che non sia coinvolta, direttamente o indirettamente, nella vicenda. Non vi è dubbio che ne soffrano la vita associata e l'economia. Oltretutto il paese deve sostenere la presenza di un intero reggimento di soldati, inviati da Firenze con l'evidente scopo di garantire l'ordine».

Poi il reggimento fu ritirato e sostituito da un picchetto di soldati e il processo venne limitato a soli nove imputati, finché nel 1801 intervenne una generale amnistia.

In questi anni calamitosi, con il ritorno in Italia dei francesi vittoriosi a Marengo nel giugno 1800, le condizioni generali di Pitigliano andavano aggravandosi, tanto più che il paese rimase quasi privo di bestiame, morto in massima parte per un morbo epizootico nel 1801; così venne a mancare uno dei capi principali della ricchezza economica della zona e negli anni successivi anche il traffico commerciale, prima molto fiorente specie con lo Stato Pontificio, quasi scomparve, l'agricoltura cadde in cattive condizioni specie la produzione del vino, il prodotto principale, che risentiva molto dei dazi imposti dai francesi, a cui i pitiglianesi erano sottoposti in misura maggiore di altri per le particolari condizioni del paese75. Ne abbiamo precisa notizia da una Memoria del Maire Ugolini, databile intorno al 1810, che lamentava «l'infelice situazione di Pitigliano e territorio e la desolata oppressione degli abitanti per il nuovo ordine di cose».

In tali circostanze non mancarono i reclami degli ebrei alle autorità per l'eccesso di tasse, e tra i più insistenti troviamo nel 1812-1813 i fratelli Leon Vita, Mattio, Mosè e Salomone Servi.

La crisi economica di quegli anni evidentemente modificò anche le condizioni degli israeliti, tanto che negli elenchi degli ebrei pitiglianesi, stilati nel 1810-1811 per motivi fiscali, troviamo che le famiglie Servi erano differenziate dal punto di vista economico. Tuttavia qualcuno era riuscito a trarre profitto dalla nuova situazione Angelo Servi infatti era ancora uno dei quattro ebrei più ricchi di tutto il Dipartimento dell'Ombrone.

Gli altri Servi però risultano scaglionati in tutte le categorie economa tra i "Benestanti di seconda classe" c'è il solo Salomone di Giuseppe Servi (famiglia di 7 persone), tra i "Mediocri di prima classe" troviamo Giaccobbe (5 persone) e Angelo (3) di Salomone Servi, Isacco di Vita Servi (6) fratelli Leon Vita (4), Salomone (4), Mosè (5) e Mattio (3) Servi, ' "Mediocri di seconda classe" sono compresi Daniel Servi (4) e Samuele Ajal Servi (7), tra i "Poveri artisti" Angelo Servo Servi (5) e tra i "Poveri da sussidio" Isacco di Salomone Servi (2).

I Servi, che arrivavano a una cinquantina di individui per 13 famiglie, restavano comunque i più numerosi tra gli ebrei di Pitigliano, costituendo un buon quinto dell'intera popolazione ebraica della cittadina, che era di 243 persone per 53 famiglie.

Interessante è notare la posizione di Angelo di Salomone Servi, classificato tra i "mediocri di prima classe" quando insieme al genero Giuseppe Sadun aveva comprato nel 1783 mulino e frantoio a Sorano e il frantoio di Pitigliano; evidentemente nel periodo francese i beni, acquistati dagli ebrei con le vendite del 1783 volute dal Granduca, erano stati ceduti a cristiani ed infatti nel Catasto del 1825 non se ne trova più traccia. In compenso due ebrei risultano proprietari di consistenti proprietà terriere: Salomone Servi per circa 55 ettari in appezzamenti contigui, e Giacobbe Ajò per 277 ettari con la stessa configurazione, mentre altri ebrei possiedono solo piccoli o piccolissimi appezzamenti e qualche vigneto. Ma con la Restaurazione ripresero piuttosto intensamente i traffici e i commerci degli ebrei pitiglianesi, alcuni dei quali ricompaiono con forti interessi anche a Sorano, come i fratelli Abramo Raffaello e Giuseppe Servi, attivi negozianti, intorno al 1835.

Nella prima metà dell'Ottocento infatti continuò rapidamente la crescita demografica, economica e culturale della Comunità ebraica di Pitigliano, che trovò un suo assetto più stabile nel 1839 con l'emanazione del Regolamento organico per l'Università israelitica di Pitigliano.

Fonte: Maremma Quaderno Storico. A cura di Lucio Niccolai. Ed. Moroni

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