Le attività minerarie a Selvena



tratto da La Roccaccia di Selvena. Rapporto preliminare degli scavi e della ricognizione archeologica 1999

Il castello di Selvena è situato in posizione dominante rispetto ad un'area mineraria che consentiva una agevole ed abbondante estrazione di minerali utili alla produzione di mercurio, antimonio e vetriolo. La possibilità di sfruttare queste risorse minerarie costituì il motivo principale dell'importanza assunta dal castello per gli Aldobrandeschi, casata comitale che risulta controllare l'insediamento fortificato a partire dal secolo XI; tra le coltivazioni minerarie assunsero un eccezionale rilievo quelle relative alle risorse mercurifere, dal momento che le argenti fodine di Selvena, contese nel secondo Duecento tra i due rami della famiglia, erano con ogni probabilità costituite da escavazioni di "argento vivo", vale a dire di mercurio.

1. L'antimonio ed il vetriolo

Il trattatista senese Vannoccio Biringucci nella sua opera De la Pirotechnia, edita a Venezia nel 1540, menziona alcune miniere d'antimonio situate "nel contado di Santa Fiora, presso a una terra chiamata Selvena" e probabilmente allude al medesimo comprensorio quando riferisce della produzione di vetriolo "nel contado di Santa Fiora".

Un inventario redatto nel 1502, per conto del conte Guido Sforza, in occasione dell'affitto delle rendite della contea a favore di una società di cui faceva parte Giovan Battista Giordani menziona "una bilancia con la sua padella nuova di ferro" ed "un ramaiolo di ferro da antimonio", probabilmente utilizzato per fondere il metallo in caso di rinvenimento (L'inventario - nuovamente pubblicato senza sostanziali variazioni in Benocci 1999 - è edito in BENOCCI 1996, pp. 39-42 e viene descritto in BENOCCI 1996, p. 35). Relativamente alla produzione di vetriolo in Selvena disponiamo di una più dettagliata descrizione effettuata attorno al 1590 dal naturalista Michele Mercati, che la inserì nella sua Metallotheca Vaticana, edita postuma tra il 1717 ed il 1719, allegando anche una raffigurazione degli impianti. Secondo il Mercati, l'estrazione avveniva sia a cielo aperto, sia in gallerie o in pozzi, ma, in questo caso, era ostacolata dal rinvenimento di "putizze", vale a dire di esalazioni termali che rendevano difficoltoso il proseguimento degli scavi. Il minerale estratto veniva ammucchiato e lasciato ad asciugare per essere sgretolato; successivamente la polvere così ottenuta veniva disciolta in grandi vasche riempite d'acqua e lasciata decantare, sino a che la soluzione, immessa in grandi caldaie di piombo, era portata più volte ad ebollizione con fuoco di legna; infine la soluzione veniva versata in casseforme di legno di castagno nelle quali avveniva il "congelamento" del vetriolo, che ne veniva estratto sotto forma di pani.

La produzione di vetriolo è ampiamente documentata nel corso del secolo XVII, ma entrò in crisi nel primo Settecento; successivamente, dopo un periodo di stasi (VICARELLI 1991, p. 75), questa attività riprese temporaneamente vigore per iniziativa dei duchi Sforza Cesarini attorno al 1760 (MAMBRINI, MERLI 1999, pp. 26, 34).

2. Il mercurio

Per quanto concerne la produzione di mercurio riveste notevole interesse il ricordato inventario del 1502, ove sono descritti, tra l'altro, i "ferramenti attenenti alle cave del mercurio": si trattava prevalentemente di attrezzi da scavo (un palo, due mazze, quattro zappe, sei zappastri, otto picconi, una pala, tutti realizzati in ferro) e di arnesi da carpenteria (uno scarpello, un'accetta da falegname e una sega da falegname), ma erano presenti anche alcuni strumenti utili al trattamento metallurgico, quali "due raspini di ferro per le fornaci, una paletta di ferro da stuzzicare il fuoco alle fornaci".

Le notazioni più interessanti che si ricavano dall'inventario riguardano proprio gli impianti metallurgici utilizzati per la produzione di mercurio, dal momento che attestano l'adozione di una tecnica metallurgica piuttosto avanzata. Infatti, all'interno di un edificio denominato "casotto del mercurio", forse ubicato presso la rocca di Selvena, erano collocate "due fornaci da mercurio, guaste da rassettarsi" - di cui si conservavano anche "due coperchi di ferro usati per serrare la bocca delle fornaci" - e un'altra fornace ormai in disuso (BENOCCI 1996, p. 39); in altri locali ubicati nell'area sommitale di Rocca Silvana erano conservati "un tavolino vecchio usato da fornace", "una forma tonda da fare le canne per le fornaci, tutta rotta" ed alcuni "pezzi di forme da far la cuppola alle fornaci, parimente rotte". Queste indicazioni ci consentono di definire, seppure in via approssimativa, la tipologia delle fornaci da mercurio utilizzate a Selvena: in primo luogo le indicazioni contenute nel documento riguardano forni di ridotte dimensioni, tali da consentire la presenza di tre impianti all'interno di un unico ambiente di modesta estensione (come è lecito supporre per l'uso del termine "casotto"); in secondo luogo i riferimenti agli stampi (forme) per realizzare in terracotta alcuni componenti delle fornaci, quali la cuppola e le canne a sezione cilindrica, permettono di descrivere la parte sommitale delle stesse nei termini di una calotta laterizia dalla quale si dipartiva un condotto nel quale il mercurio gassoso avrebbe dovuto condensarsi per confluire negli appositi contenitori. Sulla base di queste indicazioni, perciò, è possibile affermare che la struttura degli impianti di Selvena, in disuso all'inizio del XVI secolo, era simile a quella più chiaramente descritta nel già menzionato trattato sulla tecnica metallurgica de la Pirotechnia del senese Vannoccio Biringucci (1480-1537), sostanzialmente coevo all'inventario in esame. Si tratta, in particolare, del tipo di fornace più raffinato e costoso tra gli impianti utilizzati per la produzione di mercurio, che il trattatista senese affermava di non aver visto di persona - forse a causa della sua limitata diffusione nell'Italia centrale - ma che descrisse sulla base di testimonianze dirette (Cfr. Biringuccio 1540, cc. 22v-25v e, in particolare, c. 25 r-v. Descrizioni analoghe, in parte riprese dal trattato del Biringuccio, si ritrovano anche nel De re metallica di Giorgio Agricola AGRICOLA 1556, pp. 346-349). Il tratto caratterizzante dell'impianto produttivo era costituito dalla presenza di un coperchio in terracotta dotato di un lungo cannello che veniva posto sopra il recipiente nel quale il cinabro veniva riscaldato sino alla temperatura di evaporazione del mercurio; questa canna consentiva da un lato di conseguire un più rapido raffreddamento, necessario per la condensazione del metallo, e dall'altro permetteva di dirigerne il flusso sino al recipiente di raccolta. Alcune dettagliate descrizioni degli impianti metallurgici in uso a Selvena nella prima metà del secolo XVIII, come quelle proposte dal tecnico minerario Giovanni Arduino e dal naturalista Giorgio Santi, consentono di affermare che le strutture utilizzate successivamente non differivano nella sostanza dai forni quattrocenteschi e che, pertanto, quello che nel secolo XV si presentava come un settore produttivo tecnologicamente avanzato non conobbe in seguito innovazioni tali da introdurre sostanziali adeguamenti tecnici.

NOTA

Sullo sfruttamento delle mineralizzazioni di antimonio, allume e vetriolo a Selvena cfr. Biringuccio 1540; Mercati 1717-1719, pp. 61-63; Targioni Tozzetti 1777, pp. 61-63; Santi 1795, p. 188; VICARELLI 1991, pp. 70-71; Biondi 1990; MAMBRINI, MERLI 1999; FARINELLI, Francovich 1999; FARINELLI 1999 ed i documenti editi in Benocci 1999, n. 7, pp. 62-63 ed in BIONDI 1990, p. 20

Non mancano elementi di ambiguità nell'attribuire le menzioni del "Palazzo di Selvena" riscontrate tra XVI e XVIII secolo, alle strutture del castello oppure ad un edifificio distinto, posto nell'attuale abitato di Selvena (come emergerebbe soprattutto dalla descrizione proposta SANTI pp. 183 ss. su tale problematica cfr. comunque MAMBRINI, MERLI 1999) A nostro giudizio, alcuni elementi - quali ad esempio la presenza di granai, che nel 1501 sono detti ubicati presso la Rocca e nel 1770-1780 sono detti annessi al palazzo feudale (cfr. i documenti editi in BENOCCI 1996, p. 40 e MAMBRINI, MERLI 1999, p. 34)-, consentono di affermare che sino ai primi decenni del XIX secolo con l'espressione palazzo di Selvena si intendeva designare anche il complesso architettonico posto nell'area sommitale della rocca.

BIBLIOGRAFIA

Francovich R,. et alii 1997a, Archeologia e storia a Rocca Silvana, "Amiata. Storia e territorio", 26, pp. 14-21.

Francovich R,. et alii 1997b, Progetto Selvena. Dati di scavo, analisi degli elevati e fonti scritte: prime acquisizioni, in Francovich R., Valenti M., a cura di, La nascita dei castelli nell'Italia medievale. Il caso di Poggibonsi e le altre esperienze dell'Italia Centrosettentrionale, Relazioni preliminari del convegno, Poggibonsi, 1997, pp.151-170.

Francovich R., et alii 1999, La Roccaccia di Selvena (Castell'Azzara - GR). Relazione preliminare delle indagini 1997-1998, "Archeologia Medievale", XXVI, pp. 139-150.

Fonte: La Roccaccia di Selvena. Rapporto preliminare degli scavi e della ricognizione archeologica 1999

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